Considerazioni introduttive.
Un sistema elettorale dovrebbe aggregare le preferenze sociali e selezionare decisioni pubbliche. Le decisioni che veramente ci interessano sono le politiche che vengono effettivamente attuate (quante tasse paghiamo, come spendiamo i soldi), ma i sistemi elettorali delle moderne democrazie rappresentative non fanno questo. L'oggetto di scelta è invece la composizione del parlamento. Questo è accettabile in alcuni casi, quando la composizione del parlamento ha conseguenze predicibili sulle politiche adottate, e meno in altri, quando gli elettori non riescono a imporre politiche quasi universalmente desiderate perché i loro agenti, i politici, riescono a ignorare i loro desideri. Misure di riduzione della corruzione e della spesa pubblica sono tipici esempi. Un recente esempio concreto è stato la legge sull'indulto, palesemente avversata dalla maggioranza della popolazione ma comunque passata a grande maggioranza in parlamento. Quest'ultimo problema è serio ma ci porterebbe troppo lontano, per cui lo ignorerò nel seguito della discussione.
La teoria delle scelte sociali è nata proponendo alcuni affascinanti risultati negativi che dimostrarono l'impossibilità di aggregare in modo coerente le preferenze della collettività (il teorema dell'impossibilità di Arrow)
e, di maggior interesse per il tema trattato, l'impossibilità di
disegnare meccanismi non manipolabili per l'attuazione di una data
funzione del benessere sociale (il teorema di Gibbard-Satterthwaite, o GS per brevità). La sfortunata conseguenza è che non esiste alcun modo neutro per definire l'ottimalità di un sistema elettorale. Inevitabilmente, nella discussione dovremo farci guidare da un lato dall'evidenza empirica esistente sul tipo più frequente di distribuzione delle preferenze sociali realizzate e dall'altro dal nostro personale sistema di valori. È spiacevole, ma visto che non si può fare diversamente è bene essere chiari al riguardo.
Un altro punto che sarà importante tenere a mente nella discussione è che ci sono buone ragioni pratiche per ritenere che il teorema di GS non sia poi così pericoloso per elezioni che coinvolgono un gran numero di elettori, mentre si applica per quanto riguarda il comportamento dei candidati. Cerco di spiegarmi.
GS considera una situazione nella quale gli elettori sono strategicamente sofisticati e quindi esprimono il loro voto per influenzare la scelta finale e massimizzare la propria utilità piuttosto che per registrare in modo veritiero le proprie preferenze. Per esempio, se mi piacciono i Liberaldemocratici ma sono convinto che la vera partita nel mio distretto sia tra Labour e Tories allora non voto il liberaldemocratico ma scelgo tra Labour e Tory quello che mi spiace meno.
Quanto sono sofisticati gli elettori? Tendo a pensare che in elezioni con un gran numero di votanti la sofisticazione sia bassa e il voto 'sincero' sia la norma (Degan e Merlo hanno un recente interessante paper al riguardo). In tal caso GS non si applica, e il disegno dei sistemi elettorali diventa più facile.
Purtroppo però le cose non sono così semplici. Anche se gli elettori in media si comportano in modo 'sincero', sicuramente la stessa cosa non vale per i candidati. Costoro appartengono normalmente a un segmento molto ristretto della popolazione che di politica campa, e le loro scelte (presentarsi o meno, con chi allearsi, etc.) sono sicuramente effettuate in modo strategico. Quindi GS, che era uscito dalla porta, rientra dalla finestra.
Queste considerazioni introduttive ci consentono di individuare quelli che, a mio avviso, sono i due aspetti cruciali da tenere presente nella discussione sui sistemi elettorali. Primo, un problema serio è che i cittadini non possono abitualmente votare su ciò che a loro veramente interessa. Anche se ignoriamo le politiche finali che vengono scelte, gli elettori sono interessati perlomeno alla composizione finale del parlamento, non a un singolo candidato. Non accade praticamente mai che gli elettori possano dare indicazioni dirette sulla configurazione dei seggi parlamentari, al massimo un elettore può dare indicazioni solo molto parziali sulla composizione del parlamento. Secondo, quando analizziamo gli effetti strategici del sistema elettorale dobbiamo concentrarci sull'insieme dei potenziali candidati più che sugli elettori. In particolare, gli incentivi che il sistema elettorale fornisce all'entrata e all'uscita dei candidati e all'aggregazione delle forze politiche sono tra gli aspetti più importanti.
