Tre principali quesiti si pongono sul tema:
- Complessivamente, i finanziamenti dello stato sono sottodimensionati rispetto ai livelli di paesi con analogo grado di sviluppo?
- I finanziamenti dello stato sono ben indirizzati, vale a dire lo stato distribuisce bene, in base a validi criteri, i finanziamenti tra i singoli atenei?
- Gli atenei, a loro volta, utilizzano bene le risorse ottenute?
Partendo da tali quesiti e senza pretesa di rispondervi esaurientemente, cercherò di argomentare la mia lontananza dallo stato di agitazione che mi circonda.
Per quanto riguarda il primo quesito, si deve a Roberto Perotti aver chiarito (già in The Italian University System: Rules vs. Incentives e di nuovo in "L'Università truccata", Einaudi) che la mancanza di fondi è un falso mito. Tenendo opportunamente conto della circostanza che un numero notevole di studenti iscritti non ha più un rapporto con l'università e dunque non grava in alcun senso sulle strutture universitarie, la spesa annuale per studente risulta in Italia "la più alta al mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia".
Ma se, in rapporto al numero di studenti equivalenti a tempo pieno, le risorse complessive attribuite al sistema universitario non sono sottodimensionate, problemi seri sorgono dalla loro distribuzione e dal loro utilizzo. In misura assolutamente prevalente, lo stato ha fino ad oggi finanziato gli atenei sulla base di un criterio di "spesa storica". Vale a dire, garantire a ciascun ateneo la disponibilità di fondi dell'anno precedente è stato l'obiettivo prioritario delle singole assegnazioni in ciascun anno. I finanziamenti non sono stati mai collegati in modo significativo a una valutazione dei risultati, in particolare delle attività di ricerca. Un sistema di incentivi che premiasse meriti scientifici e uso virtuoso delle risorse non è mai veramente decollato. L'ex ministro Moratti ha compiuto i primi passi in questa direzione, con un serio esercizio di valutazione della ricerca. Ma questo esercizio non ha avuto poi alcuna sensibile incidenza sulla distribuzione delle risorse. Due soli dati per chiarire le dimensioni: nel 2008 (decreto ministro Mussi) la quota percentuale di FFO assegnata sulla base dei "risultati dei processi formativi e dell'attività di ricerca scientifica" è stata 2.2%, e nel 2007 0.58%. Il criterio della spesa storica, attraverso cui sono stati sostanzialmente ripartiti i finanziamenti, è pessimo non solo perché non ha nulla a che vedere con il merito, comunque valutato, ma perché offre continua copertura a qualunque politica o a qualunque errore di gestione delle sedi.
Per sottolineare elementi attinenti il terzo quesito, 6 anni di concorsi della riforma Berlinguer, con 3 e poi 2 idoneità per concorso, hanno prodotto nell'università una enorme ope legis per avanzamenti di carriera, la quale ha pesato abbondantemente sulle casse degli atenei. Dal 1999 al 2006 il numero di professori ordinari è cresciuto di ben il 54%, una crescita più consona a un paese sottosviluppato che a un paese di solida tradizione accademica. L'ope legis a beneficio dei professori associati è stata altrettanto imponente ma meno visibile, data la mole dei passaggi alla fascia degli ordinari. Le indiscriminate promozioni di carriera non sono state frenate dal vincolo di legge, posto addirittura nel 1998, per cui le università non possono operare nuove assunzioni a tempo indeterminato se le spese per il personale di ruolo assorbono risorse superiori al 90% del FFO. In questo caso, la legge stabilisce, nuove assunzioni sono possibili solo nel limite del 35% del risparmio che segue alle cessazioni dell'anno precedente. La legge, però, non ha mai fissato precise sanzioni per il rispetto del vincolo. E il vincolo, posto evidentemente per garantire risorse minime per la funzionalità delle strutture, non è rispettato da ben 19 atenei. Questa è la diagnosi della Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica in un documento del luglio 2007.
"Per anni - si legge nel documento della Commissione - le università hanno preferito spendere risorse per garantire la progressione di carriera dei docenti piuttosto che assumere nuovi ricercatori...". Nulla da eccepire, naturalmente, a questa osservazione. Certo, però, che se le regole concorsuali, ossia le triple e doppie idoneità della riforma Berlinguer, forniscono incentivi perversi (alle selezioni fasulle, alla moltiplicazione dei titoli, all'espansione incontrollata dei posti di professore), non c'è poi da meravigliarsi di comportamenti degli atenei che sono del tutto coerenti con gli incentivi perversi forniti dalle regole.
Purtroppo la storia non è finita e gli errori tornano a ripetersi. L'ultimo atto del passato governo, in attesa di una nuova disciplina in materia, è stata la riapertura dei concorsi nel 2008 con i due idonei della regola Berlinguer. La nuova tornata concorsuale, appena avviata, registra 724 bandi per posti di professore ordinario e 1143 per posti di professore associato! In rapporto al numero di ordinari e associati in forza nei nostri atenei, i bandi emanati implicano una crescita potenziale (considerate le due idoneità) degli ordinari pari al 7.2% e degli associati pari al 12.1%. Al costo medio nazionale delle due posizioni di ruolo, questi bandi si traducono in un impegno di risorse aggiuntive di quasi 189 milioni di euro. Se tutte le seconde idoneità si tramutassero in ulteriori posizioni di ruolo, l'impegno di risorse naturalmente si raddoppierebbe. Con quali risorse e sulla base di quali piani di sviluppo sono stati deliberati dalle sedi questi bandi? E questa mole di bandi è compatibile nei singoli atenei con il pieno turn over dei docenti? Se non lo è, le risorse liberate dalle cessazioni del prossimo futuro saranno impegnate per promozioni di carriera.
In questo contesto, ciò che preoccupa non può certo essere un programma di contrazione del turn over e del FFO. Ciò che preoccupa è che non emergano ancora volontà e chiari segnali di un'ampia revisione dei meccanismi di finanziamento degli atenei. Le linee indicate nell'appello "Una università più meritocratica" sono quelle giuste per impostare una tale revisione. Le penalizzazioni di una generalizzata riduzione del FFO potrebbero ridimensionarsi alquanto per atenei che hanno compiuto e che compiono scelte di merito.
Domanda: in una ottica comparativa minimale (all'ingrosso) perchè non lanciare un programma "pensionamento a 65 anni"? Non mi sembra scandaloso, anzi lo troverei assolutamente "logico".
RR
Sono assolutamente d'accordo. Peccato che: