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1. Introduzione'</h' . (('2') + 1) . '>'
Il mercato del lavoro in Italia funziona male, anzi malissimo. I
lavoratori e le imprese (ma soprattutto i lavoratori) ne pagano enormi
consequenze. È assolutamente necessaria una riforma liberale e garantista del mercato del lavoro italiano.
Liberale, proprio nel senso di quella brutta
parola che tutti temono: lasciare che la creazione, l'estinzione e
l'evoluzione dei rapporti di lavoro sia affidata a contratti privati
stipulati volontariamente fra le parti. Lo stato deve limitarsi
a proibire contratti che vadano chiaramente contro l'interesse pubblico
e contro la dignità della persona, ossia schiavismo, contrattazione di
minori o incapaci d'intendere e volere, contratti coercitivi o
fraudolenti di vario tipo.
Garantista, perché lo stato deve garantire i
lavoratori fornendo loro (i) un'assicurazione pubblica e obbligatoria
contro la disoccupazione, di durata limitata e probabilmente non superiore ai 12 mesi, con
stretti criteri obiettivi di verifica della condizione di disoccupato
sul modello di quelli adottati da Spagna, Olanda o Inghilterra; (ii) un
reddito minimo adeguato a persone perennemente disabili o incapaci, per
cause esterne alla loro volontà, di sostenere economicamente se stesse.
Queste sono, dette in poche e semplici parole, le riforme del mercato del lavoro che auspichiamo. Sono riforme rivoluzionarie e favorevoli ai lavoratori; sono riformeche
questo governo, o qualsiasi altro governo, dovrebbe fare, e al più
presto. Infatti, per far presto, basterebbe fare così: copiare la
legislazione lavorativa dell'Irlanda, o dell'Inghilterra, o dell'Olanda
se proprio non si riesce a sopportare l'uso della lingua inglese. A
quelli che, a questo punto, già si chiedono: "perche' non suggerite di
copiare la legislazione spagnola? La Spagna è latina e va bene!" (ci
sono, ci sono, siamo facili profeti: ecco qui)
rispondiamo brevemente: è vero, la legislazione spagnola, è comunque
meglio di quella italiana; ma visto che abbiamo bisogno di fare una
rivoluzione, facciamola e mostriamo al mondo cosa il genio italico
riesce a fare ancora, se vuole.
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Premessa metodologica
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Nel seguito il lettore troverà argomenti economici con contorno di
dati statistici. Prima di entrare nel dettaglio delle argomentazioni
- che speriamo cogenti anche se non spassose - vorremmo esporre due
avvertenze, sia metodologiche che di finalità.
1) Il problema che ci poniamo è il seguente:
date
le circostanze concrete della società e dell'economia italiana
nell'anno 2006, quali politiche del mercato del lavoro sono
raccomandabili e quali non lo sono, al fine di aumentare l'occupazione,
la produttività media, e il reddito dei lavoratori italiani?
In altre parole, ci poniamo il problema del mercato del lavoro in Italia e delle possibili riforme, in termini pragmatici. Che
i mercati funzionano bene in teoria lo sappiamo tutti! Qui argomentiamo
che un mercato del lavoro con molti (ma molti) meno lacci e lacciuoli e
con un sistema di protezione e garanzia appropriato funzionerebbe bene
e favorirebbe i lavoratori in Italia, oggi; non solo
sui libri di testo. Ci poniamo il problema del mercato del lavoro in
Italia da economisti, e non da politici. Quest'ultima sottolineatura è
rilevante, in quanto ci permette di non incorporare i vincoli politici
nella nostra analisi. È ovvio che il compromesso è necessario per fare
qualcosa in pratica; ma se il compromesso è necessario in politica
(anche in quella "alta", nell'interesse del paese) non ha invece senso
nella logica e nelle argomentazioni economiche. Anzi, fa danno perché
oscura i costi ed i benefici di certe politiche piuttosto che altre.