Criteri per un buon sistema elettorale.
Vediamo come i due problemi precedentemente discussi si riflettono sulla valutazione dei sistemi elettorali. Venendo al primo punto, nessun sistema elettorale che io conosca permette agli elettori di votare direttamente sulla composizione del parlamento, ossia sull'oggetto finale della scelta. È facile vedere perché. Consideriamo un parlamento con 5 seggi e supponiamo che tre partiti partecipino alle elezioni. Ci sono 21 possibili configurazioni parlamentari (3 in cui i 5 seggi sono assegnati a un singolo partito, 6 in cui uno dei partiti vince 4 seggi e così via), un numero molto alto. Per qualunque dimensione appena realistica il numero diventa astronomico. Non provate a calcolare il numero di possibili combinazioni quando i seggi sono, che so, 630 e ci sono 18 partiti, vi si impasterebbe il computer.
Il modo in cui i sistemi elettorali normalmente utilizzati tagliano questo nodo gordiano è quello di permettere agli elettori di manifestare preferenze su un segmento molto limitato della decisione finale. Consideriamo per esempio il sistema maggioritario all'inglese. Con tale sistema posso solo dire quale candidato nel mio collegio preferirei mandare in parlamento. Le mie preferenze sui candidati di altri collegi, che pure dovrebbero essere rilevanti nel descrivere le preferenze sociali, vengono completamente ignorate. Allo stesso modo, se il candidato per cui esprimo la mia preferenza non risulta essere il primo, le mie preferenze riguardanti gli altri candidati presenti nel mio collegio sono ignorate. Le cose non cambiano di molto con il sistema proporzionale puro. In tal caso l'unica cosa che posso dire attraverso il mio voto è quale partito preferirei avesse un seggio in più nel mio distretto. Di nuovo, questo ignora completamente una vasta parte delle preferenze dell'elettore.
Le conseguenze sono importanti, e possono facilmente portare a decisioni finali che sono considerate subottimali da larghi strati della popolazione. Per esempio, una composizione del parlamento in cui un piccolo partito è determinante per la formazione della maggioranza risulta probabilmente sgradito a una vasta maggioranza di elettori, che però non hanno nessun modo di far pesare questa preferenza.
Questo porta ad enunciare un primo importante criterio di valutazione: un buon sistema elettorale dovrebbe tener conto il più possibile dell'intero vettore di preferenze di ciascun elettore. Non è ovviamente realistico chiedere agli elettori di elencare le loro preferenze sulle possibili composizioni del parlamento. Però, per esempio, si può fare molto meglio del maggioritario uninominale all'inglese. Rimanendo nell'ambito dei sistemi basati sul collegio uninominale, il sistema usato in Australia, noto come 'preference voting', che chiede agli elettori di elencare l'ordine di preferenza tra i diversi candidati, è palesemente superiore al maggioritario uninominale usato in Inghilterra. Anche il sistema di doppio turno alla francese appare decisamente migliore da questo punto di vista. Si noti inoltre che, ovviamente, tutti i sistemi basati sul collegio ignorano le preferenze degli elettori sulla composizione finale del parlamento e sui candidati dei collegi diversi da quello in cui si vota. Tener conto di tali preferenze non è impossibile. Per esempio, il premio di maggioranza a livello nazionale permette all'elettore di influenzare la scelta anche al di fuori del proprio collegio.
