Rivoluzionare, non riformare, il mercato del lavoro in Italia

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Da un po' di tempo ci siamo chiesti: cosa bisognerebbe fare per cercare di rendere funzionante il mercato del lavoro italiano, per ridurre la precarietà, aumentare l'occupazione, far crescere i salari e la produttività, e, soprattutto, per dare a chi lavora la speranza che, lavorando e dandosi da fare, qualcosa si possa ricavare? Ce lo siamo chiesto in quanto economisti, non in quanto politici e sindacalisti. Dal dibattito collettivo sono emerse alcune riflessioni e alcune proposte abbastanza chiare, che vi proponiamo. Per un dibattito serio. ''Sommario''
  1. Introduzione
  2. Le leggi Biagi e Treu, ed i loro effetti
  3. Gli effetti della flessibilità nel mercato del lavoro: il Regno Unito e l'Irlanda
  4. Gli argomenti contro la flessibilità sono errati
  5. Che fare?
  6. Il "posto fisso alle poste". Conclusione

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1. Introduzione'</h' . (('2') + 1) . '>'

Il mercato del lavoro in Italia funziona male, anzi malissimo. I

lavoratori e le imprese (ma soprattutto i lavoratori) ne pagano enormi

consequenze. È assolutamente necessaria una riforma liberale e garantista del mercato del lavoro italiano.

Liberale, proprio nel senso di quella brutta

parola che tutti temono: lasciare che la creazione, l'estinzione e

l'evoluzione dei rapporti di lavoro sia affidata a contratti privati

stipulati volontariamente fra le parti. Lo stato deve limitarsi

a proibire contratti che vadano chiaramente contro l'interesse pubblico

e contro la dignità della persona, ossia schiavismo, contrattazione di

minori o incapaci d'intendere e volere, contratti coercitivi o

fraudolenti di vario tipo.

Garantista, perché lo stato deve garantire i

lavoratori fornendo loro (i) un'assicurazione pubblica e obbligatoria

contro la disoccupazione, di durata limitata e probabilmente non superiore ai 12 mesi, con

stretti criteri obiettivi di verifica della condizione di disoccupato

sul modello di quelli adottati da Spagna, Olanda o Inghilterra; (ii) un

reddito minimo adeguato a persone perennemente disabili o incapaci, per

cause esterne alla loro volontà, di sostenere economicamente se stesse.

Queste sono, dette in poche e semplici parole, le riforme del mercato del lavoro che auspichiamo. Sono riforme rivoluzionarie e favorevoli ai lavoratori; sono riformeche

questo governo, o qualsiasi altro governo, dovrebbe fare, e al più

presto. Infatti, per far presto, basterebbe fare così: copiare la

legislazione lavorativa dell'Irlanda, o dell'Inghilterra, o dell'Olanda

se proprio non si riesce a sopportare l'uso della lingua inglese. A

quelli che, a questo punto, già si chiedono: "perche' non suggerite di

copiare la legislazione spagnola? La Spagna è latina e va bene!" (ci

sono, ci sono, siamo facili profeti: ecco qui)

rispondiamo brevemente: è vero, la legislazione spagnola, è comunque

meglio di quella italiana; ma visto che abbiamo bisogno di fare una

rivoluzione, facciamola e mostriamo al mondo cosa il genio italico

riesce a fare ancora, se vuole.

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Premessa metodologica

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Nel seguito il lettore troverà argomenti economici con contorno di

dati statistici. Prima di entrare nel dettaglio delle argomentazioni

- che speriamo cogenti anche se non spassose - vorremmo esporre due

avvertenze, sia metodologiche che di finalità.

1) Il problema che ci poniamo è il seguente:

 

date

le circostanze concrete della società e dell'economia italiana

nell'anno 2006, quali politiche del mercato del lavoro sono

raccomandabili e quali non lo sono, al fine di aumentare l'occupazione,

la produttività media, e il reddito dei lavoratori italiani?

 

In altre parole, ci poniamo il problema del mercato del lavoro in Italia e delle possibili riforme, in termini pragmatici. Che

i mercati funzionano bene in teoria lo sappiamo tutti! Qui argomentiamo

che un mercato del lavoro con molti (ma molti) meno lacci e lacciuoli e

con un sistema di protezione e garanzia appropriato funzionerebbe bene

e favorirebbe i lavoratori in Italia, oggi; non solo

sui libri di testo. Ci poniamo il problema del mercato del lavoro in

Italia da economisti, e non da politici. Quest'ultima sottolineatura è

rilevante, in quanto ci permette di non incorporare i vincoli politici

nella nostra analisi. È ovvio che il compromesso è necessario per fare

qualcosa in pratica; ma se il compromesso è necessario in politica

(anche in quella "alta", nell'interesse del paese) non ha invece senso

nella logica e nelle argomentazioni economiche. Anzi, fa danno perché

oscura i costi ed i benefici di certe politiche piuttosto che altre.

Diciamo questo perché non abbiamo dubbio che qualche sepolcro

imbiancato argomenterà che siamo "irragionevoli" o "estremisti" o

"poco equilibrati". Non è così. È che non ci sembra il caso di stare a

fare i conti su dove un punto di convergenza possa essere

trovato fra le mille lobbies italiane coinvolte in questo dibattito. Anche perché le lobbies coinvolte

son troppe, e anche lì sta la follia dell'impostare il problema in

termini di "ragionevole compromesso": i ragionevoli compromessi sono,

molto spesso, irragionevoli pastrocchi che implicano decine di

clausole, eccezioni, distorsioni e controdistorsioni, le quali fanno

più danno a quasi tutte le parti coinvolte di quanto non lo farebbe una

riforma drastica e unilaterale. Invece, purtroppo, il dibattito

italiano è impostato a trovare un punto di "mezzo" fra industriali

grandi e piccoli, commercianti, artigiani, lavoratori dipendenti del

privato, "garantiti" o "precari", dipendenti pubblici strapagati (ossia

ministeriali dei piani alti), dipendenti pubblici sottopagati (ossia,

ad esempio, insegnanti della scuola primaria e secondaria), immigrati,

giovani laureati, anziani che vorrebbero pensionarsi al più

presto, sottosegretari verdi che vogliono la decrescita e ministri che

vogliono la crescita, politici meridionali che vogliono i sussidi per

chi crea occupazione al sud, e politici del nord che non vogliono

continuare a pagare le tasse che finanziano i sussidi, e cosi' via.

2) Come detto, ci chiediamo da economisti

come strutturare il mercato del lavoro al fine di aumentare

l'occupazione, la produttività del lavoro, ed il reddito dei

lavoratori. Non ci chiediamo, invece, quali altre riforme,

dei mercati dei prodotti, del settore creditizio, della legislazione

fiscale, di quella pensionistica, del diritto commerciale, del diritto

di immigrazione, del sistema scolastico e della ricerca, dei servizi

pubblici, della proprietà pubblica di attività produttive, eccetera,

eccetera, potrebbero o non potrebbero sortire effetti desiderabili e

costituire un ragionevole accompagnamento a una riforma del mercato del

lavoro. Questa è una seria limitazione perché, per esempio, siamo

convinti che una forte liberalizzazione del settore dei servizi

pubblici, il completamento del processo di privatizzazione, un drastico

taglio di trasferimenti e spese per il personale pubblico, congiunti ad

un egualmente drastico taglio di imposte sul reddito da lavoro e dei

contributi sociali, avrebbero un grande effetto positivo

sull'occupazione, la produttività e il reddito del cittadino italiano

medio. Così come l'avrebbero una semplice regolamentazione liberale

della corporate governance dell'impresa,

e una rigorosa politica per la concorrenza che combatta le rendite

monopolistiche delle imprese, specie quelle grandi, che da sempre in

Italia "contribuiscono" in maniera determinante alla formazione delle

politiche dei sussidi, delle tariffe, e cosi' via. Ma, visto che tutti

parlano di precarietà, parliamo di precarietà e mercato del lavoro

anche noi. Il resto, un'altra volta.

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Riassunto

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Il mercato del

lavoro in Italia è caratterizzato, dalla seconda metà degli anni

Sessanta almeno, da contrattazione centralizzata e notevoli rigidità

introdotte per legislazione, ad esempio attraverso la legge sul

licenziamento per giusta causa,

e lo Statuto dei Lavoratori. Ci chiederemo dove ci hanno portato queste

politiche. Ci chiederemo inoltre se la legislazione del mercato del

lavoro in Italia che si è così venuta costruendo, garantisce e protegge

i lavoratori meglio di quanto non avvenga in paesi che hanno scelto

invece, negli anni 80 e 90, la via della liberalizzazione, come il

Regno Unito e l'Irlanda. Argomenteremo che il mercato del lavoro (ed il

sistema fiscale e del welfare) in Italia impedisce (impediscono) la

crescita, che i principali danneggiati sono i lavoratori, specie i

lavoratori più deboli, come i giovani e le donne. Argomenteremo che la

strada da seguire è proprio quella del Regno Unito.

Ma perché,

allora, tutti in Italia appaiono d'accordo a richiedere politiche di

maggiore rigidità e protezione? Perché così tanti sognano il posto alle

Poste o in comune, come Francesco Giavazzi, voce sempre più solitaria,

sottolineava con sorpresa e timore recentemente sul Corriere? Discuteremo

le argomentazioni a questo proposito di sindacalisti, giuslavoristi, ed

economisti. Argomenteremo che sono empiricamente irrilevanti e talvolta

anche logicamente errate. Cercheremo di capire, comunque, perché

nessuno si fida del mercato in Italia (anche quelli che non hanno

rendite sindacali da difendere). E concluderemo quanto segue

No alla

contrattazione nazionale, no alla definizione legislativa della

tipologia dei contratti, si a un mercato del lavoro liberale supportato

da forme di assicurazione fatte come il buon senso e la logica

economica comandano.

2. Le leggi Biagi e Treu, ed i loro effetti

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2. Le leggi Biagi e Treu, ed i loro effetti

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Secondo il sito del Ministero del Welfare, gli obiettivi della

Legge Biagi (non dissimili da quelli del pacchetto Treu) erano i

seguenti

  • creare nuovi posti di lavoro e in particolare occupare più giovani nel Mezzogiorno, e più donne e più anziani nell'intero Paese
  • creare un mercato del lavoro trasparente nel quale viene tempestivamente considerata la condizione di ogni persona in età di lavoro
  • facilitare l'incontro tra chi cerca lavoro e chi cerca lavoratori
  • disegnare una rete di servizi pubblici e privati
  • promuovere un lavoro regolare e non precario e fornire tutele effettive
  • superare le rigidità che hanno prodotto nel passato tanti lavori "in nero" o insicuri
  • contrastare l'aumento abnorme delle collaborazioni coordinate e continuative
  • favorire il reciproco adattamento fra le esigenze dei lavoratori e quelle delle imprese, con particolare riguardo all'orario di la voro.

Cosa si è ottenuto? Poco o nulla, naturalmente. Perché? In due

parole: perché nessuno di questi obiettivi si raggiunge a colpi di

leggi, regolamentazioni e decreti. Il lavoro stabile, produttivo, e

soddisfacente, non si crea per legge, esso c'è quando c'è domanda di

tale lavoro. Quindi, occorre chiedersi cosa può aiutare la creazione di tale domanda di lavoro. Ma procediamo per ordine.

La legge Biagi, ed il Pacchetto Treu prima di essa, hanno

introdotto un po' di flessibilità nel mercato del lavoro ma lo hanno

fatto poco, per poco tempo, e soprattutto molto male. Che la

flessibilità introdotta sia stata molto poca è ovvio nei dati aggregati

sulle tipologie contrattuali. I contratti a tempi determinato (a

termine) sono non più del 10% in Italia e sostanzialmente meno di

quanto si osservi in altri paesi europei, anche della Francia e della

Germania, che hanno mercati del lavoro non certo noti per la loro

flessibilità.


  Italia    Spagna    Olanda    Francia    Germania  
  10    30    15    13    12.5  
  % Occupazione con contratti a termine, 2004 (dati Confindustria)

Dati piu' disaggregati, da cui si possano valutare i flussi tra

varie tipologie contrattuali (ad esempio da contratti a tempo

determinato a contratti a tempo indeterminato) utili allo studio degli

effetti della Legge Biagi sono pochissimi, essenzialmente ottenuti da

una indagine della Confindustria

condotta presso le imprese ad essa associate. All'indagine, riferita al

2004, hanno partecipato oltre duemila imprese con circa 560mila

lavoratori alle dipendenze. Da questa indagine si ricavano alcune

conclusioni fondamentali:

  1. La maggior parte della nuova occupazione dal 2001 al 2004 (dati nazionali Istat) è avvenuta con contratti a tempo indeterminato (vedi figura 1.2 dell'indagine Confindustria),
  2. Più del 50% delle assunzioni a tempo indeterminato nel corso del 2004 sono conversioni da contratti a termine precedenti (nel campione Confindustria),
  3. Il 45% circa dei contratti a termine in scadenza nel 2004 (esclusi i contratti di apprendistato) sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato,
  4. La disoccupazione giovanile è andata diminuendo in maniera sostanziale (di circa sette punti percentuali, dalla fine degli anni 90 ad oggi) e il tasso di disoccupazione nazionale e' del 7,7%, con la Lombardia e gran parte del Nord attorno al 4% e la Sicilia, all'estremo opposto, a quasi il 17%.
  5. Il tasso di occupazione, che è il vero dato importante perche' riflette la partecipazione alla forza lavoro, rimane bassissimo: 57,5%.
  6. I salari d'entrata sono molto bassi. Lo stesso vale per una gran parte dei salari dei lavoratori dipendenti che, come abbiamo appreso dal dibattito sulla parte fiscale della finanziaria, sono per il 90% inferiori ai 40-45mila euro annui lordi.