Diciamo questo perché non abbiamo dubbio che qualche sepolcro
imbiancato argomenterà che siamo "irragionevoli" o "estremisti" o
"poco equilibrati". Non è così. È che non ci sembra il caso di stare a
fare i conti su dove un punto di convergenza possa essere
trovato fra le mille lobbies italiane coinvolte in questo dibattito. Anche perché le lobbies coinvolte
son troppe, e anche lì sta la follia dell'impostare il problema in
termini di "ragionevole compromesso": i ragionevoli compromessi sono,
molto spesso, irragionevoli pastrocchi che implicano decine di
clausole, eccezioni, distorsioni e controdistorsioni, le quali fanno
più danno a quasi tutte le parti coinvolte di quanto non lo farebbe una
riforma drastica e unilaterale. Invece, purtroppo, il dibattito
italiano è impostato a trovare un punto di "mezzo" fra industriali
grandi e piccoli, commercianti, artigiani, lavoratori dipendenti del
privato, "garantiti" o "precari", dipendenti pubblici strapagati (ossia
ministeriali dei piani alti), dipendenti pubblici sottopagati (ossia,
ad esempio, insegnanti della scuola primaria e secondaria), immigrati,
giovani laureati, anziani che vorrebbero pensionarsi al più
presto, sottosegretari verdi che vogliono la decrescita e ministri che
vogliono la crescita, politici meridionali che vogliono i sussidi per
chi crea occupazione al sud, e politici del nord che non vogliono
continuare a pagare le tasse che finanziano i sussidi, e cosi' via.
2) Come detto, ci chiediamo da economisti
come strutturare il mercato del lavoro al fine di aumentare
l'occupazione, la produttività del lavoro, ed il reddito dei
lavoratori. Non ci chiediamo, invece, quali altre riforme,
dei mercati dei prodotti, del settore creditizio, della legislazione
fiscale, di quella pensionistica, del diritto commerciale, del diritto
di immigrazione, del sistema scolastico e della ricerca, dei servizi
pubblici, della proprietà pubblica di attività produttive, eccetera,
eccetera, potrebbero o non potrebbero sortire effetti desiderabili e
costituire un ragionevole accompagnamento a una riforma del mercato del
lavoro. Questa è una seria limitazione perché, per esempio, siamo
convinti che una forte liberalizzazione del settore dei servizi
pubblici, il completamento del processo di privatizzazione, un drastico
taglio di trasferimenti e spese per il personale pubblico, congiunti ad
un egualmente drastico taglio di imposte sul reddito da lavoro e dei
contributi sociali, avrebbero un grande effetto positivo
sull'occupazione, la produttività e il reddito del cittadino italiano
medio. Così come l'avrebbero una semplice regolamentazione liberale
della corporate governance dell'impresa,
e una rigorosa politica per la concorrenza che combatta le rendite
monopolistiche delle imprese, specie quelle grandi, che da sempre in
Italia "contribuiscono" in maniera determinante alla formazione delle
politiche dei sussidi, delle tariffe, e cosi' via. Ma, visto che tutti
parlano di precarietà, parliamo di precarietà e mercato del lavoro
anche noi. Il resto, un'altra volta.
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Riassunto
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Il mercato del
lavoro in Italia è caratterizzato, dalla seconda metà degli anni
Sessanta almeno, da contrattazione centralizzata e notevoli rigidità
introdotte per legislazione, ad esempio attraverso la legge sul
licenziamento per giusta causa,
e lo Statuto dei Lavoratori. Ci chiederemo dove ci hanno portato queste
politiche. Ci chiederemo inoltre se la legislazione del mercato del
lavoro in Italia che si è così venuta costruendo, garantisce e protegge
i lavoratori meglio di quanto non avvenga in paesi che hanno scelto
invece, negli anni 80 e 90, la via della liberalizzazione, come il
Regno Unito e l'Irlanda. Argomenteremo che il mercato del lavoro (ed il
sistema fiscale e del welfare) in Italia impedisce (impediscono) la
crescita, che i principali danneggiati sono i lavoratori, specie i
lavoratori più deboli, come i giovani e le donne. Argomenteremo che la
strada da seguire è proprio quella del Regno Unito.
