Andrea Moro: l’introduzione di meccanismi decentrati di certificazione di pratiche cosiddette “socialmente responsabili” mi pare buona cosa in un mondo in cui il cittadino-consumatore ha a cuore queste problematiche. Serve a risolvere potenziali problemi informativi e ad aiutare consumatori e lavoratori a compiere scelte informate.
Sulla sostanza delle posizioni illustrate, forse è perché fra Freeman e Friedman ci sono solo 2 lettere di differenza, ma non vedo grossi contrasti. Ho l'impressione che il primo sembri fare un processo alle intenzioni ad alcune imprese per le modalità di remunerazione dei dipendenti e degli azionisti da esse scelte, e sulle scelte di impiego della remunerazione del capitale proprio. Faccio un semplice esempio: un’imprenditore di una azienda di successo della mia provincia di origine era famoso per offrire ai propri dipendenti vari benefits, fra i quali una settimana bianca aziendale durante la quale i dipendenti potevano recarsi assieme a sciare e divertirsi in montagna. I dettagli non li conosco e non li ricordo, ma supponiamo che quanto ricordo sia corretto. Quando un mio parente, dipendente della ditta, mi raccontò questo aneddoto non riuscii a fare meno di pensare a cosa avrei fatto della settimana bianca io che non so sciare. Di esempi così se ne possono trovare a bizzeffe: Google offre nelle sue mense alta cucina francese (senza chiedersi cosa ne pensano i dipendenti che preferiscono un panino veloce), Vanderbilt permetterà a mia figlia (se sarò ancora suo dipendente quando andrà all'università) di frequentare qualsiasi ateneo rimborsandoci il 70% della tuition (senza che ai colleghi senza figli venga corrisposto alcun beneficio equivalente), e così via. Il concetto è chiaro: la compensazione del lavoro si effettua su svariate dimensioni: retribuzione monetaria, giorni di vacanza, qualità dell’ambiente di lavoro, cestone natalizio, e così via. Gli ammontari risultano dalla contrattazione fra datore e lavoratori o loro rappresentanti. Mi chiedo, dunque, quale sia la differenza fra un’azienda che sceglie di pagare meno ma offrire condizioni migliori, e un’azienda che sceglie il contrario.
Francesca Barigozzi e Sonia Milanesi: esistono diverse forme non monetarie di compensazione che possono affiancare quelle monetarie. Ma tu stesso esprimi perplessità sul fatto che tutti i dipendenti possano davvero apprezzare la settimana bianca oppure il cibo francese. Invece immagino che lo sci e il cibo francese piacciano molto ai proprietari o ai manager delle imprese che citi e che questi ultimi non abbiano necessariamente avviato una trattativa con i rappresentanti dei loro dipendenti per vedere quanti tra questi erano contenti di questo benefit o avrebbero preferito ricevere il corrispettivo in denaro (forse il cugino del proprietario possiede un albergo in Val Gardena e gli offre condizioni di favore, oppure un caro amico ha appena finito un corso di specializzazione in nouvelle cuisine…). Una cosa è offrire benefit di questo tipo, altra cosa è avviare un processo di consultazione aziendale per concordare insieme ai dipendenti azioni condivise che migliorino la loro qualità della vita, come orari flessibili adatti alle esigenze famigliari.
Freeman con il suo approccio multistakeholder, indica che un'impresa deve avere un'attenzione particolare non solo nei confronti dei propri azionisti, ma nei confronti dei cosiddetti “portatori di interesse”. In questo senso, l'impresa deve dimostrare di avere la sensibilità di venire incontro alle esigenze espresse dai propri stakeholders e di tenerne conto nella formulazione stessa dei propri piani aziendali. L'azienda, secondo l'approccio multistakeholder, non dev'essere solo una “macchina da soldi”, ma deve integrarsi nella maniera più armonica possibile nell'ambiente sociale e naturale che la circonda.
Friedman nel suo libro “Capitalism and Freedom” esprimeva la sua preoccupazione: “pochi altri trend hanno il potenziale di minare la base della nostra libera società come l'assunzione da parte di imprenditori e managers di responsabilità sociali altre da quelle di realizzare più profitti possibili per i loro stockholders”. Invece, i promotori della responsabilità sociale di impresa ritengono che quest’ultima può essere considerata proprio una pratica strategica per massimizzare i profitti dell'impresa. Lo stesso Freeman ha intitolato il suo libro “Strategic Management: A Stakeholder Approach”. Infatti, è convinzione di Freeman che il rispondere, l'includere ed il venire incontro agli stimoli provenienti dai propri stakeholders risulti essere conveniente per l'impresa e per i suoi shareholder stessi.