Prima domanda: quanto di

questo si "deve" all'accoppiata Biagi-Treu? Ovvero, come sarebbe stata

la situazione in assenza di tali leggi? È difficile rispondere a queste

domande contro-fattuali, ma proviamo ad usare il buon senso.

Probabilmente l'occupazione sarebbe stata minore: non vi sarebbero

stati i contratti a termine, quindi di quel 10% di occupati che sono a

termine solo una frazione avrebbe trovato posto di lavoro a tempo

indeterminato. Probabilmente il numero di nuovi occupati a tempo

indeterminato sarebbe stato risibile, perchè i costi ridotti e la

flessibilità che il 10% a tempo determinato ha "regalato" al sistema

hanno permesso di mantenere occupati anche un certo numero di

indeterminati che invece, per il loro costo, non si sarebbero mantenuti

altrimenti. Ma stiamo speculando. Sarebbe cresciuta maggiormente

l'occupazione totale? Chiaramente no! Sarebbero cresciuti maggiormente

i salari? Ancor più chiaramente, no! Sarebbe aumentata l'occupazione

giovanile? Nemmeno. Insomma, né la Biagi né la Treu hanno avuto grossi

effetti positivi, e certamente non ne hanno avuti di negativi. Il loro

limite vero è che erano due cerottini consunti che volevano coprire una

piaga purulenta, che invece occorre tagliare e poi disinfettare a fondo.

Perché, dunque, si è proceduto con i cerottini? Ci sia permessa una spiegazione di parte (la nostra parte). Biagi

era un giurista e, che noi si sappia, nessun economista degno di questo

titolo ha partecipato alla stesura della legge. Lo stesso vale per Treu

e, più in generale, per i decision makers

sindacali, politici e persino imprenditoriali che hanno partecipato

all'elaborazione della legislazione italiana del lavoro dall'inizio

degli anni 70 ad oggi. I giuristi scrivono e discutono leggi, ma non

hanno gli strumenti metodologici per capire il funzionamento di un

mercato: lo sommergono di tipologie contrattuali definite sulla base di

criteri astratti, deduttivi. Tale tipologie, a loro avviso, vanno

imposte e regolate per legge, con opzione di ricorso alla magistratura

quando sorgano conflitti. A nessuno viene in mente di lasciare alle

parti il decidere le modalità contrattuali; a nessuno viene in mente

che i conflitti economici si risolvono efficientemente a base di

"transferable utility", ossia di trasferimenti in denaro e fringe benefits. A

nessuno viene in mente che la fantasia degli agenti economici e la

varietà delle situazioni lavorative son tali e tante che tentarne una

classificazione deduttiva, sulla base di principi decisi a priori, è

folle oltre che controproducente; a nessuno viene in mente, infine, che

contratti che per legge devono durare giusto 3 anni sono assurdi: e se

le due parti preferiscono 2 anni e 9 mesi, o 3 anni ed un giorno?

Siamo chiari: il problema non si risolve cambiando il titolo di studio dei

consulenti! Può servire avere economisti oltre che (invece di)

giuristi, ma ovviamente i problemi del mercato del lavoro si risolvono

solo cambiando politica, ossia cambiando il punto di vista dei decision makers, ossia cambiando i soggetti sociali i cui interessi la legislazione tende a proteggere.

Quali

sono i soggetti sociali che bisognerebbe difendere/proteggere? I

lavoratori, sia quelli che già lavorano sia quelli che vorrebbero

lavorare (è importante questo, anche quelli che vorrebbero lavorare). Come

si raggiunge questo obiettivo? Facendo da un lato leggi che favoriscano

la domanda di lavoro stabile e qualificato e dall'altro leggi che

favoriscano la creazione-offerta di tale lavoro. In sintesi: creando

condizioni che permettano agli agenti economici privati di creare tale

domanda ed offerta. Come si ottiene questo? Guardiamo a due esempi

vicini a casa, e cerchiamo di imparare.http://index.php/articoli/387?page=3

3. Gli effetti della flessibilità nel mercato del lavoro: il Regno Unito e l'Irlanda

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3. Gli effetti della flessibilità del mercato del lavoro: il Regno Unito e l'Irlanda

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Il miracolo economico italiano,

come tutti i miracoli economici, ebbe luogo perché un grande numero di

posti di lavoro divennero precari e cessarono di esistere mentre nuovi

posti di lavoro, produttivi, si crearono e divennero stabili. Nella

grande maggioranza il miracolo economico venne fatto da contadini e

piccoli coltivatori espulsi, o volontariamente in fuga, dalle campagne,

da artigiani e piccoli commercianti che fecero lo stesso, da operai che

lavoravano in aziende poco produttive e che se andarono in aziende più

produttive. Alcuni vennero licenziati, altri si dimisero e cercarono

posti di lavoro migliori. La disponibilità di questa manodopera,

flessibile e con la volontà di muoversi da un luogo all'altro per un

salario più alto e migliori prospettive per il futuro, fu un elemento

essenziale di quei due decenni di grande progresso economico. Se non ci

fosse stata la flessibilità del lavoro negli anni 50 e 60, non ci

sarebbe stato il miracolo economico, e il reddito medio degli italiani

sarebbe come quello dei portoghesi, o degli argentini. Non ci vuole

molto a rendersi conto che quanto diciamo è assolutamente ovvio: per

progredire occorre essere disposti a correre il rischio di dover

cambiare lavoro, a volte volontariamente e a volte involontariamente.

Chi ha 60 anni o più di età questo lo sa per esperienza diretta; i piu'

giovani, dai 40 in giù, provino a chiedere a padri e nonni.

Ma vediamo invece dove ci ha portato la rigidità del mercato del lavoro

e la contrattazione nazionale dalla fine anni '60 ad oggi, a miracolo economicoavvenuto.

La teoria economica ci dice che la rigidità del mercato del lavoro ha

effetti negativi sull'occupazione giovanile. Perché assumere è un

rischio, per l'impresa, e assumere un giovane senza esperienza è un

rischio maggiore. A questo proposito, confrontiamo il mercato del

lavoro italiano con quello del Regno Unito e osserviamo soprattutto la

situazione dei giovani. Il confronto col Regno Unito è naturalmente

calzante: i) perché alla fine degli anni 70 il nostro GNP e quello del

Regno Unito erano pressoché uguali; ii) perche' il tasso di

disoccupazione italiano era uguale o inferiore a quello inglese per

tutti gli anni 60 e sino a circa il 1977; iii) perché è un'economia

molto simile alla nostra, sia per dimensioni, che per territorio, che

per orientamento all'esportazione, eccetera; iv) perché è un'economia

che alla metà degli anni 70 era ancora più ingessata, rigida,

sindacalizzata, e in crisi della nostra; v) perché il Regno Unito ha

avuto un interessante uno-due di politica economica, la Thatcher e

Blair, una destra ed una sinistra serie, che hanno portato a una

coerente liberalizzazione del mercato del lavoro; l'Italia invece no.

Nel Regno Unito il tasso di occupazione medio e' di circa 17

punti percentuali superiore all'italiano: 74% verso il 57%! Questo

significa che il cittadino inglese medio ha molte più opportunità di

lavoro di quello italiano. Ma le cose in Inghilterra sono

particolarmente migliori per i settori più 'a rischio' del mercato del

lavoro, quelli particolarmente esposti al rischio di

inoccupazione. Il tasso di attività delle donne da 20 a 24 anni è quasi

del 70%, in Italia è appena sopra il 30%. Il tasso di attività per le donne è, per ogni gruppo di età, almeno 10 punti percentuali più alto nel Regno Unito.

Sarà cultura? Sarà che le ragazze mediterranee vogliono lavorare meno

delle nordiche? O che i mariti machisti non le lasciano lavorare? Può

anche darsi. Ma ricordiamoci che un mercato del lavoro flessibile è

fondamentale per creare posti di lavoro soprattutto per le donne. Da un

lato le imprese, a parità di condizioni, spesso preferiscono offrire un

lavoro a tempo indeterminato a un uomo, che non partorisce e si occupa

meno dei raffreddori dei figli. Dall'altro, spesso sono le donne (per

le stesse ragioni di maternità e cura dei figli) a preferire una

situazione in cui è possibile entrare e uscire dal mercato del lavoro

con una certa facilità. Insomma, un mercato del lavoro flessibile è

molto meglio per le donne che, appunto, sono disproporzionatamente

rappresentate nei settori più a rischio del mercato del lavoro

italiano.

E gli uomini? La stessa storia. Con l'unica differenza che da

30 a 55 anni il tasso di attività in Italia e Regno Unito è pressoché

lo stesso. Il divario grande è nel mercato del lavoro dei giovani, le

vere vittime del sistema italiano. La differenza è di 25 punti

percentuali per il gruppo da 20 a 25 anni di età: nel

Regno Unito oltre il 70% lavora, mentre in Italia solo

il 45%. Il nostro problema è tutto qui. Questa è la differenza tra un

mercato del lavoro (e quindi una società) dinamico e vivo e uno

ingessato e necrotico! Se guardassimo a questi dati per il Sud del

paese, dove la rigidità, la contrattazione collettiva nazionale ed il

posto pubblico fisso la fanno da padroni, le cose sarebbero ancora più

drammatiche.

Ma c'è di peggio. Confrontiamoci con l'Irlanda, un

paese tra i più poveri d'Europa per molto tempo. Un dato per tutti, nel

1985 l'Irlanda aveva un reddito pro capite di poco superiore al 50% del

nostro. Proprio tra il 1985 ed il 1986 l'Irlanda intraprese una strada

liberista in politica economica: basse tasse, liberalizzazione del

mercato del lavoro, tagli "selvaggi" alla spesa pubblica, e via

sciorinando delizie. Insomma quello che vorremmo noi aver visto, per

l'Italia, in questa finanziaria. I risultati del confronto, nei numeri,

fanno impressione: il reddito pro capite irlandese, vent'anni dopo, è

circa il 25% più alto del nostro! Avete letto bene: da metà del nostro

è diventato un quarto più alto, in vent'anni. Per quanto riguarda, poi,

il mercato del lavoro e il destino dei giovani e delle donne, si puo'

ripetere parola per parola, ma aumentando le note positive, quello che

si è detto per il confronto con il Regno Unito. Nel periodo 1981-2002,

la produttività del lavoro è cresciuta più del quattro per cento

all'anno in Irlanda, contro un valore inferiore al due per cento in

Italia. Assieme alla produttività sono cresciuti i salari dei

lavoratori irlandesi: +4% all'anno, quasi tre volte più rapido del

tasso di crescita italiano! Avete capito perché i salari in Italia, sia

in entrata che dopo, sono nella grande maggioranza bassi? Perché da

venticinque anni non cresce la produttività. Fatto uguale a 100 il

valore aggiunto per ora lavorata negli USA, nel 2005 l'Irlanda e' a 104,

l'Italia a 79 (dati OCSE); avessimo preso i dati per l'industria, la

produttività irlandese per occupato sarebbe risultata il doppio di

quella italiana. Naturalmente la flessibilità del mercato del lavoro si

riversa sulla crescita: l'Irlanda cresce da vent'anni a botte del 6-9

percento l'anno; a noi va bene quando arriviamo a 1.5%.

Ma i dati sono sterili. E poi ci crediamo ai dati? Beh allora ricorriamo ai racconti sociologici e di costume. Nel New York Times

del 2 Giugno scorso è apparso un interessante articolo di John

Tagliabue. Racconta dell'invasione dei giovani francesi in Irlanda. (I

francesi sono nella stessa posizione di noi italiani, con un mercato

del lavoro che è uno schifo, rigido, con tassi di disoccupazione

giovanile pari ai nostri, e con un blocco sociale anti-precarietà

durissimo e letteralmente sulle barricate).