Ma perché,
allora, tutti in Italia appaiono d'accordo a richiedere politiche di
maggiore rigidità e protezione? Perché così tanti sognano il posto alle
Poste o in comune, come Francesco Giavazzi, voce sempre più solitaria,
sottolineava con sorpresa e timore recentemente sul Corriere? Discuteremo
le argomentazioni a questo proposito di sindacalisti, giuslavoristi, ed
economisti. Argomenteremo che sono empiricamente irrilevanti e talvolta
anche logicamente errate. Cercheremo di capire, comunque, perché
nessuno si fida del mercato in Italia (anche quelli che non hanno
rendite sindacali da difendere). E concluderemo quanto segue
No alla
contrattazione nazionale, no alla definizione legislativa della
tipologia dei contratti, si a un mercato del lavoro liberale supportato
da forme di assicurazione fatte come il buon senso e la logica
economica comandano.
2. Le leggi Biagi e Treu, ed i loro effetti
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2. Le leggi Biagi e Treu, ed i loro effetti
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Secondo il sito del Ministero del Welfare, gli obiettivi della
Legge Biagi (non dissimili da quelli del pacchetto Treu) erano i
seguenti
- creare nuovi posti di lavoro e in particolare occupare più giovani nel Mezzogiorno, e più donne e più anziani nell'intero Paese
- creare un mercato del lavoro trasparente nel quale viene tempestivamente considerata la condizione di ogni persona in età di lavoro
- facilitare l'incontro tra chi cerca lavoro e chi cerca lavoratori
- disegnare una rete di servizi pubblici e privati
- promuovere un lavoro regolare e non precario e fornire tutele effettive
- superare le rigidità che hanno prodotto nel passato tanti lavori "in nero" o insicuri
- contrastare l'aumento abnorme delle collaborazioni coordinate e continuative
- favorire il reciproco adattamento fra le esigenze dei lavoratori e quelle delle imprese, con particolare riguardo all'orario di la voro.
Cosa si è ottenuto? Poco o nulla, naturalmente. Perché? In due
parole: perché nessuno di questi obiettivi si raggiunge a colpi di
leggi, regolamentazioni e decreti. Il lavoro stabile, produttivo, e
soddisfacente, non si crea per legge, esso c'è quando c'è domanda di
tale lavoro. Quindi, occorre chiedersi cosa può aiutare la creazione di tale domanda di lavoro. Ma procediamo per ordine.
La legge Biagi, ed il Pacchetto Treu prima di essa, hanno
introdotto un po' di flessibilità nel mercato del lavoro ma lo hanno
fatto poco, per poco tempo, e soprattutto molto male. Che la
flessibilità introdotta sia stata molto poca è ovvio nei dati aggregati
sulle tipologie contrattuali. I contratti a tempi determinato (a
termine) sono non più del 10% in Italia e sostanzialmente meno di
quanto si osservi in altri paesi europei, anche della Francia e della
Germania, che hanno mercati del lavoro non certo noti per la loro
flessibilità.
Italia | Spagna | Olanda | Francia | Germania |
10 | 30 | 15 | 13 | 12.5 |
% Occupazione con contratti a termine, 2004 (dati Confindustria) |
Dati piu' disaggregati, da cui si possano valutare i flussi tra
varie tipologie contrattuali (ad esempio da contratti a tempo
determinato a contratti a tempo indeterminato) utili allo studio degli
effetti della Legge Biagi sono pochissimi, essenzialmente ottenuti da
una indagine della Confindustria
condotta presso le imprese ad essa associate. All'indagine, riferita al
2004, hanno partecipato oltre duemila imprese con circa 560mila
lavoratori alle dipendenze. Da questa indagine si ricavano alcune
conclusioni fondamentali:
- La maggior parte della nuova occupazione dal 2001 al 2004 (dati nazionali Istat) è avvenuta con contratti a tempo indeterminato (vedi figura 1.2 dell'indagine Confindustria),
- Più del 50% delle assunzioni a tempo indeterminato nel corso del 2004 sono conversioni da contratti a termine precedenti (nel campione Confindustria),
- Il 45% circa dei contratti a termine in scadenza nel 2004 (esclusi i contratti di apprendistato) sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato,
- La disoccupazione giovanile è andata diminuendo in maniera sostanziale (di circa sette punti percentuali, dalla fine degli anni 90 ad oggi) e il tasso di disoccupazione nazionale e' del 7,7%, con la Lombardia e gran parte del Nord attorno al 4% e la Sicilia, all'estremo opposto, a quasi il 17%.