Alla luce di ciò, l'osservazione che le pratiche di responsabilità sociale nei confronti dei dipendenti risultano essere nient'altro che una modalità non monetaria di retribuzione del dipendente è giusta, ma ciò che è importante è verificare che l'approccio multistakeholder sia correttamente interpretato ed attivato. L'approccio multistakeholder di Freeman suggerisce al management di prendere in seria considerazione quali azioni potrebbero essere intraprese per migliorare la qualità della vita del dipendente. Se questo viene svolto in maniera seria e corretta, con interviste aziendali o, in ogni caso con una modalità più inclusiva possibile, l'azienda raggiunge un duplice obiettivo: avere dipendenti più contenti e motivati e migliorare la propria performance. Per ciò che riguarda la correlazione tra pratiche di responsabilità nei confronti di dipendenti e miglioramento della performance aziendale, solitamente vengono individuati due canali di connessione:
- queste pratiche possono essere un modo per attirare i migliori talenti nell'impresa, dunque esse possono essere considerate una pratica di “signaling”. All'ultimo career-day dell'Università di Bologna, giornata dedicata all'incontro tra laureandi e imprese, alcune tra le più grandi aziende hanno basato la loro presentazione sulla CSR nei confronti del dipendente. Elica ha fatto la rassegna dei premi vinti come “best place to work” mentre Domopack ha mostrato le fotografie della festa organizzata per i propri dipendenti che avevano raggiunto i vent'anni di servizio. Ely Lilly ha incaricato della propria presentazione una manager che ha minuziosamente spiegato in che modo l'azienda le ha permesso di conciliare serenamente il proprio ruolo di madre, moglie e manager.
- esse sono un modo per avere una buona immagine all'esterno, al pari di politiche ambientali d'impresa o dell'apertura di linee biologiche o equo-solidali tra le proprie linee di produzione.
Per riassumere: Friedman sostiene che il massimo benessere sociale si auto-realizza nel momento in cui le imprese si concentrano sulla massimizzazione dei loro profitti, garantendo in questo modo l'ottimale funzionamento del mercato e dell'azione della “mano invisibile” e che dunque le imprese non debbano occuparsi di altro che del raggiungimento di questo obiettivo. Freeman ritiene che se l'impresa adotta un approccio più inclusivo, ascoltando e prestando attenzione alle esigenze di consumatori, dipendenti e della società in genere, assumendosi dunque le sue responsabilità sociali, questo distoglie solo apparentemente l'impresa dai suoi obiettivi di massimizzazione del profitto e risulta, nel lungo periodo, in un miglioramento delle performance d'impresa.
Andrea Moro: continuo a non vedere le differenze fra i pensieri di Friedman e Freeman: se Freeman sostiene che certe pratiche, che chiamiamo per sempliticà CSR, massimizzano il profitto, allora non c’è alcuna differenza. Sta semplicemente dicendo alle imprese “guardate che ai lavoratori interessa lavorare in un ambiente sano, e che questo aumenta la produttività”. Se così è, come si fa a non essere d’accordo? In altre parole, sia Freeman che Friedman sono d’accordo che le imprese debbano massimizzare i profitti, e che nel facendolo si raggiunge l’ottimo (Paretiano, per lo meno). Freeman sa anche, o sostiene di sapere, come si gestisce un'impresa e offre quelche indicazioni ai suoi lettori-imprenditori. Ma io credo ci sia qualcosa di più, e cioé che per Freeman pratiche CSR siano auspicabili più che ottimali. Occorre allora chiedersi da quale punto di vista siano auspicabili.
Consideriamo un esempio concreto. Un recente articolo sul New York Times spiegava perché la Apple non produce iphones in America. Un dirigente raccontava che, a seguito di una decisione dell’ultimo minuto, la fabbrica cinese dovette riorganizzare la produzione degli schermi. Svegliarono 8000 lavoratori, gli diedero la colazione, e li misero a lavorare a turni di 12 ore, ed entro tre giorni ricominciarono a produrre 10mila iphones al giorno. “La velocità e la flessibilità [con cui operano i cinesi] fanno togliere il respiro”, disse il dirigente. “Nessuna fabbrica americana può operare in modo simile”. È socialmente responsabile far dormire i dipendenti in dormitori, svegliarli senza preavviso, e farli lavorare a turni di 12 ore? Diciamo di no. Questo mi dice che, almeno per la Apple, un comportamento socialmente IRresponsabile è redditizio, mi rifiuto di pensare di aver maggiore acume industriale e senso degli affari di Steve Jobs.