Ma cosa ci vanno a fare i giovani francesi in Irlanda? Ci vanno a fare

quello che non possono fare in Francia: lavori precari, ma redditizi

dopo un po' di anni. 20 mila immigrati francesi in Irlanda, negli

ultimi anni (86 mila in Inghilterra). Sembra strano, ma fate mente

locale: pensate al vostro ultimo viaggio a Parigi, al vostro ultimo croque monsieur

al bar, con il cameriere che apre la birra sotto l'ascella; e già,

aveva almeno 50 anni. A Parigi i camerieri non sono giovani che

guadagnano uno stipendio mentre studiano, come a New York o a Londra.

Ma anche a Roma i camerieri sono vecchiotti. Non sarà che i dati sono

giusti? Altri dati allora: le indagini Eurostat (2003 e 2004) ci

dicono che l'Italia e la Francia sono gli unici paesi in Europa dove

non va nessuno, nel senso che nessuno emigra per lavorare in Italia e

in Francia (dall'Europa). Guardate la figura, che indica i flussi

migratori interni all'Europa: nessuna freccia va verso l'Italia e la

Francia. In Italia, e Francia arrivano solo lavoratori dell'Europa

dell'est e tanti extracomunitari che cercano lavori poco o pochissimo

qualificati, e che quindi pagano poco.

Perché questo? Perché in Italia la situazione che abbiamo creato

genera domanda solo per lavoro poco qualificato (che attira gli

extracomunitari perché costoro son ben disposti a lavorare per un

salario basso, che è comunque molto migliore di quello che ottengono

nel paese di origine), mentre in Irlanda ed Inghilterra si

genera domanda per lavoro qualificato. E chi ha la capacità e la voglia

di lavorare in tali, precari, lavori va lì, inclusi molti italiani.

Qui non stiamo parlando solo di baristi e camerieri ma anche di

scienziati, accademici e non, di studenti, e via discorrendo. La

tabella di seguito, presa da un bell'articolo di S. Gagliarducci, A.

Ichino, G. Peri, R. Perotti (disponibile qui)

parla chiaro: la percentuale di stranieri occupati in scienza e

tecnologia in Italia è 1%, contro il 4% e più in Germania e Regno Unito

(e il 10% negli Stati Uniti, ma quelli stanno su Marte). La

percentuale di studenti di dottorato stranieri in Italia è risibile, 2%

(e indovinate da dove vengono ...). Il Regno Unito ha il 35% - trentacinque percento - di studenti stranieri.

   USA    Germania    Regno Unito    Francia    Italia    Spagna    Portogallo  
  Studenti di Ph.D. dall'estero    26%    n.d.    35%    n.d.    2%    11%    6%  
  % di stranieri in scienza e tecnologia    10.0%    4.0%    4.2%    3.5%    1.0%    1.5%    n.d.  

Insomma, ricapitoliamo: i) la teoria economica ed i dati ci dicono

che un mercato del lavoro regolamentato, sindacalizzato, e ingessato

come quello che si è sviluppato in Italia dal dopoguerra genera

disoccupazione e soprattutto disoccupazione dei giovani e delle donne;

ii) l'Italia questo ha, infatti: alta disoccupazione, specie di giovani

e donne. Sia chiaro allora: chi

vuole questo mercato del lavoro danneggia i lavoratori, soprattutto

quelli che vorrebbero lavorare ma non possono come i giovani e le donne. Noi vorremmo un mercato del lavoro come quello dell'Irlanda.

4. Gli argomenti contro la flessibilità sono errati

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4. Gli argomenti "tecnici" contro la flessibilità sono empiricalmente irrilevanti e talvolta logicamente errati.

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Ma quali sono gli argomenti logici ed empirici

che forniscono supporto alle restrizioni legislative alla flessibilità

nel mercato del lavoro? Perché introdurre restrizioni legislative al

diritto di licenziamento per motivazioni economiche? Non è facile

trovare nel dibattito in Italia tali argomentazioni in forma

logicamente compiuta. Il livello del dibattito di politica economica

nel paese, lasciatecelo dire, è terrificante. Un "luogo" adatto dove

trovare una controparte con cui dibattere però c'è: il sito lavoce.info

è popolato da seri economisti del lavoro che si pongono queste domande,

come noi, anche se le loro risposte sono spesso differenti. Ecco per

esempio una classificazione di queste argomentazioni ad opera di Andrea Ichino, che riportiamo verbatim per meglio discutere:

 

 

  1. Un’eccessiva instabilità del rapporto di lavoro può ridurre l’investimento in capitale umano specifico e generale da parte di lavoratori e imprese, con esternalità negative e conseguente riduzione della produttività e del tasso di crescita.
  2. La possibilità di interrompere senza vincoli il rapporto di lavoro può indurre le imprese a selezionare i lavoratori da assumere con minore attenzione, peggiorando la qualità media del match tra impresa e lavoratore, con danni per l'intera economia.
  3. Se rapporti di lavoro instabili si alternano a periodi di non occupazione, esiste evidenza di un effetto "scarring" a danno del lavoratore, che permane nel tempo, con esternalità negative ad esempio sulla progenie del lavoratore stesso. Le conseguenze di lungo periodo di un "low labor attachment" sono state ampiamente studiate nel caso dell’occupazione femminile, ma non solo.

Analizziamo queste argomentazioni teoriche una ad una (per

verificarne la validità empirica occorrono i dati, che a quanto ci è

dato sapere sono scarsi). L'esternalità ipotizzata in i) è tutt'altro

che ovvia. Il rischio di licenziamento tende in generale ad

incentivare, invece che a ridurre, la formazione di capitale umano del

lavoratore. Chiedete cosa fanno all'estero i giovani professori in tenure track

(e cioè non ancora confermati), o i giovani avvocati che vogliono

diventare partners, o i giovani commercialisti che hanno iniziato da

poco a lavorare per un'azienda di consulenza o di contabilità. Lavorano

letteralmente giorno e notte. Lo sappiamo, l'abbiamo fatto anche noi.

Una distorsione a favore di capitale umano generale piuttosto che

specifico all'azienda è possibile, ma questa si cura non proibendo il

licenziamento ma, in principio, tassando monetariamente l'azienda che

licenzia "troppo". Notasi che occorre saper calcolare quale

azienda licenzi "troppo" e quale no; cosa non facile. Ma la

scorciatoia di tassare tutte le imprese che licenziano introduce enormi

costi di transazione. Il punto vero è che impedendo il licenziamento si

generano molte più distorsioni di quante supposte

esternalità si eliminino, visto che tutte le aziende che dovrebbero licenziare non

possono farlo, e quindi falliscono (o vivono di sussidi). Il fallimento

di un'azienda altrimenti sana (o il sussidio a vita di una decotta) ha

un costo sociale altissimo: questa è una delle peggiori esternalità che

una cattiva legislazione produce, dato che il fallimento/sussidio distrugge

capitale fisico, umano, ed organizzativo. Nemmeno la formazione di

capitale umano ne è avvantaggiata: nessuno investe in capitale umano

generale se sa che le sue chances

di tornare sul mercato del lavoro sono nulle o minime, visto che nessuno

licenzia e nessuno assume. E il capitale umano specifico all'impresa?

Ma chi investe con salari rigidi, licenziamento impossibile, carriera

per anzianità, mansioni definite per contratto? Avete mai visto qualche

funzionario ministeriale darsi da fare incessantemente per diventare più

bravo e sbrigare meglio le vostre pratiche?

Il punto in ii) ci pare logicamente incorretto. Ad ogni dato

livello di vincoli al licenziamento corrisponde un livello ottimo di

investimento in selezione del personale. Il legislatore stabilisce i

vincoli, e l'azienda sceglie quanto investire in

selezione. Poiché licenziare in Italia è quasi impossibile, le aziende

fanno selezione all'infinito tenendo i giovani assunti in contratti

temporali assurdi inventati dai nostri beneamati giuslavoristi. Ma che

sia sempre ottimo fare più selezione invece di licenziare è ovviamente

falso: implicherebbe che è ottimo non assumere mai e continuare a fare

selezione. Assumere e licenziare sono, entrambi, dei costi di

transazione. È banale che un sistema di diritti di proprietà

efficiente, ovvero una legislazione del mercato del lavoro

intelligente, dovrebbe cercare di minimizzare la somma dei costi di

transazione. Quindi dovrebbe rendere il licenziamento per ragioni

economiche facile, ed altrettanto facile l'assunzione di un nuovo

lavoratore. Starà poi all'azienda e al lavoratore decidere se fare

tanta selezione uno dell'altro e poi firmare contratti di lunga durata

con tutti i vincoli possibili; oppure se per loro è più conveniente un

rapporto di breve durata. Il legislatore saggio, ripetiamo, dovrebbe

solo preoccuparsi di minimizzare i costi di transazione. Lo sappiamo

anche noi che in presenza di inefficienze multiple ridurne solo alcune non

è necessariamente meglio (per i non economisti, questo si chiama

teorema del "second best"), ma ridurle tutte lo è: chiediamo si riducano tutte, dunque!

L'esternalità menzionata al punto iii) è al più un divertissement teorico che un fatto concreto, e la logica che la sottende e' scivolosa. Lo "scarring"

è dovuto proprio alla mancanza di flessibilità nel mercato del

lavoro. Se nessuno licenzia, pochi assumono; se pochi assumono, chi

viene licenziato avrà vita dura, molto dura. Se è stato licenziato

quando quasi nessuno lo è, ci sarà il suo bel motivo: l'effetto scarring

in questo caso è massimizzato proprio perché il licenziamento è raro.

La durata dei periodi di disoccupazione è endogena e una enorme

evidenza empirica, oltre che il senso comune, mostrano che i periodi di

disoccupazione medi sono molto bassi (pochi mesi) quando il mercato del

lavoro è flessibile. Quindi l'effetto "scarring"

in un mercato del lavoro liberale è di fatto limitato a casi

patologici, che ovviamente non si risolvono mantenendo tutti in

occupazioni improduttive. I casi patologici si risolvono con forme di

assicurazione, cose ben diverse dal divieto di licenziare. In ogni

caso, se esistesse un importante effetto "scarring"

generalizzato, anche questo andrebbe curato con un sussidio

all'impresa, non con un'imposizione erga-omnes, esattamente come nel

punto i).

Lo stesso tipo di annotazioni critiche possiamo fare ad

altre argomentazioni di tecnici del mercato del lavoro. Si prenda per

esempio, sempre dallo stesso sito, la recente proposta di "eliminazione

della precarietà" per via giuridica, elaborata da T. Boeri e P. Garibaldi.

La motivazione è lodevole, ma la proposta in cosa consiste? In

codificare la relazione di lavoro fra impresa e dipendente ancora di

più: sei mesi di "prova", poi trenta mesi di "inserimento"; dopo di

questi si passa alla situazione "normale", quella del contratto a tempo

indeterminato. Nient'altro, a parte una riduzione della durata massima

del contratto di lavoro a tempo determinato da tre a due anni, senza

spiegazione del perché. Cosa cambierebbe? Nulla! Perché sei mesi?

Magari al lavoratore e all'impresa vanno bene otto. Perché trenta di

inserimento? Magari ne preferiscono quattordici. Perché il tempo

determinato "giusto" è due anni? Se invece io lo volessi di due anni e

tre mesi? .. La logica della proposta ci pare chiara: ingabbiare i

mercati in criteri decisi a tavolino, con numeri che sembrano quelli di

Maastricht, tirati fuori a caso dal cappello dell'addetto ai lavori.

Sia chiaro, ci siamo concentrati sulle argomentazioni di Ichino da un lato e di

Boeri e Garibaldi dall'altro perché sono le più solide e perché ne rispettiamo gli

autori. Le altre che si trovano in circolazione lasciano molto più a

desiderare. Buona parte della discussione sui giornali è addirittura

senza senso.

5. Che fare?

'<h' . (('2') + 1) . '>'

5. Che fare? Soyons realistes, exigeons l'impossible!

'</h' . (('2') + 1) . '>'

Prima di tutto, aboliamo la regolamentazione legislativa delle tipologie contrattuali.

Abbiamo già discusso questo punto. L'articolo 1322 del codice

civile dice che le tipologie di contratto specificate dalla legge non

sono esaustive: le parti possono inventarsene di nuove. Perché questo

non vale per il mercato del lavoro? Una volta proibita la schiavitù e

le poche figure contrattuali che le assomigliano, perché non lasciare

che se un lavoratore e un'azienda sono contenti di avere un rapporto di

lavoro ad hoc, se lo decidano tra loro il contratto appropriato?

 

Inoltre, riduciamo fortemente l'onere probativo imposto alle imprese dalla legge sui licenziamenti per giusta causa.

Spiace dirlo così brutalmente, ma impedire alle imprese di licenziare

semplicemente quando lo impone il calcolo di convenienza economica,

significa anche impedire alle imprese di assumere quando un nuovo posto

di lavoro è profittevole, proprio perché si caricano le imprese di un

costo aggiuntivo di cui esse dovranno tener conto al momento

dell'ipotetica assunzione. In questo modo si svuoterebbe il dibattito

riguardante l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che obbliga il

reintegro del lavoratore nei casi di licenziamento senza giusta causa.