Veniamo ora al secondo punto, gli incentivi agli attori politici. L'ipotesi che farò è che le elites politiche sono guidate da un lato dal desiderio di occupare il potere (come nel semplice modello downsiano che produce il teorema dell'elettore mediano) e dall'altro dal desiderio di veder attuare le proprie preferenze sulle politiche pubbliche. Le elites politiche godranno necessariamente di rendite, come è ovvio in qualunque modello principal-agent in cui il principale (in questo caso gli elettori) non ha informazione completa e controllo diretto sugli agenti, ma non voglio qui discutere delle inefficienze create da tali rendite; il tema è in buona misura indipendente dal sistema elettorale, e una stampa e una magistratura indipendenti sono molto più importanti per ridurre le rendite dei politici. Qui voglio invece concentrarmi sulla quantità e qualità dell'offerta politica indotta dal sistema elettorale.
L'interesse della polity è quello di ottenere una offerta ampia e diversificata di opzioni politiche al costo più basso possibile. I costi sono diretti e indiretti. I costi diretti sono rappresentati dalle rendite che i politici percepiscono, mentre i costi indiretti sono dati dal potenziale deterioramento del processo decisionale che una molteplicità di partiti può creare. Questo purtroppo fa si che la libera entrata, a differenza di quanto accade normalmente, non sia la soluzione ovvia.
A mio avviso il trade-off è il seguente. Da un lato la presenza di rendite rischia di generare eccessiva entry nel sistema politico, per cui un buon sistema elettorale dovrebbe scoraggiare le candidature 'frivole' che non ampliano il ventaglio delle opzioni politiche offerte alla cittadinanza. Dall'altro, misure che rendono difficile l'entrata di nuovi soggetti conducono inevitabilmente alla non-contestabilità delle elites politiche esistenti, rendendole meno permeabili ai desideri dell'elettorato e accrescendo il volume delle rendite che esse sono in grado di estrarre.
Con riguardo a questo problema troviamo a un estremo il sistema puramente proporzionale, dove la facilità di entrata è massima, e all'altro estremo un sistema che assegna forti premi di maggioranza a livello nazionale a chi raccoglie più voti, dando le spoglie a chi arriva secondo. Con tale sistema chi volesse contestare un duopolio esistente dovrebbe riuscire nel quasi impossibile compito di risultare almeno in seconda posizione a livello nazionale, pena l'irrilevanza. I sistemi con collegio uninominale sono intermedi, in quanto nuove forze possono entrare in parlamento anche se non raccolgono consensi elevati su tutto il territorio nazionale; in tal caso le innovazioni avvengono prima a livello locale, in quei collegi in cui l'urgenza del cambiamento viene più sentita.
Il secondo criterio di valutazione che enunciamo è quindi che un buon sistema elettorale deve incoraggiare l'entrata di nuove forze politiche in modo selettivo, premiando le forze politiche che offrono nuove proposte e scoraggiando invece i nuovi partiti che replicano opzioni politiche esistenti al solo fine di catturare rendite per le elites. Ovviamente, più facile a dirsi che a farsi. Ma il criterio non è privo di contenuto empirico. In genere la necessità di nuove opzioni politiche sorge quando una fetta consistente dell'elettorato è scontenta dell'offerta politica esistente. Sistemi elettorali che legano la rappresentanza parlamentare al raggiungimento di una soglia minima nazionale quindi appaiono meglio soddisfare tale criterio di sistemi in cui piccolissime minoranze possono ottenere rappresentanza parlamentare e potere di negoziazione.
Consigli per gli acquisti.
Siccome il teorema di GS ci assicura che nessun sistema elettorale può essere soddisfacente in qualunque circostanza, il meglio che possiamo fare è scegliere un sistema elettorale che funziona bene 'la maggior parte delle volte'. Come precedentemente osservato questo richiede da un lato l'enunciazone di giudizi di valore e dall'altro una valutazione delle probabilità che si realizzino varie configurazioni di preferenze. Sono entrambi compiti ingrati, ma l'onestà intellettuale esige che si sia chiari al riguardo.