Dall’esempio si impara anche che la società americana non accetta più certe condizioni di lavoro, quella cinese sì. È socialmente responsabile decidere di non produrre in cina per questi motivi? Non ne sono tanto sicuro. Come avete scritto, la CRS è un “bene normale”: la domanda cresce con il reddito. In sostanza, gli americani si “comprano” le condizioni di lavoro migliori perché, essendo più produttivi, possono permettersele. I cinesi, per ora, non possono. Piuttosto della fame di trent’anni fa, scelgono di produrre a condizioni disagiate, così come fecero gli Italiani 60 anni fa, e gli americani 100 anni fa. Al crescere del reddito, rivendicheranno condizioni migliori, come sta gia accadendo. La cosa può piacere o meno, ma non vedo come si possano rendere i cinesi produttivi come i tedeschi senza uno sviluppo tecnologico, sociale e normativo che ha richiesto decenni per essere compiuto da tutti i paesi avanzati. Io temo che i diritti civili ed umani rivendicati per i lavoratori cinesi costerebbero, se imposti dai consumatori occidentali, un percorso più lento verso lo sviluppo di quelle popolazioni, a vantaggio della nostra coscienza.
Francesca Barigozzi e Sonia Milanesi. Due precisazioni sono necessarie. In primo luogo, la produttività dei lavoratori non sempre aumenta in proporzione alle ore lavorative. Per certi tipi di mansioni, nello specifico per le mansioni meno routinarie, le azioni di responsabilità sociale d'impresa possono risultare un mezzo efficace per stimolare la produttività dei lavoratori. Inoltre, come già sottolineato nell’articolo, la CSR può aiutare le imprese a reclutare lavoratori più motivati (che spesso hanno una produttività maggiore).
In secondo luogo, è chiaro che le aziende che decidono di delocalizzare le proprie attività in un paese in via di sviluppo sono spesso interessate a ridurre i costi del personale, per lo meno per ciò che riguarda le attività più routinarie. Come nell'esempio citato da Andrea, ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo viene spesso proposto un orario di lavoro più consistente a fronte di retribuzioni più basse rispetto a ciò che avviene nei “paesi sviluppati” dove le aziende in oggetto spesso hanno i propri head-quarters. È altrettanto chiaro che la delocalizzazione delle attività produttive in paesi in via di sviluppo costituisce un'importante motore di sviluppo per i paesi “ospitanti”.
Tuttavia, le imprese che delocalizzano le proprie attività produttive in paesi in via di sviluppo possono decidere di sfruttare questi vantaggi comparati senza sfociare in episodi di sfruttamento dei lavoratori. In questo senso, alcune grandi multinazionali che operano in paesi in via di sviluppo basano la loro strategia di vendita almeno in parte sul fatto di garantire alle popolazioni dei paesi ospitanti condizioni di vita dignitose ed un aumento della qualità della vita. Gli esempi variano da multinazionali quali Nike e Nestle che hanno recentemente aggiunto ai propri obiettivi strategici il miglioramento delle condizioni lavorative dei propri operai e lo sviluppo comunitario (www.nikeresponsibility.com; www.nestleprofessionals.com) fino alle aziende che hanno introdotto tra le proprie linee di produzione prodotti equo e solidali come Starbucks, Cadbury e Nestle. Ciò mostra che alcune imprese, pur avendo delocalizzato la produzione, hanno trovato profittevole rispondere all’interesse per la CSR dei loro (potenziali) consumatori.
Andrea Moro: non sono sicuro che queste imprese abbiano scelto liberamente di operare responsabilmente. Mi pare sia ampiamente documentato che questo sia stato fatto sotto pressione dei propri clienti, organizzati sotto vari gruppi di pressione. Certo, sarebbe meno profittevole per loro fare altrimenti, perché perderebbero una fetta di clientela, sensibile a questi temi. Faccio solo notare che in questo caso i clienti occidentali, non quelli dei paesi in via di sviluppo, hanno deciso quale sia una condizione lavorativa accettabile per i produttori dei beni da loro consumati. Che questo sia nell'interesse dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo è tutto da dimostrare.
C’è poi un’altra questione. Anche se i CSR non sono ottimali per l’azienda, potrebbero esserlo collettivamente. È, questo, un secondo motivo per auspicare un qualche intervento (normativo, o di pressione psicologica), in quella direzione. In generale sono restio a concedere l’intervento normativo a meno che esista un’esternalità chiaramente individuabile. L’esempio dei cibi biologici rivela una possibile china scivolosa: è noto che non esiste nessuna connessione dimostrata scientificamente fra cibo biologico e qualità gastro-sanitaria dello stesso. Certo, un sacco di gente compra cibo biologico, io fra questi. Ma perché auspicare che le aziende debbano orientarsi verso cibi biologici? A me verrebbe da dire, lasciamo libertà ad aziende e lavoratori di scegliere le condizioni di lavoro e salariali che ritengono opportuni. Se un’azienda vuole concedere particolari condizioni ambientali, attirerà lavoratori sensibili a questi fattori, che saranno disposti a riceverle in cambio di un corrispettivo inferiore rispetto a lavoratori meno sensibili. Questi ultimi verranno attratti da aziende che non li offrono, in cambio di una maggiore ricompensa. Che c’è di male in tutto questo?