Il nodo da affrontare e tagliare è il seguente: il licenziamento di

poche persone, al limite una sola, per ragioni economiche costituisce

"giusta causa"? Noi riteniamo che, in principio, la risposta sia SI e

che norme debbano essere istituite che lo permettano. Questo non

significa che l'azienda deve esser libera di licenziare arbitrariamente

chiunque stia antipatico al padrone; ma a questo problema si risponde

con opportune leggi contro i licenziamenti individuali discriminatori e

motivati in realtà da ragioni politiche, religiose, e sessuali. La discriminazione ad personam non si elimina imponendo vincoli generali sul licenziamento per ragioni economiche. Noi auspichiamo che, inoltre, non venga definita per legge la necessità

di arbitrati da parte del giudice in caso di conflitto. Si lasci che

l'arbitrato avvenga privatamente e attraverso compensazioni in moneta

accettate dalle parti.

Riassumendo:

si tratta di definire quelle poche e ovvie circostanze in cui il

licenziamento non è permesso perché discriminatorio (e al quale fa

seguito o il reintegro o, se il lavoratore lo preferisce, una

compensazione economica) e permettere il licenziamento in tutte le

situazioni non classificate esplicitamente come discriminatorie.

Poi, aboliamo la contrattazione collettiva a livello nazionale dei salari e delle forme contrattuali.

Non vi è nessuna logica, né di efficienza né di equità, per

mantenere il contratto nazionale, di categoria o di quel che sia. I

contratti vanno fatti a livello aziendale, o individuale, perché è a

livello individuale o, al più, aziendale, che si verifica l'incontro

fra domanda e offerta di lavoro. L'argomento secondo cui solo a

livello nazionale la capacità contrattuale del lavoratore è

equiparabile a quella del datore di lavoro è falso empiricamente, oltre

che specioso logicamente.

Empiricamente falso perché, ovviamente, essendo la mobilità

territoriale del lavoro limitata e le capacità professionali dei lavoratori altamente eterogenee, certi lavoratori in certe aree hanno

una capacità contrattuale superiore alla media nazionale ed altri una

inferiore alla media nazionale: è una media dopotutto. Ugualmente,

alcune aziende saranno altamente produttive, e quindi troveranno il

salario medio nazionale un conveniente regalo (ossia, senza

quell'accordo potrebbero facilmente essere disposte a pagare i loro

dipendenti ben di più) mentre altre lo troveranno troppo alto e saranno

costrette a chiudere o a licenziare (mentre i loro lavoratori,

probabilmente, avrebbero preferito lavorare e guadagnare un salario,

magari inferiore al medio nazionale, invece di non guadagnare nulla).

Quindi, il contratto nazionale con il salario nazionale crea

ingiustizie e disuguaglianze ingiustificate da un punto di vista

economico. Altrettanto ovviamente il contratto nazionale crea gli

incentivi sbagliati: a chi non ha voglia di lavorare e non sa fare

nulla garantisce un salario troppo alto, e chi ha voglia di lavorare e

sa fare le cose bene, offre un salario troppo basso.

È logicamente specioso, perché è ovvio che la contrattazione

decentralizzata è superiore, in quanto si adatta meglio a situazioni

eterogenee, alla contrattazione centralizzata da parte di agenti i cui

interessi non sono allineati a quelli per conto di cui contrattano. E

qui veniamo al punto dolens: i contratti nazionali e la

rappresentatività erga omnes di alcune organizzazioni sindacali servono

solo a mantenere in piedi una burocrazia sindacale parassitaria e

potente, pagata con le tasse dei lavoratori, in attesa che si liberino

per i più fortunati fra di loro posti da ministro, viceministro,

presidente di camera e senato, parlamentare, o anche solo presidente

dell'Inps, o dei mille istituti inutili ma costosi che i sindacalisti

italiani presiedono prima d'andare in pensione.

Infine, proteggiamo i lavoratori da eventi avversi attraverso una assicurazione di disoccupazione obbligatoria e nazionale.

Esisteranno sempre congiunture sfavorevoli, fallimenti di imprese,

lavoratori che perdono il loro impiego. Il sistema attuale è

particolarmente sfavorevole verso i più sfortunati, i disoccupati. La

cassa integrazione guadagni provoca effetti perversi disincentivando il

lavoratore dal cercare un nuovo lavoro; soprattutto, non a tutti la

cassa integrazione viene concessa, alcuni sono "fortunati", altri molto

meno, il ché è ingiusto e crea incentivi distorti. E se l'impresa

fallisce, quando la cassa integrazione finisce il lavoratore si trova

senza lavoro e senza stipendio. Occorre invece istituire

un'assicurazione di disoccupazione obbligatoria e nazionale. Se proprio

volete un modello per quest'ultima, quello spagnolo è un buon punto di

partenza; In Spagna la cassa integrazione non esiste da tempo, e la

contrattazione nazionale e di categoria sta passando di moda, mentre

sempre di più il grosso della contrattazione si fa a livello aziendale

... sarà un caso che la Spagna ha aumentato il numero dei suoi occupati

del 50% (cinquanta per cento!) in undici anni?

Serve altro? No, per quanto riguarda il mercato del lavoro non serve altro.

Certo occorrono anche riforme in altri settori, ma abbiamo promesso

di parlare solo di mercato di lavoro in questo post. Comunque, ecco la

lista della spesa: oltre ai dieci, cento, mille 'bersani' che

liberalizzino persino il settore della distribuzione di carta igienica,

occorre tagliare le tasse sul reddito da lavoro, tagliare i contributi

sociali, liberalizzare in modo attuarialmente equo l'età di

pensionamento.

Se vi siete stancati di leggere cose tecniche - vi avevamo

avvisato: non sempre scriviamo cattiverie e goliardate più o meno

sconce - basta così. Il grosso l'abbiamo detto e la rivoluzione,

pardon: riforma, del mercato del lavoro che s'ha da fare l'abbiamo

descritta. Ma se vi vanno alcune altre riflessioni più generali,

adelante!

6. Il "posto fisso alle Poste" e conclusione

'<h' . (('2') + 1) . '>'

6. Ma il "posto fisso alle Poste" non è un bene?

'</h' . (('2') + 1) . '>'

Le microscopiche riforme introdotte dalla Legge Biagi hanno creato

sconcerto in alcuni settori del mondo politico-sindacale, uno sconcerto

che ha trasformato questa leggina in un simbolo da abbattere. A fronte

dell'effetto reale sortito, una tale reazione sembra francamente

spropositata. Ci sono varie ragioni per questo, ma la principale è

ovviamente di natura simbolico-politica: la legge Biagi stabilisce che

lo statuto dei lavoratori non è una bibbia intoccabile, ma una legge

fatta quasi quarant'anni fa, con un mucchio di difetti e che ha

prodotto più danni che altro ai lavoratori. Se era giustificata al tempo, di certo non lo e' piu' ora. Ovviamente, nel dibattito

sopra la legge Biagi, questo non viene detto. Ciò che viene detto,

invece, è che la legge Biagi "crea" o "genera" o "sostiene" o "incentiva" la precarietà del rapporto di lavoro.

Chiediamoci, dunque, è vera questa accusa? In cosa consiste la

precarietà? Cosa genera la precarietà? E' davvero così terribile la

precarietà?

Non c'è dubbio che la precarietà in Italia, e anche altrove,

spaventa. La lotta alla precarietà è l'unico argomento su cui destra e

sinistra appaiono in accordo. Dalla chat di Romano Prodi con il Corriere,

Domenica 26 Marzo, 2006, si legge: "Con questa legge [la Legge Biagi]

si è istituzionalizzato il precariato. Berlusconi dice che c'è solo il

12% di lavoratori precari. Sì, nella massa. Ma tra i giovani più della

metà sono precari. E questo significa distruggere una generazione:

impedire loro di fare programmi, acquistare una casa, fare figli. [...]

Per questo ho proposto di alzare il costo del lavoro precario e di

ridurre il costo per il lavoro stabile». Casini, a Porta a Porta,

difendendo la Legge Biagi, dice (riportiamo a memoria): "siamo tutti

genitori, e tutti sognamo un posto fisso per i nostri figli." La

dichiarazione di Casini è rivelatrice: secondo lui la precarietà si

elimina con il posto fisso, ovvero la precarietà è uguale al posto di

lavoro non fisso, non eterno.

Il posto fisso garantito esiste

solo nel mondo dei sogni e delle menzogne che i politici ed i

sindacalisti italiani da sempre raccontano. Chiediamolo ai giovani

meridionali quanto si sentono garantiti dal posto fisso (lo cercano,

naturalmente, perché non hanno altra possibilità - eccetto emigrare,

cosa che hanno sempre fatto e continuano a fare). Solo nel settore

pubblico esiste, purtroppo, il posto fisso. Infatti il settore pubblico

non progredisce, non compete, non migliora, non esiste per servire i

cittadini, e si vede. Se il settore pubblico volesse progredire

dovrebbe adottare prima di tutto il principio che il lavoratore che non

funziona si può cambiare di posto, rimuovere, abbassare di qualifica,

e anche licenziare. Come succede, guarda caso, in tutti i paesi del

mondo in cui i servizi pubblici sono minimamente funzionanti, e come sostiene - altra voce che predica nel deserto - Pietro Ichino.

Lo spettro della precarietà, dunque, si aggira per l'Europa. Noi la

chiamiamo flessibilità e vuol dire questo: un'azienda ha il diritto di

licenziare un lavoratore, con un preavviso di uno o due o anche tre

mesi, per ragioni puramente economiche, ovvero perché non ne ha più

"bisogno" ed il lavoratore costa troppo rispetto a ciò che produce. Da

molte parti si considera tale diritto un male, noi lo consideriamo un

bene, anzi un elemento necessario per lo sviluppo economico. Che

piaccia o meno alle anime belle che predicano la programmazione ed il

lavoro stabile come se fossero una specie di miracolo legale, il posto

di lavoro stabile non esiste e non è mai esistito. Laddove è stato

imposto, per esempio nei servizi pubblici, avviene ad un alto costo per

il resto della società che deve privarsi di parte del prodotto del

proprio lavoro per pagare il salario ad un lavoratore che sta facendo

cose che non servono a nessuno, oppure non sta facendo assolutamente

nulla. Poiché, per ovvie ragioni, se qualcuno consuma senza far nulla

dev'esserci qualcun'altro costretto a consumare meno di ciò che

produce.

L'istituzione del posto fisso è dunque iniqua e premia solo gli

approfittatori, i raccomandati, o anche solo i fortunati. Trasforma il

mercato del lavoro in una lotteria, nel migliore dei casi, o in un

lupanare dove si pratica il meretricio di massa: la raccomandazione,

l'amico/parente politico o sindacalista con il contatto che riesce a

farti assumere, che riesce a truccare il concorso, o addirittura tu

stesso/a che corrompi per vincere il concorso. Il posto fisso non

protegge i deboli, fa invece loro danno perché i deboli sono, appunto,

senza connessioni, senza capacità di meretricio, senza assi nella

manica, senza abilità di arrangiarsi. I deboli, in un mondo con i posti

fissi d'appannaggio ai furbi, si prendono le briciole. Il debole ha una

sola cosa a suo favore nella vita: che gli venga data l'occasione di

mostrare che vale, che ci sa fare, che anche lui può lavorare, produrre

e inventare.

Insomma, il debole figlio di nessuno ha solo la competizione come

speranza: se gli impedisci di competere, se crei un sistema dove i

furbi son "dentro" con i posti fissi per sempre, e i figli di nessuno

"fuori" con i posti marginali, i lavori più duri e senza prospettive

di carriera, allora il figlio di nessuno è debole per sempre. L'unica

salvezza dei deboli figli di nessuno, lo ripetiamo, è la precarietà dei

furbi, la possibilità che i furbi debbano temere la concorrenza dei

figli di nessuno: in un mondo flessibile il debole ha qualche speranza

di prosperare, in un mondo di posti fissi è fregato per sempre.

Se il lettore e' interessato ai dati seri sulla mobilità sociale, legga l'articolo di

Chris Flinn, "Labor Market Structure and Inequality: a Comparison of

Italy and the US" (in Review of Economic Studies

July 2002, vol. 69, n. 3). Chris trova che mentre la disuguaglianza

misurata scattando una fotografia dei redditi in un dato momento è più

alta negli USA che in Italia, quando si guarda all'intero arco di vita

non lo è. Questo perché nel mercato del lavoro americano ci sono più

opportunità di effettuare transizioni in su e in giù all'interno della

distribuzione dei redditi, mentre in Italia è tutto gessificato.