- Il tasso di occupazione, che è il vero dato importante perche' riflette la partecipazione alla forza lavoro, rimane bassissimo: 57,5%.
- I salari d'entrata sono molto bassi. Lo stesso vale per una gran parte dei salari dei lavoratori dipendenti che, come abbiamo appreso dal dibattito sulla parte fiscale della finanziaria, sono per il 90% inferiori ai 40-45mila euro annui lordi.
Prima domanda: quanto di
questo si "deve" all'accoppiata Biagi-Treu? Ovvero, come sarebbe stata
la situazione in assenza di tali leggi? È difficile rispondere a queste
domande contro-fattuali, ma proviamo ad usare il buon senso.
Probabilmente l'occupazione sarebbe stata minore: non vi sarebbero
stati i contratti a termine, quindi di quel 10% di occupati che sono a
termine solo una frazione avrebbe trovato posto di lavoro a tempo
indeterminato. Probabilmente il numero di nuovi occupati a tempo
indeterminato sarebbe stato risibile, perchè i costi ridotti e la
flessibilità che il 10% a tempo determinato ha "regalato" al sistema
hanno permesso di mantenere occupati anche un certo numero di
indeterminati che invece, per il loro costo, non si sarebbero mantenuti
altrimenti. Ma stiamo speculando. Sarebbe cresciuta maggiormente
l'occupazione totale? Chiaramente no! Sarebbero cresciuti maggiormente
i salari? Ancor più chiaramente, no! Sarebbe aumentata l'occupazione
giovanile? Nemmeno. Insomma, né la Biagi né la Treu hanno avuto grossi
effetti positivi, e certamente non ne hanno avuti di negativi. Il loro
limite vero è che erano due cerottini consunti che volevano coprire una
piaga purulenta, che invece occorre tagliare e poi disinfettare a fondo.
Perché, dunque, si è proceduto con i cerottini? Ci sia permessa una spiegazione di parte (la nostra parte). Biagi
era un giurista e, che noi si sappia, nessun economista degno di questo
titolo ha partecipato alla stesura della legge. Lo stesso vale per Treu
e, più in generale, per i decision makers
sindacali, politici e persino imprenditoriali che hanno partecipato
all'elaborazione della legislazione italiana del lavoro dall'inizio
degli anni 70 ad oggi. I giuristi scrivono e discutono leggi, ma non
hanno gli strumenti metodologici per capire il funzionamento di un
mercato: lo sommergono di tipologie contrattuali definite sulla base di
criteri astratti, deduttivi. Tale tipologie, a loro avviso, vanno
imposte e regolate per legge, con opzione di ricorso alla magistratura
quando sorgano conflitti. A nessuno viene in mente di lasciare alle
parti il decidere le modalità contrattuali; a nessuno viene in mente
che i conflitti economici si risolvono efficientemente a base di
"transferable utility", ossia di trasferimenti in denaro e fringe benefits. A
nessuno viene in mente che la fantasia degli agenti economici e la
varietà delle situazioni lavorative son tali e tante che tentarne una
classificazione deduttiva, sulla base di principi decisi a priori, è
folle oltre che controproducente; a nessuno viene in mente, infine, che
contratti che per legge devono durare giusto 3 anni sono assurdi: e se
le due parti preferiscono 2 anni e 9 mesi, o 3 anni ed un giorno?
Siamo chiari: il problema non si risolve cambiando il titolo di studio dei
consulenti! Può servire avere economisti oltre che (invece di)
giuristi, ma ovviamente i problemi del mercato del lavoro si risolvono
solo cambiando politica, ossia cambiando il punto di vista dei decision makers, ossia cambiando i soggetti sociali i cui interessi la legislazione tende a proteggere.