Dichiaro apertamente le mie personalissime preferenze, che credo però siano ampiamente condivise. Un buon sistema elettorale dovrebbe garantire la formazione di maggioranze parlamentari stabili che riflettano le preferenze della maggioranza dell'elettorato e dovrebbe fornire sufficiente rappresentanza alle diverse opinioni esistenti tra la popolazione. So che me la sto cavando a buon mercato, e che ci sono un sacco di ambiguità e punti sottili in questa definizione, ma una discussione puntuale richiederebbe un altro ambito.
Per il momento sia sufficiente dire che dopo una elezione dovrebbe essere possibile formare un governo sostenuto da una chiara maggioranza parlamentare e che la maggioranza della popolazione dovrebbe considerare tale governo migliore delle altre alternative praticabili. Inoltre, fatta salva la possibilità di creare una maggioranza di governo, la rappresentanza parlamentare delle diverse fazioni politiche dovrebbe essere in qualche modo commisurata al loro consenso popolare.
Si noti che non è impossibile che in certe circostanze le preferenze della società siano per una situazione di stallo e paralisi decisionale. In tali circostanza un sistema elettorale che produce comunque una chiara maggioranza di governo sarebbe indesiderabile. La mia ipotesi è che sia molto più probabile che una grande maggioranza della polity preferisca un governo attivo e funzionante, e che sia giusto accettare il piccolo rischio che un governo efficace non sia in realtà desiderato.
Un'ulteriore ovvia difficoltà è che di scienze sociali stiamo parlando e non di scienze esatte. La relazione tra sistemi elettorali e configurazioni politiche non è deterministica, ed esiste comunque una certa possibilità che i risultati siano diversi da quelli sperati. Dal punto di vista empirico è relativamente facile trovare esempi che contraddicono una qualunque relazione si voglia postulare tra sistemi elettorali e risultati politici. Per esempio, la presunta frammentazione e conseguente instabilità governativa indotta dai sistemi proporzionali è contraddetta dall'esperienza olandese, dove il sistema elettorale è in assoluto il più proporzonale possibile e al tempo stesso l'instabilità è assai inferiore che in Italia. Oppure, la legge di Duverger che postula l'emergere di un sistema bipartitico in presenza di un sistema elettorale maggioritario sembra essere contraddetto dall'esperienza inglese, dove i Liberaldemocratici (e altri partiti locali) continuano a sopravvivere nonostante la pluridecennale assenza dal governo.
Detto questo a mo' di cautela, una qualche relazione stabile tra sistemi elettorali ed equilibri politici sembra esistere, e questa imperfetta relazione è il meglio che possiamo usare.
Che sistema elettorale dobbiamo quindi auspicare? La mia personale preferenza va al sistema di preference voting all'australiana con correttivo di un premio di maggioranza a livello nazionale, anch'esso da assegnare con sistema australiano. Con riguardo al primo criterio che ho enunciato (usare l'intero sistema di preferenze) il sistema australiano è palesemente il migliore tra quelli basati sul collegio uninominale, dato che basa la scelta del vincitore (potenzialmente) sull'intero vettore di preferenza di ciascun elettore. Come tutti i sistemi basati sul collegio uninominale ha il difetto di non consentire agli elettori di esprimere preferenze sulla composizione finale del parlamento. Per questa ragione ritengo che un premio di maggioranza a livello nazionale sarebbe un utile correttivo e garantirebbe la stabilità governativa.
Con riguardo al secondo criterio (incentivi e barriere all'entrata), ho osservato che il sistema del collegio uninomale sembra in generale raggiungere un buon punto di compromesso, dato che rende l'entrata di nuovi soggetti moderatamente difficile ma non impossibile. Il premio nazionale rende più difficile l'entrata, e questo è un male; credo però sia un prezzo necessario da pagare se vogliamo evitare di assegnare un eccessivo potere di negoziazione a partiti minoritari. Inoltre, tra i sistemi a collegio uninominale quello australiano è quello che meglio favorisce l'entrata. Ogni elettore si sente libero di votare per il partito preferito, mettendo magari come seconda preferenza il partito più 'vicino' che si ritiene abbia le migliori chances. Questo incentiva i partiti che ritengono di avere cose nuove da dire a presentare candidature che comunque otteranno una congrua percentuale di voti, dando loro visibilità e potere contrattuale. Favorisce inoltre la presentazione di candidature forti e autorevoli, meglio in grado di attrarre voti.