Perché gli italiani, ciononostante, cercano il loro bel posto alle

Poste? Decenni di politiche cattocomuniste sul mercato del lavoro e un

secolo e mezzo di emigrazione dei più motivati e ambiziosi (non stiamo

pensando a noi stessi, adesso, noi siamo solo poche centinaia,

irrilevanti; stiamo pensando all'emigrazione in Argentina e negli Stati

Uniti dalla fine dell'800 sino alla seconda guerra mondiale, e in

Germania e Svizzera negli anni 50 e 60) hanno lasciato il segno sulla

cultura e i valori del paese. Secondo la World Values Survey

del 1999, alla richiesta di identificare in una lista gli aspetti

importanti di un lavoro, gli italiani menzionano la "sicurezza e la

mancanza di rischio" molto più di quanto non facciano gli inglesi, gli

irlandesi, e gli americani, come riportato nella Tabella.

  Sicurezza e mancanza di rischio (1999)    TOTALE    Irlanda    Italia    Gran Bretagna    USA  
  Non menzionata    28,5    31,4    23,9    34,9    28,2  
  Menzionata    71,5    68,6    76,1    65,1    71,8  

Perché? Ci sono due ragioni fondamantali, oltre alle ragioni

"culturali" cui abbiamo accennato. Questi sono appunti per Ex-Kathedra

futuri, ma li mettiamo qui per chi ha voglia ancora di leggerci.

La flessibilità è un problema di equilibrio generale.

i) Non basta liberalizzare i contratti dei giovani solamente. ii)

Ogni misura sul mercato del lavoro ha impatto minimo in un paese con

tassazione violenta come il nostro (perché le imprese fanno fatica a

innovare, perché molte sono in nero...), quindi bisogna liberare

risorse dalla spesa, e tanta (e questo in Italia non è possibile senza

mettere le mani sulla "questione meridionale"). iii) Non basta un

mercato del lavoro flessibile se il mercato degli affitti è bloccato da

tipologie contrattuali stabilite per legge (a Milano non si puo'

affittare a meno di 4+4 anni; cioè 8 anni, che possono diventare 4 se

si dimostra necessita di usare l'appartamento per se stessi). iv)

Bisogna liberalizzare il mercato del credito, così se voglio dei

capitali per fare i "kinky boots"

posso trovarli facilmente. v) Bisogna abolire gabelle, timbri, licenze

e certificati (notarizzati, ovviamente) attualmente necessari per

aprire un business.

La transizione a un mercato del lavoro liberale è costosa.

Niente è gratuito. Per passare da un mercato del lavoro come quello

italiano a un mercato del lavoro di carattere liberale e garantista,

come quello inglese o irlandese che a noi piacciono tanto, ci vogliono

lacrime e sangue. Ricordate la Thatcher? La depressione delle grandi

città industriali inglesi (Liverpool, Manchester, per esempio) alle

fine degli anni 70? Ricordate i bei film sulla disperazione della

classe media che deve affrontare licenziamenti e riconversioni

industriali (pensiamo a My beautiful laundrette, Full monty,

i film di Ken Loach, e via così)? Lacrime e sangue allora. Ci rendiamo

conto. Ma 10-15 anni dopo l'Inghilterra è un paese vivo, sempre più

ricco (anche e soprattutto nella sua classe media); ricco

economicamente e vivo intellettualmente, positivo e ottimista. La

cinematografia inglese comincia a cambiare temi. Ora Ken Loach fa

film sulla guerra in Iraq, i giovani registi impegnati si occupano di

identità etnica (East is east, Bend it like Beckham)

molti registi fanno film allegri e divertenti, o magari intimisti, ma

nessuno si preoccupa più delle disperate periferie di Manchester, che

tanto disperate non sono più.

L'Italia è ora (beh, è stata negli ultimi 30 anni) dove

l'Inghilterra era alla fine degli anni 70. E le cose peggiorano.

Possiamo chiudere gli occhi e fare finta che la Cina non esista, né il

resto del mondo. Possiamo evitare di passare dalla fase di

riconversione e transizione, certamente, ma finiremo a passo svelto

verso il modello argentino. Non vogliamo nemmeno sapere che film fanno

in Argentina, francamente. Ah, si, fanno Nueve Reinas:

il manuale dell'arrangiarsi truffando il prossimo! Invece, pensiamo

all'Irlanda, quello deve essere l'obiettivo.

Oltretutto, i costi della

transizione, per quanto elevati, possono essere in parte alleviati con

opportune misure di assicurazione sociale (di cui non parliamo in

dettaglio, ma le abbiamo accennate sopra e ci ritorneremo). Tanto per

intenderci, assicurazione sociale non significa mantenere guardie

forestali in Calabria in numero 10 volte superiore a quelle del

Trentino, ma significa dare alle guardie un tempo ragionevole per

riconvertirsi ad altro. E "altro" può richiedere lavorare sul serio,

magari anche muoversi dove il lavoro è offerto. Questo è costoso,

per le guardie, e ci spiace per loro: non fanno nulla di male,

individualmente (hanno solo trovato il lavoro che più gli conviene), ma

sono stese su rendite socialmente inefficienti che il paese non può permettersi.

'<h' . (('2') + 1) . '>'

Conclusione

'</h' . (('2') + 1) . '>'

Un'avvertenza conclusiva, per rassicurare il lettore (e addirittura

chiedergli di rileggere le argomentazioni, che abbiamo faticato a

fare): non siamo pazzi, né "amici dei padroni".

Ce la prendiamo qui con le rendite sul mercato del lavoro, garantite da

sindacati irresponsabili, perché parliamo del mercato del lavoro. Le

rendite monopolistiche dei "padroni" ci piacciono ancora meno. Ma di

questo ci occupiamo quotidianamente su nFA.

Qui ci occupiamo del mercato del lavoro, per una volta. E ci teniamo a

sostenere con forza, e a proposito insistiamo sia qui che altrove,

siamo certi d'essere "amici dei lavoratori".

Non siamo pazzi. Buona parte della gente che ha pensato e pensa a

queste cose da un punto di vista tecnico e privo di pregiudizi, la

pensa come noi. Blanchard e Tirole, economisti di fama e "di sinistra"

per esempio: "Reforms

of the unemployment insurance system which allow for higher insurance

while maintaining search effort [..] have both direct insurance

effects, but also indirect ones, as they allow to decrease employment

protection and improve efficiency" (in "Contours of employment protection reform"). Non

viviamo nelle catacombe: è il dibattito italiano sul mercato del

lavoro, cui il cittadino è normalmente esposto, che sta nelle catacombe

del pensiero economico.

La verità vera ma peccaminosa perché nega decadi di cattocomunismo

straccione, la verità che tutti tacciono travolti da un buonismo

anti-mercato tanto ipocrita quanto dannoso, è che la libertà

contrattuale sul mercato del lavoro fa bene soprattutto ai lavoratori!

La loro migliore protezione è proprio la flessibilità, e la migliore

garanzia è un sussidio di disoccupazione fatto come logica economica e

senso comune comandano. Ma per far tutto questo, occorre passare sopra

le lobbies sindacali, professionali, e parrocchiali; occorre

sconfiggere le loro parassitiche burocrazie.

Sappiamo che è difficile, ma non importa: soyons realistes, exigeons l'impossible.

 

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Commenti

Ci sono 42 commenti

Da (modesto) economista, concordo sul piano tecnico con la vostra analisi e proposta. I miei dubbi - e sottolineo dubbi, non ho certezze al riguardo - sono di altro genere: gli USA (paese che ammiro incondizionatamente) o la Gran Bretagna sono davvero il modello di società da proporre in questo momento storico per l'Italia? Non parlo da economista: tacciatemi di "ateo devoto" o di "ratzingeriano di ritorno", ma dal settembre 2001 cerco di guardare a tali questioni spogliandomi per quanto possibile delle robuste convinzioni economiche (che in fondo credo coincidano con le vostre: il mio nickname dovrebbe essere self-explaining, anche se nessuno dei due era "solo" un economista) ed adottando una visione più complessiva. La butto lì a titolo di esempio e, ripeto, senza avere una risposta in tasca: quanto è compatibile difendere i valori occidentali, p.e. la famiglia e l'educazione tradizionale dei figli, obiettivo per me imprescindibile di fronte alla realtà dello scontro di civiltà in atto, con un sistema economico che spinge (meritoriamente sul piano della mera efficienza economica) alla mobilità p.e. territoriale? Se la forza della società italiana è nelle piazze e nei campanili, è davvero desiderabile creare generazioni di individui senza radici? Parafrasando un vostro esilarante pezzo di qualche giorno fa, dal punto di vista del "capitale sociale" da preservare non è in fondo meglio che il figlio del farmacista faccia anch'egli il farmacista, e il figlio dell'operaio faccia l'operaio, ecc., ecc. se questo consente di preservare una rete di valori e relazioni sociali secolari? Voi direte: assolutamente no, perché un sistema sociale mummificato non progredisce economicamente e quindi è destinato a perdere anche nell'(immagino per voi solo eventuale) scontro di civiltà. Io dico: e chi ci dice che il tipo di progresso in grado di farci vincere lo scontro sia (solo) quello di tipo economico? E se invece servisse un progresso (o una mera difesa) di tipo morale/culturale? Dico questo perché temo davvero che in un paese ormai marcio e quasi privo di valori come l'Italia riforme economiche come quelle che voi proponete potrebbero distruggere anche il residuo di "radici culturali" che ci rimangono. Mentre le stesse riforme, in nazioni con un sistema sociale, culturale e di valori condivisi molto più robusto come gli USA, i paesi anglosassoni in genere, ma anche alcuni stati europei (p.e. l'auspicabile futura Francia "all'americana" di Sarkozy), non possono che avere effetti positivi, non sono affatto certo che da noi il risultato non sarebbe il definitivo collasso della società italiana, con la resa di fronte al relativismo culturale e, più tardi, di fronte al "nemico tra noi".  

 

A mio modesto parere la "nuova famiglia italiana" non è proprio un

bene da proteggere. Proprio in questi giorni i giornali sono pieni di

episodi di bullismo a scuola e stupri da parte di ragazzini minorenni a

compagnette di scuola. I commenti dei genitori degli stupratori? "La

scuola sa solo punire!!!". Ma siamo matti, adesso la colpa è della

scuola e non della famiglia. E poi, se andiamo a vedere il consumo di

droga nelle discoteche frequentate da minorenni (purtroppo non ho dati

ma hoi ricevuto l'informazione da persone che ne hanno accesso), parlo

di cocaina, il consumo è altissimo. Chi glieli da i soldi a costoro se

non i genitori? 50 o 100 euro alla settimana? Io fino a 18 anni vedevo

tra le 10000 e le 20000 lire a settimana e zitto. E non ditemi che

adesso c'è l'euro!!!

Insomma, non mi sembra che la famiglia

italiana odierna rappresenti questa grande risorsa da proteggere.

Proteggere poi da cosa? Da una riforma che crea occupazione e che ti

obbliga a spostarti da Bari a Milano nella peggiore delle ipotesi? E

poi diciamoci la verità, ora come ora si spostano i migliori, chi va

all'estero e chi migra nelle grandi città per trovare un lavoro che si

addice alle sue capacità. Di questi non vogliamo curarci? Ci

preoccupiamo solo di coloro che poverini, potrebbero essere costretti a

spostarsi data una riforma che crea più occupazione e ricchezza per

tutti? Non mi sembra proprio il caso.

 

 

 

Dimenticavo! Scusate la nuova intrusione ma volevo una informazione tecnica: è possibile utilizzare i vostri articoli a scopi didattici (handout agli studenti o links sul sito del corso e simili)?

 

Certamente! Come dice il fine print in fondo alla pagina:

Contenuti pubblicati a norma di una licenza Creative Commons Attribuzione 2.5 .

Nel link puoi persino trovare i dettagli in legalese, se necessari.

 

 

Da un punto di vista GE, una condizione necessaria per far funzionare le cose proposte è, dopo aver cancellato lo statuto dei (non)lavoratori, una profonda riforma del processo civile. Se vengo licenziato e voglio portare in giudizio il datore di lavoro diciamo per discriminazione di qualche tipo, devo essere certo che la mia causa, se ha merito, verrà giudicata prima di una decina d'anni!!

Altro punto marginale ma (per me almeno) logicamente interessante: come la mettiamo con i contratti tenure? Negli US, a parte i giudizi di supremi court (forse anche i giudici federali, ma su questo non sono certo), tutti i contratti sono at will meno quelli tenure all'università. Si, lo so, l'impegno è sul non licenziare i tenure professors, non sull'adeguare le loro remunerazioni a market value e neanche all'inflazione, per non parlare del fatto che gli si può aumentare molto il carico didattico. Nonetheless, sapete meglio di me quanto difficile sia fire a tenure professor (do you remember graciela, michele?). Che ne pensate? C'è qualche paper su questo? Io ricordo solo, nella notte dei tempi, un paper di Piero Tedeschi al riguardo, molto complicato e, per quanto mi ricordo, non molto conclusive...

