L’università ormai naviga a vista, destino paradossale per un’istituzione che dovrebbe indicare le rotte del futuro della nostra società, educare i giovani a scoprire nuovi orizzonti, esplorare l’ignoto. Finalmente è comparso il disegno di legge Gelmini. E a sorpresa non è una buona notizia perché, malgrado le buone intenzioni, esso rappresenta l’ennesimo cambiamento solo di facciata dei nostri Atenei. Un disegno che parla di merito ma che finirà per rafforzare lo status quo non meritocratico o, tutt’al più, a non incidere per nulla (risultato forse confortante visti i precedenti disastrosi risultati delle riforme targate centro-sinistra).
L’Italia dell’università ha questo che si differenzia ormai da tutti gli altri sistemi del mondo: non riesce a mettere in atto un qualsiasi tipo di meccanismo istituzionale che premi la ricerca di buona qualità. Gli altri Paesi avanzati hanno modi diversi (e di maggiore o minore successo) per assicurare questo risultato. Negli Stati Uniti un sistema decentralizzato basato sulla reputazione e la disponibilità degli studenti a spostarsi verso la qualità ha creato un folto nocciolo duro di università di grande qualità della ricerca che hanno le risorse economiche per competere tra di loro per attirare i migliori talenti e trattenerli se dimostrano la loro effettiva qualità, affiancato da un gruppo di tantissime piccoli college che garantiscono una buona didattica di base, in cui i docenti sono pagati salari più bassi e poco legati alla ricerca ma comunque interessanti. Nell’Europa Continentale, specie in Francia e Germania, da poco i Governi, con un meccanismo totalmente centralizzato, hanno deciso di individuare "centri di eccellenza" verso cui fare affluire un quantitativo assai consistente di risorse con le quali remunerare appunto i talenti. Infine in Gran Bretagna le università vengono valutate a livello decentrato con indicatori obiettivi e sulla base della classifica che da lì emerge ricevono fondi dal Governo. Quest’ultimo sistema in 30 anni ha trasformato l’università britannica in un sistema competitivo che produce ricerca e incoraggia e remunera i talenti ed attrae giovani studenti da tutto il mondo.
Quale meccanismo potremmo importare? Il sistema americano è troppo lontano culturalmente dal nostro. Troppi sarebbero i vincoli politici che andrebbero scardinati per assicurare il successo di un modello che richiede peraltro una uscita di scena del decisore pubblico che pare irrealistica. Il sistema franco-tedesco ci è più vicino culturalmente, applicandosi ad un sistema fondamentalmente pubblico, ma vi immaginate cosa succederebbe se il MIUR allocasse direttamente i fondi ai c.d. "migliori"? A quali pressioni politiche sarebbe esposto il Ministero per soddisfare i potenti e gli interessi localistici piuttosto che il merito? Il sistema inglese, con una valutazione decentralizzata delle competenze di ricerca e i fondi che seguono la qualità, è quello che meglio si presta a generare i giusti incentivi in Italia. In esso le Università sono libere di assumere chi desiderano senza dover fare concorsi ma solo valutazioni interne, sapendo tuttavia che una gran parte di fondi sarà allocata sulla base del merito e dunque avendo tutto l’interesse a selezionare i migliori.
Il disegno di legge Gelmini assomiglia al sistema britannico? Per nulla. Al Titolo II, la riforma prevede sì una maggiore autonomia delle Università nella scelta dei ricercatori e professori, ma solo dopo che questi sono stati selezionati da una commissione a livello nazionale ottenendo una abilitazione. E’ questo un ritorno al passato che ha due difetti. Primo, la singola Università rischia di non potere selezionare colui o colei su cui ritiene valga la pena scommettere quanto a capacità di ricerca solo perché un gruppo di docenti a livello nazionale (che non condividono necessariamente le visioni e le necessità della singola università) ha deciso altrimenti. Secondo, i professori che faranno parte di tali commissioni nazionali saranno selezionati secondo un meccanismo convoluto e che non scoraggia in alcun modo accordi sotto banco tra commissari, accordi non necessariamente volti a premiare il merito. Nulla inoltre garantisce la qualità scientifica della maggioranza dei commissari.
Supponiamo per un attimo che questi difetti non siano rilevanti. Ebbene, anche in questa improbabile evenienza il disegno di legge non porterebbe a miglioramenti. In esso infatti non vi è nessun accenno alla modifica delle carriere salariali nell’università rispetto alle carriere attuali. Un ricercatore giovane e brillante all’inizio della carriera dunque dovrebbe iniziare il suo percorso in Italia sempre con uno stipendio lordo di 22.000 euro lordi, mentre in Gran Bretagna o negli Stati Uniti gli verrebbe offerto il doppio, come minimo. Tale talento avrebbe quindi scarsa convenienza a proporsi ai concorsi previsti dal disegno di legge. I peggiori si candirebbero e continuerebbero a non avere incentivi forti a migliorarsi visto che la loro carriera in gran parte progredirebbe in automatico per anzianità.