Quali
sono i soggetti sociali che bisognerebbe difendere/proteggere? I
lavoratori, sia quelli che già lavorano sia quelli che vorrebbero
lavorare (è importante questo, anche quelli che vorrebbero lavorare). Come
si raggiunge questo obiettivo? Facendo da un lato leggi che favoriscano
la domanda di lavoro stabile e qualificato e dall'altro leggi che
favoriscano la creazione-offerta di tale lavoro. In sintesi: creando
condizioni che permettano agli agenti economici privati di creare tale
domanda ed offerta. Come si ottiene questo? Guardiamo a due esempi
vicini a casa, e cerchiamo di imparare.http://index.php/articoli/387?page=3
3. Gli effetti della flessibilità nel mercato del lavoro: il Regno Unito e l'Irlanda
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3. Gli effetti della flessibilità del mercato del lavoro: il Regno Unito e l'Irlanda
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Il miracolo economico italiano,
come tutti i miracoli economici, ebbe luogo perché un grande numero di
posti di lavoro divennero precari e cessarono di esistere mentre nuovi
posti di lavoro, produttivi, si crearono e divennero stabili. Nella
grande maggioranza il miracolo economico venne fatto da contadini e
piccoli coltivatori espulsi, o volontariamente in fuga, dalle campagne,
da artigiani e piccoli commercianti che fecero lo stesso, da operai che
lavoravano in aziende poco produttive e che se andarono in aziende più
produttive. Alcuni vennero licenziati, altri si dimisero e cercarono
posti di lavoro migliori. La disponibilità di questa manodopera,
flessibile e con la volontà di muoversi da un luogo all'altro per un
salario più alto e migliori prospettive per il futuro, fu un elemento
essenziale di quei due decenni di grande progresso economico. Se non ci
fosse stata la flessibilità del lavoro negli anni 50 e 60, non ci
sarebbe stato il miracolo economico, e il reddito medio degli italiani
sarebbe come quello dei portoghesi, o degli argentini. Non ci vuole
molto a rendersi conto che quanto diciamo è assolutamente ovvio: per
progredire occorre essere disposti a correre il rischio di dover
cambiare lavoro, a volte volontariamente e a volte involontariamente.
Chi ha 60 anni o più di età questo lo sa per esperienza diretta; i piu'
giovani, dai 40 in giù, provino a chiedere a padri e nonni.
Ma vediamo invece dove ci ha portato la rigidità del mercato del lavoro
e la contrattazione nazionale dalla fine anni '60 ad oggi, a miracolo economicoavvenuto.
La teoria economica ci dice che la rigidità del mercato del lavoro ha
effetti negativi sull'occupazione giovanile. Perché assumere è un
rischio, per l'impresa, e assumere un giovane senza esperienza è un
rischio maggiore. A questo proposito, confrontiamo il mercato del
lavoro italiano con quello del Regno Unito e osserviamo soprattutto la
situazione dei giovani. Il confronto col Regno Unito è naturalmente
calzante: i) perché alla fine degli anni 70 il nostro GNP e quello del
Regno Unito erano pressoché uguali; ii) perche' il tasso di
disoccupazione italiano era uguale o inferiore a quello inglese per
tutti gli anni 60 e sino a circa il 1977; iii) perché è un'economia
molto simile alla nostra, sia per dimensioni, che per territorio, che
per orientamento all'esportazione, eccetera; iv) perché è un'economia
che alla metà degli anni 70 era ancora più ingessata, rigida,
sindacalizzata, e in crisi della nostra; v) perché il Regno Unito ha
avuto un interessante uno-due di politica economica, la Thatcher e
Blair, una destra ed una sinistra serie, che hanno portato a una
coerente liberalizzazione del mercato del lavoro; l'Italia invece no.