Comunque, anche se non serve dirlo, sono d'accordo in pieno sul modello (di partial equilibrium) proposto in questo articolo.

 

caro stockli,

siamo d'accordo sulla riforma del processo civile - mi pare di ricordare che la durata media di un processo civile oggi in Italia si aggiri sugli otto-nove anni... D'altronde avevamo specificato che ci limitavamo al mercato del lavoro, senza elencare tutti i campi di possibili (e dolorosamente necessarie) riforme. 

L'esempio della tenure e' ovviamente interessante. La motivazione che si usa di solito e' che la tenure e' necessaria per fornire gli incentivi giusti ad intraprendere progetti di ricerca di lungo respiro e molto rischiosi, che senza tenure magari non verrebbero fatti con possibile perdita per lo scibile umano (p.e., la prova dell'ultimo teorema di Fermat...). 

Per quanto riguarda gli strumenti a disposizione dell'universita' che volesse liberarsi di un professore nullafacente, a parte quelli che hai menzionato tu c'e' anche la possibilita' di chiudere un intero dipartimento, cosa che a volte e' stata utilizzata con successo.

 

 

...fra le coscenze italiche. Poco, forse, ma si muove. Ecco un fondo di Pietro Ichino di oggi, http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/11_Novembre/21/ichino.shtml.

Ancora più che la (sacrosanta) eliminazione di concorsi e valore legale del titolo di studio, mi colpisce la proposta ancor più sacrosanta di un sistema di voucher per l'università. Si, lo so, non c'è speranza che cose così intelligenti avvengano in Italia, ma leggere queste proposte almeno aiuta a non sentirsi così soli...

 

sara', mio caro stockli. pero' non riesco a togliermi l'immagine di ichino che legge i necrologi (sulla stampa anglo-sassone- poco o nulla su quella italiana o mi sbaglio?) su friedman e pensa, "pero' questa idea dei voucher non e' mica male; domani la vendo sul corriere come mia'

 

Cari Redattori, quanto è legato il successo dell'Irlanda alla bassa

tassazione sui capitali provenienti dall'estero? Grazie alla politica

di differenziazione tra la tassazione sul capitale interno (28%) e

quello estero (10%) gli irlandesi sono riusciti ad attrarre gran parte

degli investimenti diretti dall'estero verso l'europa.  Quale

sarebbe stato il risultato di questa politica se il mercato del lavoro

non fosse stato flessibilizzato allo stesso tempo? Immagino una

crescita meno sotenuta ma non sarebbe comunque l'Irlanda cresciuta più

dell'Italia? Non sarebbe auspicabile una politica di questo tipo anche

in Italia? D'altronde, non sarebbe più facile attuare una

liberalizzazione del mercato del lavoro in periodi di crescita che in

un periodo di stagnazione? 

 

Cari rumorosi americani:

 ho letto con gusto l’articolo sulla rivoluzione del mercato del lavoro e sono sinceramente intenerito dal vosto entusiasmo. Alcuni spunti polemici sono notevoli e ben scritti, da altri mi sembra vi lasciate trascinare dalla paranoia e immaginiate che solo sepolcri imbiancati possano non essere d’accordo con voi. Io mi limitero’ a chiedervi di lavorare di piu’ per fornire l’evidenza empirica che manca ad alcune delle vostre argomentazioni.

1) “Posto fisso alle Poste”: quanti sono quelli che lo sognano? Sono tanti rispetto a cosa? (Altri paesi? Altri periodi storici?). E’ assunto come dato di fatto nel dibattito che “tanti lo sognino” ma ottenere evidenza empirica non e’ banale: non basta certo il numero di iscritti ai concorsi pubblici (se il sistema di reclutamento non e’ omogeneo nel tempo e tra paesi questo puo’ amplificare o meno gli iscritti e far perdere valore alla comparazione riguardo al fatto se siano “tanti”).

2) Riguardo i (scandalosamente bassi) tassi di occupazione in Italia avete identificato la ragione principale: basso tasso di occupazione femminile e basso tasso di occupazione giovanile. Dati tutti i possibili effetti di feed-back provenienti dal mercato del lavoro, siamo sicuri che il mercato del lavoro abbia in first-order effect nello spiegare i bassi tassi di occupazione di queste due categorie. Butto li’ due possibili spiegazioni: per i giovani, il sistema scolastico a livello terziario (soprattutto per la fascia d’eta’ che citate: 20-25 anni); per le donne, asimmetrie nel carico di lavoro in famiglia e discriminazione. naturalmente entrambe le spiegazioni sono legate al mercato del lavoro ma dire che la mancanza di flessibilita’ nel mercato del lavoro sia la cuasa quantitativamente piu’ rilevante nello spiegare i bassi di attivita’ per questi due gruppi e' qualcosa che rimane da essere provato.

3) Nella risposta alla lista di Andrea Ichino riguardo i costi della flessibilita’ portate il solito esempio del tenure-track che coinvolge gli accademici americani. Una sola domanda: se la flessibilita’ ha questi formidabili effetti incentivo perche’ la tenure esiste? In fondo il tenured professor americano e’ nella stessa posizione dell’impiegato delle poste italiano: inamovibile posto a vita a meno di comportamento criminale. Richiesta di empirical evidence: data una cross-section di professori americani quanto sono in un contratto di lavoro flessibile?

4) L’impiegato alle poste o peggio al ministero o (brrr) all’INPS sono il vostro target preferito. Ancora richiesta di empirical evidence: la proporzione di occupati nel settore pubblico in Italia e’ molto piu’ alta di quella in altri paesi, ad esempio gli Stati Uniti dove il budget del Pentagono da solo e’ pari al GDP della maggior parte dei paesi del mondo? Ancora il calcolo non e’ banalissimo: ad esempio, come confrontiamo paesi con diverse proporzioni di scuola pubblica e privata o ancora con sistemi di assicurazione sanitaria diversa? Come calcoliamo l’indotto?Ancora: c’e’ effettivamente liberta’ di licenziamento nel settore pubblico americano (o irlandese o inglese)? Se non c’e’ usano altri sistemi di incentivi o bastano gli effetti di equilibrio provenienti dal mercato del lavoro privato?

5) Contrattazione collettiva: qui sinceramente mi sembra siate un po’ ingenui quando dite che “non vi e’ nessuna logica, ne’ di efficienza, ne’ di equita’ per mantenere il contratto nazionale”. Certo che c’e’: aumenta il bragaining power per gli unskilled workers. Altrimenti perche’ mai Wal-Mart fa’ tutta ‘sta fatica per tenere fuori i sindacati dai suoi orribili grandi magazzini? Poi possiamo discutere qual’e’ il beneficio netto, se sia appropriato a tutti i livelli o solo alcuni, quali effetti occupazionali abbia ma dire che non abbia logica mi sembra buttata li’. Domanda di evidenza empirica: che proporzione del salario totale e’ data dal contratto collettivo nazionale? (Per industria e occupazione, please).

Un’ultima cosa: non sottovalutate il cinema argentino.

Pau Flaccido

 

Vorrei provare a rispondere, ma non so se farlo o meno, ed ho paura di farmi prendere la mano. Per le seguenti ragioni che definirei "tecniche" (elencate seguendo la numerazione usata nel commento precedente):

1) Noi dei dati li diamo, molti altri hanno dato altri dati sul fenomeno, tutti puntano nella stessa direzione. Il commento dice che la direzione in cui i dati puntano non lo convince perche' la conclusione non gli piace. Mi dispiace non gli piaccia, ma avrebbe lui dei dati migliori e diversi? Ci voglion dei dati nuovi per far tacere i dati vecchi. Poi tira fuori un problema di non omogeneita' nel sistema raccolta dati e condizioni paesi che potrebbe distorcere i dati che noi ed altri abbiamo a disposizione: giusto, ma potrebbe distorcere in entrambe le direzioni, ovvero i sognatori del posto di usciere/postino in Italia potrebbero essere ancor piu' di quanto le statistiche rivelino! L'argomento non lo vedo, mentre vedo l'affermazione ideologica: non mi piacciono le conclusioni. Mi dispiace.

2) Sembra che il commentatore non abbia letto il testo del post. Parliamo di giovani e donne ed insistiamo su di essi. L'evidenza empirica e' univoca, la teoria pure. Gli argomenti che "butta li'" sono proprio "buttati li'", ovvero non hanno consistenza ne' logico-teorica ne' empirica. Valgono tanto quanto il seguente: i giovani e le donne in Italia hanno un tasso di occupazione piu' basso perche' i gelati italiani sono migliori che negli altri paesi, poiche' a giovani e donne i gelati piacciono molto preferiscono passare il tempo a mangiare gelati che a lavorare. Oppure che le mamme italiane sono piu' mammone (e non lasciano che i giovani escano da casa e vadano a lavorare) ed i maschi piu' machisti (idem per le donne). Aria fresca. Ripeto, ci vuole un modello e dei DATI per battere un modello e dei dati, altrimenti siamo alle solite proteste ideologiche: non mi piace la conclusione.

3) C'e' una letteratura gigantesca sull'argomento, non mi sembra domanda da farsi visto che l'anonimo scrivente da' l'impressione di essere uno che all'economia dedica piu' di una passeggera attenzione. Mai sentito di tenure professors che, avendo smesso di darsi da fare e di far ricerca, hanno ora lo stesso stipendio nominale di 5 anni fa? Quelli con lo stesso stipendio di 10 anni fa son pochi, infatti: cambiano lavoro prima. Esempi? A iosa, come on! Ma, di nuovo, il commentatore non si rende conto della natura illogica del suo argomento. Non potendo negare l'ovvio fatto che ovunque vi sia il rischio di essere licenziato la gente lavora duro ed investe in capitale umano - perche' non lo puo' negare e (by the way) l'esempio del tenure track e' quello quantitativamente meno rilevante fra quelli elencati nel post - fa la domanda retorico-controfattuale. Ossia, perche' non ce n'e' ancor piu' di flessibilita'? Perche' non ce n'e' ancora di piu' possiamo discutere, ma intanto: perche' non cominciamo ad introdurre in Italia la stessa flessibilita' che c'e' all'estero e poi discutiamo se aumentarla? In ogni caso, l'aspetto che conta del nostro argomento e' mostrare che la teoria di Andrea Ichino (ossia: rischio di licenziamento => basso investimento in capitale umano specifico) e' empiricamente, oltre che teoricamente, falsificata.

4) Domande interessanti, alcune hanno risposte ovvie e ben note (appena ho un attimo le elenco con bibliografia). Comunque, interessanti. Sarebbe carino che l'anonimo commentatore facesse anche lo sforzo di produrre alcune risposte, no? In ogni caso, in che senso quelle domande - e le mille altre possibili, per esempio: quanto dura un contenzioso fiscale negli USA? Ed in Italia? Io la risposta a queste domande la so, ma non ve la dico ... - eliminano o contraddicono la cogenza del nostro argomento? In Arizona, dove mi trovo, c'e' il sole, vero. Ma questo non elimina l'opportunita' d'uscire con l'ombrello a Londra verso la fine di novembre...

5) Lo stesso di prima. Dov'e' l'evidenza che sorregge la contro affermazione? Ripeto la nostra affermazione: collective bargaining non migliora per niente il bargaining power degli unskilled a livello aggregato. Il commentatore dice di no (e cita Wall Mart che non c'entra nulla, classica incomprensione degli effetti di equilibrio economico generale). Va bene, allora dev'esserci un argomento logico e dei dati empirici coerenti con esso che mostrano che la gente con low skills viene beneficiata, a livello aggregato e dopo gli aggiustamenti di equilibrio generale del caso, dalla contrattazione collettiva nazionale. Se ci sono, qualcuno li tiri fuori per favore. Attenzione, occorre mostrare che crescono sia il livello di reddito che il livello di occupazione di tutti i lavoratori poco qualificati, non dei fortunati che sono gia' "dentro" quando c'e' il colpo di mano contrattuale, e prima che si chiudano a serramanico i cancelli e le porte dell'occupazione "buona" per quelli che son fuori.

In sostanza, per discutere occorre

- mostrare che l'argomento logico dell'altro e' erroneo;

- portare dati che lo contraddicono, o pongono in dubbio i suoi, o sorreggono almeno il proprio argomento.

Tutto questo qui manca. C'e' solo una logica contorta che rivela, fondamentalmente, un profondo dispiacere con le conclusioni a cui siamo arrivati ... mi dispiace.

 

 

Per chi chiede i dati, consiglierei di consultare il sito www.menostato.it, in particolare lo spreadsheet di Excel scaricabile da lì, che contiene un bel po' di cifre e grafici sull'occupazione con tutte le fonti. In particolare, l'Italia ha uno dei più alti tassi di disoccupazione per gli under-25 in Europa: 24% rispetto a una media EU del 18.5% (Regno Unito: 12.9%, Stati Uniti: 11.3%). La fonte (Eurostat) è citata in dettaglio sullo spreadsheet di menostato.it. Un'altra area in cui l'Italia "eccelle" è nel tasso di disoccupazione di lunga durata: la percentuale di persone continuamente disoccupate per almeno un anno tra tutti i disoccupati. L'Italia è di nuovo in cima con 49.2% rispetto a una media EU del 45.3% (Regno Unito: 20.6%, Stati Uniti: 12.7%).