Ovviamente garantire stipendi più alti d’ingresso sarebbe anch’essa condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere buona ricerca attraendo i giovani e sostenendo i senior più bravi. Chi ci garantirebbe infatti che tali stipendi più alti andrebbero ai migliori e non ai più connessi e più ammanicati? Bisognerebbe ovviamente legare strettamente i fondi alla qualità della ricerca, come si è tranquillamente ed oggettivamente fatto in Gran Bretagna, garantendo che le cifre vadano a chi ha permesso all’università di ricevere una buona valutazione e non ad altri, forse più potenti, all’interno dell’Ateneo. Ma purtroppo il disegno di legge Gelmini non solo non fa così ma, per come è scritto ora, dimostra solo di essere ancorato ad una visione burocratica dell’Università, regolando in maniera certosina – invece dell’output della ricerca – gli input, ovvero gli orari di lavoro.
Un esempio? Così recita il disegno di legge: "il trattamento economico dei professori a tempo pieno…è correlato ad un impegno complessivo per lo svolgimento di attività di ricerca, aggiornamento scientifico, didattica e di eventuali compiti gestionali, quantificato, anche ai fini della rendicontazione dei progetti scientifici nazionali e internazionali, in almeno 1512 ore annue, di cui almeno 350 sono riservate, sulla base di criteri e modalità stabiliti con regolamento di ateneo, a compiti didattici e di servizio per gli studenti in relazione alle esigenze dei corsi di studio di cui all'articolo 3 del decreto ministeriale n. 270 del 2004." 1512 ore. E chi ci garantisce che queste ore siano dedicate a migliorare il benessere del Paese grazie ad una migliore ricerca? Nulla.
In ultimo, il disegno concentra almeno un terzo della sua lunghezza alla modifica della governance universitaria. Articolo dopo articolo nel Titolo I si traccia un quadro che manterrà intatta la struttura di potere attuale degli Atenei, rendendone forse ancora meno trasparenti i meccanismi elettivi (non essendo chiaro chi potrà far parte dei CDA delle Università il rischio è addirittura quello di vedere le Università "ASL-izzate" politicamente). In Gran Bretagna il nuovo meccanismo meritocratico ha creato un mercato competitivo anche per i Rettori, in cui vi è l’ovvio incentivo a selezionare ed assumere come Rettori quelle persone che danno la maggiore garanzia di poter generare fondi per l’Ateneo con la crescita del merito all’interno delle proprie mura.
Caro Ministro, si prenda del tempo, ne va del bene del Paese. Le intenzioni sono buone, ma non bastano. Come fare è ben noto, basta riprodurre quanto di buono è stato fatto altrove.
3 Obiezioni.
1) L'articolo non dimostra che la riforma Gelmini è cattiva. Dimostra che non porta l'università italiana verso il sistema inglese. Non conosco la riforma, quindi non posso valutarla. Conosco l'Italia, quindi temo il peggio. Il punto è che questo articolo non mi aiuta a capire i problemi della riforma.
2) Si dice che in America i college minori danno una buona preparazione di base. L'affermazione è da specificare. Vale per l'Oberlin College, di sicuro non vale per la pletora di community colleges dove non si fa nulla. A proposito del sistema americano, infatti, bisogna aggiungere un dato tutt'altro che secondario. Quel sistema si fonda sul mercato internazionale dei giovani talenti. Ergo, si può permettere di sottrarre risorse nel teaching all'undergraduate per prelevare i migliori in giro per il mondo e metterli nei propri graduate programs. Non rilevare questo dato significa ignorare uno dei meccanismi centrali dell'istruzione americana.
3) Concorso nazionale. Anch'io sono contrario a queste cose centralizzate. Però nell'articolo c'è una contraddizione. Prima di paventa il rischio che a livello locale ci siano i soliti magna magna poi si critica il concorso nazionale - che a me pare sia uno strumento ideato proprio per evitare che le università assumano cani e porci. Ciò detto, lo strumento del concorso può essere inefficace. Sarebbe interessante però sapere perchè. In Gods we trust. Alle the others must bring data. L'articolo non lo dice.
saluti, aa.
Andrea questo non è assolutamente vero, il ruolo dei community colleges è quello di preparare gli studenti che per incapacità o attitudine non vogliono o abbisognano di educazione superiore. Nei c.c. si impara a fare il cuoco, il tornitore, il meccanico, etc... soprattutto in base alle esigenze dell'industria e dell'economia locali. Sono simili ai nostri istituti professionali, con la differenza che gli studenti americani vi entrano dopo le superiori, anziché dopo le medie.