Un'osservazione finale. La scelta del sistema elettorale ovviamente non viene fatta, in alcuna parte del mondo, ascoltando a criteri astratti che vengono proposti dalla torre d'avorio, ma nel vivo della battaglia politica. Questo non toglie che da parte nostra sia doveroso cercare almeno di chiarire concettualmente quali sono i contorni del problema. Come ho detto, le mie indicazioni si basano su preferenze personali che ho chiaramente enunciato. Credo dovremmo pretendere da tutti quelli che partecipano al dibattito, siano essi accademici o politici, di fare altrettanto.
Bell'articolo. Complimenti. Ti chiedo, però, ma il vecchio "Mattarellum" (75% uninominale e 25% proporzionale) non era già un modo di tener conto, sia pure grossolanamente, del vettore di preferenze dell'elettore, assicurando al contempo libertà di entrata ai partiti nuovi o minori sia con l'elezione diretta in un collegio sia con il superamento della soglia di sbarramento al 4%? Inoltre, avrei voluto leggere anche qualcosa sull'ovvia (troppo ovvia?) considerazione che finché l'elettorato sarà diverso tra Camera e Senato la possibilità di maggioranze instabili rimarrà nella natura delle cose. Infine, hai pensato se, ed eventualmente quali, incentivi alle "furbate elettorali" dei partiti potrebbe dare un sistema tipo quello australiano? Non scordare che siamo il paese che ha inventato le liste civetta, le desistenze, le preferenze multiple con combinazioni predefinite, ecc. ecc.
Grazie dei complimenti Nicola, che mi hanno fatto piacere; gli accademici sono purtroppo anche più vanitosi della media. Vengo alle questioni che tu sollevi.
1) Come ho spiegato nel post, sia l'uninominale all'inglese sia il proporzionale sono pessimi per esprimere il vettore di preferenze. Il mattarellum era un mix dei due, e quindi pessimo a sua volta. L'elettore non aveva alcuna possibilità di esprimere preferenze su quale maggioranza si dovesse formare in parlamento, come avviene con il premio di maggioranza nazionale. Il mattarellum, come l'attuale legge, era inoltre pessimo per gli incentivi all'aggregazione. La parte proporzionale garantiva comunque che i capi dei piccoli partiti si beccassero la loro poltrona, e questo dava loro la possibilità di trattare da posizioni di forza la ripartizione dei seggi assegnati coll'uninominale.
2) Non ho voluto parlare di riforme costituzionali, perché il post era già troppo lungo. L'attuale bicameralismo perfetto con aggiunta di odiosa discriminazione gerontocratica degli under 25 al senato è il peggiore dei mondi possibile. Andrebbero preferibilmente levati entrambi, sia il bicameralismo perfetto sia la discriminazione contro i giovani. Ma è una questione diversa dalla riforma elettorale.
3) Data la tradizione politica italiana a me sembra che il principale pericolo con un sistema australiano sia che i partiti raggiungano accordi di desistenza, privando l'elettorato di opzioni a livello di collegio. Per esempio, FI e AN potrebbero accordarsi, dove si presenta il candidato FI non si presenta il candidato AN e viceversa. Come dici giustamente tu la fantasia dei nostri politici è vasta e quasi sovrumana, quindi le manipolazioni sono sempre possibili. Però il sistema australiano genera almeno gli incentivi giusti. Perché il candidato FI non si deve presentare? La minaccia è che AN decida di dare indicazione di non votarlo. Ma con il sistema australiano (o con il doppio turno) la decisione è in mano agli elettori, non ai partiti. La minaccia non è dunque molto credibile