A parte questo, vedo dall'esperienza di parenti e amici in Italia che le possibilità di lavoro sono veramente poche. Tanti giovani, anche laureati, passano il tempo in lavoretti tipo call center, mentre fanno concorso dopo concorso. Se sono fortunati, o raccomandati, dopo qualche anno ne vincono uno e prendono un posto permanente in qualche comune o ministero. Non esiste quasi per niente la possibilità di riciclarsi, di cominciare a fare qualcos'altro da quello che hai fatto finora. E' il contrario della situazione che vedo qui in Inghilterra, dove c'è sempre la possibilità di cambiare, e ancora più negli Stati Uniti.

L'unica cosa che mi lascia un po' perplesso è il discorso sul garantismo. Non so quale tipo di sussidi di disoccupazione abbiate in mente. Che cosa intendete per "assicurazione pubblica e obbligatoria contro la disoccupazione"? Citate come esempio l'Inghilterra, ma qui i sussidi ai disoccupati sono più che altro simbolici (30-50 sterline la settimana, a seconda del reddito). Di più non c'è bisogno, perché chi vuole lavorare un posto nuovo lo trova praticamente subito, almeno a Londra o nelle grandi città.

 

 

Caro Marco,

grazie mille della segnalazione, e' sempre utile diffondere dati e fatti che possano meglio informare il dibattito. Permettimi di rispondere in due parole riguardo ai sussidi di disoccupazione. Prima di tutto, qualche dato sulla durata dei periodi di disoccupazione: negli USA, la durata media di tali periodi varia grosso modo dalle 12 alle 20 settimane, a seconda del ciclo (vedi qui per ulteriori dati); in Europa, di nuovo grosso modo, tale durata media va dagli 8 ai 12 mesi! (vedi qui per qualche dato europeo).

Per quanto riguarda i sussidi alla disoccupazione, variano molto da paese a paese sia per durata che per entita' (di nuovo, vedi qui , tabella A1, per un riassunto). In Germania, ad esempio, la durata va da 6 a 12 mesi (in funzione di quanto a lungo si e' rimasti occupati); l'ammontare del sussidio varia dal 60% al 67% del reddito medio netto negli ultimi 12 mesi. Negli Stati Uniti, la durata varia da stato a stato ma di solito non supera le 26 settimane; l'ammontare e' basato su una percentuale del reddito negli ultimi 12 mesi, e varia secondo formule molto complicate (vedi qui per un algoritmo che consente di calcolare i benefici a secondo dello stato, numero di figli a carico, ecc).

I sussidi di disoccupazione presentano un ovvio trade-off: da un lato, forniscono un elemento di assicurazione quando si perde il lavoro per eventi aleatori indipendenti dalla propria volonta', e questo e' un aspetto desiderabile. D'altro canto pero' riducono gli incentivi a cercare un nuovo lavoro, visto che comunque si riceve un sussidio monetario. Sempre il paper citato sopra menziona poi un altro beneficio dei sussidi: permettendo al lavoratore di essere piu' paziente nella ricerca di un nuovo lavoro, porta a dei "matrimoni" migliori fra lavoratore e potenziali datori di lavoro, aumentando di conseguenza la durata media dei successivi periodi di occupazione.

 

1) e 5) Se capisco bene su questo

punto abbiamo converso, e se non leggo male il punto di convergenza era il nostro punto di partenza. I dati OCSE (questa era anche una delle nostre fonti)

aggiunti da De Innocentis nel commento precedente confermano, credo, quello che

al riguardo sosteniamo. Di nuovo, se altri e differenti dati mostrano una

situazione differente da quella che abbiamo illustrato noi, ben vengano. Pero'

che vengano i dati, per favore.

2) Giovani e donne. Siamo anche

qui d'accordo che li' sta un buon 50-60% della differenza italiana (non

scordiamoci che c'e' anche il Sud, in Italia, e che il tasso d'occupazione fra

i maggiori di 55 anni e' se non il piu' basso certo uno dei piu' bassi in

Europa, quindi del mondo.) Riferimenti a

caso sul tema "Occupazione di giovani/donne, flessibilita' del mercato e

fertilita'", cercando di rimanere in sud europa il piu' possibile.

La prima e' una delle tante

surveys, gli altri sono titoli che mi vengono a caso dai miei files ... direi che

e' talmente tanta la letteratura che mi sembra impossibile non la si conosca.

- Siebert, H. "Labor Market Rigidities: At the Root of

Unemployment in Europe", Journal of Economic Perspectives, 11 (1997), 37-5

- IZA DP No. 1550 "Part-Time Work in EU Countries: Labour

Market Mobility, Entry and Exit", Hielke Buddelmeyer, Gilles Mourre, Melanie

Ward. April 2005

 

- Martinez-Granado,

Maite, and Javier Ruiz-Castillo, "The Decisions of Spanish Youth: Cross-Section

Study", Journal of Population Economics, XV (2002), 305-330.

- Dolado, Felgueroso and Jimeno, "Explaining Youth Labor

Market Problems in Spain:

Crowding-Out, Institutions, or Technology Shifts?" Discussion Paper No. 142 April 2000, IZA

- Del Boca, Pasqua, Pronzato, "Why Are Fertility and Women's

Employment Rates So Low in Italy?

Lessons from France

and the U.K", mimeo, Torino- NYU

LA DEL BOCA HA

ALMENO 5 O 6 PAPERS, SOLA O CON ALTRI, SULL'ARGOMENTO. VERIFICARE LA SUA PAGINA

SU IDEAS

-

Bertola e Garibaldi, "THE STRUCTURE AND HISTORY OF ITALIAN UNEMPLOYMENT",

CESIFO w.p. 907, 2003.

- Gilles Saint-Paul, "Assessing the Political Viability of

Labour Market Reform: the Case of Employment Protection", CEPR Discussion

Paper No. 2136

- Boeri, Conde-Ruiz,

Galasso "Protecting Against Labour Market Risk: Employment Protection or

Unemployment Benefits?" IZA Discussion Papers 834, 2003

-Acemoglu & Shimer "Efficient Unemployment Insurance" Journal of Political Economy, 107(5),

pages 893-928, ED OVVIAMENTE HOPENHAYN E NICOLINI, STESSO TEMA JPE 1997, CHE E'

IL LAVORO ORIGINALE

- Boden, RJ, "Flexible working hours, family

responsibilities, and female self-employment: Gender differences etc." The American journal of economics and

sociology, 1999

- Peter Auer, Employment Revival in Europe: Labor Market

Success in Austria, Denmark, Ireland

and the Netherlands ILO,

200?

- Steve Nickell "Unemployment

and Labor Market Rigidities: Europe versus North America"

Journal of Economic Perspectives, 11 (1997)

55-74

- Mac Culloch and Di Tella, "The Consequences of Labor

Market Flexibility: Panel Evidence Based on Survey Data" mimeo, harvard 2002, credo

pubblicato nella European Economic Review

... basta, senno' non finisco piu' ...

Poi c'e' una

sequenza di domande: <Vogliamo far finta che ci sia un modello condiviso di interazione

all'interno della famiglia? Che non ci siano problemi nel capire gli effetti del mercato del

lavoro sulle scelte di fertilita'? Vogliamo dimenticare che osserviamo

altissimi tassi di partecipazione femminile sia in paesi con mercati del lavoro molto flessibili che in paesi con mercati del lavoro molto

rigidi?>> alle quali non so bene come rispondere.

Forse potresti

elaborare, o qualcun altro potrebbe farlo. Non capisco proprio, quindi faccio

domande chiarificatrici:

- Quali 30 anni

di letteratura stiamo o sto buttando via?

- In che senso i

modelli d'interazione nella famiglia implicano conclusioni differenti dalle

nostre sull'offerta di lavoro delle donne?

- Quali dei,

molti, problemi a capire la relazione fertilita'/partecipazione contraddicono

le nostre affermazioni?

- Quali sono i

paesi con mercati del lavoro piu' rigidi dell'italiano che hanno una

partecipazione femminile piu' alta?

- Insomma, dov'e'

la evidenza, if scant, che far crescere la rigidita' del mercato del lavoro

puo' anche vagamente far crescere l'occupazione femminile e giovanile?

Posso avere una

risposta documentata a qualcuna di queste domande? Altrimenti non so di cosa

stiamo parlando. Mi scuso in anticipo per la mia ignoranza della letteratura che senz'altro il commentatore conosce meglio di noi, viste le domande che pone.

3) Tenure. Avevo promesso

references, eccone alcune da cui si puo' partire, la letteratura e' enorme e

ritirare fuori tutto da files molto vecchi richiede troppo tempo.

L'argomento fondamentale viene

dalla domanda"senza tenure, chi controlla il controllore? Meglio, chi e' il

controllore?". Detto in soldoni, se in nel dipartimento di fisica teorica

nessuno ha tenure, chi assume i nuovi professori? E che incentivi avra' costui?

Diamo al dean (che ovviamente neppure ha tenure) il potere di assumere tutti,

di sua sponte? Ci vorrebbe veramente un bel dean ... o lo diamo al board of trustees?

La tradizione da cui io ho appreso questa impostazione, a mio avviso

ineludibile, del problema, lo attribuisce a Walter Oi e/o Sherwin Rosen, pero'

questa e' una tradizione verbale della vecchia Rochester, e sia Walter che

Sherwin sono stati rochesteriani (Walter tutt'ora lo e', Sherwin purtroppo no),

quindi chissa' ... La mia impressione e' che tutto venga da un pezzo scritto da

Fritz Machlup negli anni 60, che tutti citano (con titoli diversi, il piu'

frequente e' "In Defense of Academic Tenure" ...) ma io non ho mai letto perche'

e' pubblicato in un Bullettin of something. Forse via Google si trova da

qualche parte, specialmente con Google Print, se lo trovate fammi sapere che

m'incuriosisce leggerlo. FM era uno molto lucido, ed il suo report di un decennio

prima su IP e' una delle migliori cose che mai siano state scritte

sull'argomento.

Un articolo recente in cui lo

stesso argomento viene ripetuto per l'ennesima volta e' il seguente, anche se

l'abilita' dell'autore di modellare la cosa mi sembra lasci a desiderare.

Willam O. Brown, "University Governance and Academic Tenure:

A Property Rights Explanation," Journal

of Institutional and Theoretical Economics, 153 (1997),

Altre "teorizzazioni"

Aloysius Siow, "Specialization, Obsolescence

and Asymmetric Info in Academia" Univ of Toronto

W.P. No. UT-ECIPA-SIOW-95-02

Ian Novos and Michael Waldman "Returns to Tenure: Conceptual

and Empirical Issues," Eastern Economic

Journal, 23, Summer 1997. (MOLTE

DELLE COSE CHEWALDMAN HA SCRITTO IN QUEGLI ANNI HANNO A CHE FARE CON TENURE. PER ES IL PIECE IN QJE 1999)

Una survey, biased ma survey, del

dibattito piu' recente si trova a http://www.hup.harvard.edu/pdf/CHAQUE_excerpt.pdf

Un'altra survey, piu' orientata al lavoro

degli economisti, la trovate qui agecon.unl.edu/royer/tenure.htm

Enough, direi ... c'e' da leggere

per un paio di giorni. Argomenti seri che provino che un tenure contract e' un

contratto inefficiente (sotto ipotesi almeno ragionevoli) io non ne conosco

proprio, ne' so immaginarli, ma forse qualcuno piu' lucido/informato di me li

conosce o li puo' produrre.

4) Sulle molte domande che nel punto precedente, e qui (allo stesso numero, commento precedente) vengono poste: hai qualche risposta che contraddica le nostre/mie

affermazioni? Nelle circostanze in cui siamo vale proprio la regola che "it

takes a model and some data to beat a model and some data". Cerco di spiegarmi di nuovo, perche' sembra non ci

si intenda sulla metodologia.

Noi abbiamo fatto una proposta di

politica economica, prendendoci un rischio. Mantenere lo status quo, sia

chiaro, e' una proposta di politica economica alternativa alla nostra. Se

qualcuno ne ha in mente una terza, ben venga. La ricerca scientifica seria

raramente e' utilizzabile direttamente per fare proposte positive di politica

economica, di questo sono ben consapevole. La maniera migliore di usare la

ricerca scientifica e' per dire "questo di certo non funziona". Niente di male,

io lo faccio sempre e quando ho giocato a fare l'advisor ne ho spesso abusato.

A chi fa ricerca piace porre dubbi, criticare, avanzare il sospetto che la

soluzione suggerita sia migliorabile. Va benissimo.