Francesca Barigozzi e Sonia Milanesi: Innanzitutto, quando si parla di CSR si intende un'insieme di azioni intraprese volontariamente dalle imprese, senza alcun intervento normativo da parte delle istituzioni. Nel nostro articolo, facciamo riferimento ad un interessamento da parte di istituzioni nazionali e sovrannazionali per quanto riguarda le tematiche di responsabilità sociale d'impresa, nel senso che queste istituzioni incoraggiano l'adozione spontanea di queste pratiche.
L'osservazione che sia efficiente lasciare liberamente scegliere i consumatori e i lavoratori se preferire aziende socialmente responsabili o aziende che non applicano pratiche di responsabilità sociale d'impresa è supportata dalla teoria economica. Per esempio Besley e Ghatak (2005, AER) mostrano che il matching spontaneo tra lavoratori e imprese che condividono la stessa “mission” aumenta il benessere sociale perché permette di risolvere in modo più efficiente il problema del moral-hazard.
Come Andrea scrive, le istituzioni auspicano e tentano di incoraggiare l'adozione di pratiche di responsabilità sociale d'impresa anche perchè spesso esse rappresentano una soluzione, decentralizzata al mercato, di alcuni problemi dovuti alla presenza di esternalità negative (ambientali e sociali) chiaramente individuabili.
L'interpretazione di Moro, circa le differenze tra Freeman e Friedman, appare molto interessante, e alla fine appare essere il perno centrale dell'intera questione delle CSR.
Non capisco a proposito se il duo Barigozzi/Milanesi ritiene invece che le pratiche di CSR possano/debbano essere realizzate anche a discapito del valore per gli shareholders e della massimizzazione del profitto (ovviamente nel lungo periodo)
In sostanza, le pratiche di CSR sono finalizzate all'interesse (finale,indiretto,rimandato o che dir si voglia) delle imprese, o nell'esclusivo interesse degli stakeholders?
Edoardo
Non conosco la risposta di Barigozzi/Milanesi ma conosco la risposta che mi sono dato io discutendone con esperti.
La massimizzazione del profitto resta la missione principale dell'azienda. Due dei punti fermi che si pongono sono generalmente che non si fa CSR quando si è obbligati da una legge ne si fa CSR quando si dona parte dei propri profitti (si chiama beneficienza!).
Vedo che in questa discussione mancano alcuni concetti essenziali. Veniamo al concetto di massimizzazione del profitto. Cosa significa? Se Apple volesse massimizzare i profitti potrebbe smettere di produrre iPhone e mettersi a scommettere sul mercato dei derivati con leva altissima e fare un sacco di soldi (sto semplificando). Qual'è il problema di questo approccio? Prima di tutto Apple starebbe cambiando il proprio set "Vision-Mission-Strategy" che sono quello in cui gli Shareholders hanno investito. Il secondo problema è che Apple starebbe aumentando i profitti in cambio di un aumento del rischio. In generale quando si parla di massimizzazione dei profitti è necessario anche capire i rischi connessi alla massimizzazione dei profitti e di fatto si tratta di trovare un ottimo paretiano tra massimizzazione del profitto e minimizzazione del rischio.
In questo senso le pratiche di CSR si inseriscono nelle pratiche aziendali in quanto CSR produce una forma di "brand insurance" che i sostenitori delle pratiche di CSR sostengono ridurre i rischi.
Solo in questo senso si riesce a riconciliare correttamente Friedman e Freeman. Non nego gli effetti di CSR su altri elementi: l'idea di attrarre i migliori lavoratori con benefit vari è sicuramente un modo di massimizzare i profitti ma non si potrebbe dimostrare la differenza tra una società come Goldman Sachs che ha un pessimo record in fatto di CSR ma è altamente profittevole ed offre i migliori benefit ai propri dipendenti migliori per trattenerli (ed è una mossa di massimizzazione del profitto in perfetto stile Friedman).
Ricorda che gli shareholders sono i primi stakeholders dell'impresa. Inoltre solo l'ultima delle tre interpretazioni di CSR illustrate nell'articolo introduttivo non è compatibile con la massimizzazione del profitto.