Ma, ed e' un "ma" importante,

nelle circostanze presenti e data la situazione italiana, ci sembra chiaro che

le politiche attuali non funzionino. Lo dicono i fatti e lo dicono le

teorie. Quindi, punto uno, noi

affermiamo che tutta la ricerca economica di cui siamo a conoscenza dice

(A)

"Non fate le politiche del lavoro che sono

state fatte e si fanno in Italia dall'inizio anni 70 ad ora."

Magari ci sbagliamo, quindi

chiedo: esiste ricerca seria che neghi la nostra affermazione, ossia che

dimostri che lo status quo italiano fa bene a occupazione e produttivita' del

lavoro? Se c'e', che venga. Se non c'e', ciccia, e capitolo chiuso.

Capitolo chiuso vuol dire:

l'attuale organizzazione e legislazione del mercato del lavoro italiano fa male

a occupazione e produttivita'. Alla quale segue la domanda veramente difficile:

fra le politiche TEORICAMENTE possibili (diciamo chiaramente che del vincolo di

fattibilita' politico-sindacale per il momento ce ne freghiamo nel modo piu'

assoluto) quale politica sembra la piu' foriera dei risultati desiderati. Qui

ovviamente il rischio e' piu' grande perche' invece di dire cosa non fare

diciamo cosa fare, e probabilmente da qualche parte sbagliamo di sicuro. La

domanda quindi e':

(B)

"Fra le cose che suggeriamo, quale sembra

decisamente sbagliata, alla luce della ricerca economica?"

Questa

mi sembra una domanda legittima, alla quale non capisco in quale senso le altre

domande fatte nel commento aiutino a rispondere. Ora, quali dati/modelli

suffragano le ripetute affermazioni secondo cui le nostre conclusioni sono

dubbie? Tutte o quasi le domande poste suggeriscono - direttamente ed

indirettamente: prego rileggere commento - che le nostre conclusioni sono per

lo meno dubbie e per nulla solide o accettabili/condivisibili. Insisto, per

mettere in dubbio la validita' di un'affermazione occore presentare almeno un

argomento logico o dei dati che ne mettano in dubbio, appunto, o la coerenza o

la consistenza con i fatti. Io sono incline a diventar dubbioso, ma il seme del

dubbio uno me lo debe pur piantare con almeno QUALCHE esempio o modello. Non

chiedo molto, suvvia!

A questa seconda domanda, che

credo il commento dovrebbe rispondere per far proseguire la discussione, ne

segue, o se ne accompagna, una terza:

(C) "Quali altre politiche avremmo potuto suggerire, assieme o in

alternativa a quelle gia' suggerite, che alla luce di quanto sappiamo

potrebbero meglio permettere il raggiungimento degli obiettivi desiderati?"

Anche per questa domanda, in che

senso le domande poste mi aiutano a trovare una risposta? Vorrei capirlo. In

soldoni:

se cio' che non diciamo e' dubbio

x%, cosa giustifica questo x% e cos'e' che e' dubbio y%, con y

=================================================

Nota sullo stile del dibattito.

Non avevo notato le battute sulla "paranoia" nei due commenti della persona che si firma "pau flaccido" e che non risulta corrispondere a nulla ed a nessuno di rintracciabile. Non avevo nemmeno notato che, sempre secondo la stessa persona, facciamo "intenerire" ed altre allusioni piu' o meno ironiche, tipiche di chi "knows better" e ti guarda con suprema condiscendenza ... faccio finta di non averli notati anche questa volta. Ora capisco meglio il tono delle domande e perche' mi si chiedono riferimenti bibliografici su un tema, flessibilita' ed occupazione, su cui la letteratura e' talmente sterminata che ci sbatti addosso anche senza volerlo. Va bene, facciamo finta che la letteratura non era nota e, comunque, qualche altro lettore forse la trovera' utile.

Pero' mi permetto una nota sullo stile del dibattito che ritengo appropriato fra persone che hanno argomenti solidi da proporre: lasciamo stare le battute facili e, le altrettanto facili ironie. Se abbiamo qualcosa da dire di serio ed argomentato, diciamolo, mettiamo i modelli e mettiamo i dati. Le facili battute e le domande retoriche senza risposta son cose che usano quelli che non sanno cosa dire.

E firmiamoci, che io mi firmo. La regola del put your money where your mouth is vale soprattutto in questioni di scienza dove, come a poker, the hand speaks by itself.

 

 

 

Provo a fare l'avvocato del diavolo (che, come dice sempre mio padre, puo' essere utile), e a rispondere ad una delle domande aperte da michele nel commento precedente.


Michele chiede "Quali sono i

paesi con mercati del lavoro piu' rigidi dell'italiano che hanno una

partecipazione femminile piu' alta?"

Questo rapporto contiene alcuni dati (anche se non recentissimi) su partecipazione femminile al mercato del lavoro. Si vedano, in particolare, le figure 1 e 2. Balza subito all'occhio che fra i paesi con partecipazione femminile piu' alta ci sono quelli scandinavi, che (credo) abbiano tutti un mercato del lavoro almeno altrettanto rigido di quello italiano. (si noti anche, pero', che Spagna e Irlanda pur partendo entrambi da livelli piu' bassi dell'Italia nel 1981, dopo 20 anni avevano bellamente superato il bel paese stesso. A occhio e croce mi sembra che Spagna, Irlanda e Olanda siano i paesi che hanno registrato gli incrementi maggiori nel periodo 1981-2001).

Ok, torniamo ai paesi scandinavi. Mi chiedo come si spieghi la loro anomalia. E' solo cultura? Sono io che conosco male i fatti dei paesi scandinavi? Ci sono delle differenze importanti fra le rigidita' del mercato del lavoro scandinavo e quelle del mercato del lavoro italiano? Mia moglie mi suggerisce che questi paesi hanno anch'essi effettuato delle (magari timide) riforme in senso liberistico negli ultimi anni. Qualcuno ne sa di piu'?

 

Caro editor:

mi scuso: ho appeno posto una reply alla sua reply di qualche giorno fa e l'ho posta senza aver prima letto questo suo intervento che ho notato contiene risposte dettagliate ad alcune mie domande. Mi prendo il tempo di leggerlo.

Non rinuncio ad un appunto: l'anonimato tradizionalmente non danneggia il dialogo scientifico, non si fa cosi' nei referaggi? 

 

Ho apprezzato l'articolo e, non essendo economista, ci rifletterò a lungo (pur avendo compreso (quasi) tutto e pur condividendo le conclusioni). Anche perchè di "questo" mercato del lavoro faccio parte, nel bene e, soprattutto, nel male.

Volevo però intervenire sulla "

Nota sullo stile del dibattito" e dare una simpatica tiratina d'orecchi a Michele:

- ma come "non avevo notato"??? erano ben visibili! Male che tu non abbia notato subito le ironie e le battutine di "pau flaccido" fin dal primo intervento... son sicuro che sei abituato a leggere bene e rapidamente con  buone tecniche di lettura che permettano di dare valore solo ai contenuti che ne hanno veramente... però anche alcune sfumature possono essere importanti...

- il secondo a fare ironia e a guardare dall'alto sei stato forse proprio tu, nella tua prima risposta a "pau flaccido"; tanto che io ti giustificavo pensando restituissi pan per focaccia, anche se mi sembravi addirittura troppo acido e risentito con quel "mi dispiace" ripetuto non a caso... e invece adesso mi dici che non avevi notato ironie e battutine... allora teoricamente sei stato tu il primo a fare l'ironico

 

- Mi sembra poi che il secondo intervento di "pau flaccido" ti abbia soddisfatto di più, tanto da farti rispondere in maniera opportuna... in effetti anche a me pareva che non fosse per forza obbligatorio fornire dei dati per aprire un dibattito su dei punti dubbi (o presunti tali)... anch'io avendo dubbi e non avendo il benchè minimo dato a disposizione affronterei un dibattito esponendoli e/o, se vogliamo provocando; saranno poi gli altri a smontarmi e a fornirmi i dati mancanti... insomma non vedevo nulla di male anche se le battutine c'erano e mi sembra che  alla fine di tutto, il tuo primo intervento fosse un po' sprecato, rispetto ai seguenti...

Infine una nota a molti tra voi: colgo l'inglese e pure l'americano e certe volte è d'obbligo usare certe forme linguistiche ma, SE POSSIBILE visto che scrivete in italiano... scrivete in italiano. Gli stessi proverbi o modi di dire esistono anche nella nostra lingua e forse più carini e spesso non c'è nessuna convenienza, nemmeno quella di risparmio d'inchiostro...  "knows better",  put your money..., the hand speaks...  Il primo intervento di stockli è quello che mi ha fatto più pensare all'idioma: già c'erano i termini "tecnici" di tenure, tenure professors,  supremi court, at will, market value (che tradotto non farebbe però brutta figura); se ci aggiungiamo Nonetheless, do you remember, paper, paper, partial equilibrium...

Il tutto con leggerezza, solo pensando a qualcuno che l'inglese non lo sa (sigh, ce ne sono!) e vorrebbero capirci qualcosa in un sito molto interessante come questo. 

 

Nell'articolo non ho notato riferimenti ad alcuni fenomeni che invece a me sembrano evidenti (almeno stando qui in Italia a lavorare cercando nel frattempo altri impieghi). Mi riferisco al sorgere come funghi di "negozi" (più che agenzie) di lavoro temporaneo, lavoro interinale e simili. Ce ne sono un'infinità: è un tentativo maldestro di andare nella direzione da voi indicata, creando un "ricircolo" di impieghi e una varietà di soluzioni collaborative? O è semplicemente uno dei tanti modi di creare posti di non-lavoro? Anche perchè la maggior parte degli posti di lavoro in circolazione sono proprio per essere impiegati nelle agenzie stesse a fare selezione di personale o ad aprire nuovi sedi d'agenzia: chi cerca lavoro ci ritrova a fare il selezionatore o a cercare lavoro per altri... che, se ne trova uno, forse se lo tiene.

Quanto a categorie e sindacati, la mia drammatica esperienza (centinaia di persone in contratto di solidarietà, 6 mesi senza stipendi, azienda in amministrazione straordinaria, continue proroghe sulla presunta nostra acquisizione da parte di qualche altra azienda...) non può che confermare tristemente la loro utilità e la (meglio "il") loro fine.

 

Le agenzie di lavoro "interinale" come credo le chiamino evidentemente nascono perche' c'e' domanda, no? Altrimenti come sopravviverebbero se non ci fossero imprese che usano i loro servizi e che pagano per essi? Insomma, dubito che siano una specie di machinetta che si autoalimenta a meno, beh a meno che qualche leggina o qualche codicillo della Biagi o della Treu non abbia creato finanziamenti e sussidi per questo tipo di imprese, nel qual caso il loro eccessivo ed inutile moltiplicarsi si spiegherebbe con l'ennesima prebenda. Ma non sono a conoscenza di tale sussidio.

Il secondo paragrafo e' troppo "ermetico", quindi non capisco cosa vuoi dire ...

 

 

Ho l'impressione che, forse perche' predicavamo ai convertiti, il nostro pezzo collettivo sul mercato del lavoro abbia sollevato meno dibattito e polemiche di quante ci aspettavamo. Bene, male? Male, credo, in quanto e' probabile che questo sia dovuto al fatto che la maggioranza di chi ci legge queste cose le aveva gia' capite.

Il che conferma che ci legge una sparuta minoranza ... beh, PARLATENE AD AMICI E COLLEGHI CHE NON CONDIVIDONO!

Ad ogni buon conto, ecco un altro e ben fatto lavoro empirico che conferma, con dati e metodi nuovi, il punto su cui insistiamo e CHE entra anche nel dettaglio di come i mercati del lavoro rigidi facciano male ai lavoratori. [Micco&Pages]

 

 

Non credo proprio di poter essere io a far diventare grande questo dibattito. Dici "male perchè la maggioranza aveva già capito queste cose"... è un male questo? Forse solo perchè temi che a leggere queste pagine siano i soliti che già le condividono; per il resto altrimenti credo sia un bene, anche se non penso che basti capirle e condividerle per cambiare le cose... c'è un modo per fare arrivare questi vostri "studi" a "chi" può far qualcosa (ammesso che voglia far qualcosa)?

Io, credo, non le avevo già capite, ma leggendo mi sono sembrate abbastanza chiare (quasi ovvie?), come se in fondo sospettassi già che fosse così. Inoltre mi è venuto quello spunto di curiosità sulle agenzie di lavoro temporaneo o interinale... ammessa la loro validità, non possono essere un primo passo per la flessibilità del mercato del lavoro? Ma vorrei saperne di più sul perchè ce ne siano così tante... non credo alla semplice "domanda-offerta"... del resto è pur sempre un intermediario tra datore di lavoro e lavoratore e non credo che questo sia sempre utile e/o conveniente.