Nel Regno Unito il tasso di occupazione medio e' di circa 17
punti percentuali superiore all'italiano: 74% verso il 57%! Questo
significa che il cittadino inglese medio ha molte più opportunità di
lavoro di quello italiano. Ma le cose in Inghilterra sono
particolarmente migliori per i settori più 'a rischio' del mercato del
lavoro, quelli particolarmente esposti al rischio di
inoccupazione. Il tasso di attività delle donne da 20 a 24 anni è quasi
del 70%, in Italia è appena sopra il 30%. Il tasso di attività per le donne è, per ogni gruppo di età, almeno 10 punti percentuali più alto nel Regno Unito.
Sarà cultura? Sarà che le ragazze mediterranee vogliono lavorare meno
delle nordiche? O che i mariti machisti non le lasciano lavorare? Può
anche darsi. Ma ricordiamoci che un mercato del lavoro flessibile è
fondamentale per creare posti di lavoro soprattutto per le donne. Da un
lato le imprese, a parità di condizioni, spesso preferiscono offrire un
lavoro a tempo indeterminato a un uomo, che non partorisce e si occupa
meno dei raffreddori dei figli. Dall'altro, spesso sono le donne (per
le stesse ragioni di maternità e cura dei figli) a preferire una
situazione in cui è possibile entrare e uscire dal mercato del lavoro
con una certa facilità. Insomma, un mercato del lavoro flessibile è
molto meglio per le donne che, appunto, sono disproporzionatamente
rappresentate nei settori più a rischio del mercato del lavoro
italiano.
E gli uomini? La stessa storia. Con l'unica differenza che da
30 a 55 anni il tasso di attività in Italia e Regno Unito è pressoché
lo stesso. Il divario grande è nel mercato del lavoro dei giovani, le
vere vittime del sistema italiano. La differenza è di 25 punti
percentuali per il gruppo da 20 a 25 anni di età: nel
Regno Unito oltre il 70% lavora, mentre in Italia solo
il 45%. Il nostro problema è tutto qui. Questa è la differenza tra un
mercato del lavoro (e quindi una società) dinamico e vivo e uno
ingessato e necrotico! Se guardassimo a questi dati per il Sud del
paese, dove la rigidità, la contrattazione collettiva nazionale ed il
posto pubblico fisso la fanno da padroni, le cose sarebbero ancora più
drammatiche.
Ma c'è di peggio. Confrontiamoci con l'Irlanda, un
paese tra i più poveri d'Europa per molto tempo. Un dato per tutti, nel
1985 l'Irlanda aveva un reddito pro capite di poco superiore al 50% del
nostro. Proprio tra il 1985 ed il 1986 l'Irlanda intraprese una strada
liberista in politica economica: basse tasse, liberalizzazione del
mercato del lavoro, tagli "selvaggi" alla spesa pubblica, e via
sciorinando delizie. Insomma quello che vorremmo noi aver visto, per
l'Italia, in questa finanziaria. I risultati del confronto, nei numeri,
fanno impressione: il reddito pro capite irlandese, vent'anni dopo, è
circa il 25% più alto del nostro! Avete letto bene: da metà del nostro
è diventato un quarto più alto, in vent'anni. Per quanto riguarda, poi,
il mercato del lavoro e il destino dei giovani e delle donne, si puo'
ripetere parola per parola, ma aumentando le note positive, quello che
si è detto per il confronto con il Regno Unito. Nel periodo 1981-2002,
la produttività del lavoro è cresciuta più del quattro per cento
all'anno in Irlanda, contro un valore inferiore al due per cento in
Italia. Assieme alla produttività sono cresciuti i salari dei
lavoratori irlandesi: +4% all'anno, quasi tre volte più rapido del
tasso di crescita italiano! Avete capito perché i salari in Italia, sia
in entrata che dopo, sono nella grande maggioranza bassi? Perché da
venticinque anni non cresce la produttività. Fatto uguale a 100 il
valore aggiunto per ora lavorata negli USA, nel 2005 l'Irlanda e' a 104,
l'Italia a 79 (dati OCSE); avessimo preso i dati per l'industria, la
produttività irlandese per occupato sarebbe risultata il doppio di
quella italiana. Naturalmente la flessibilità del mercato del lavoro si
riversa sulla crescita: l'Irlanda cresce da vent'anni a botte del 6-9
percento l'anno; a noi va bene quando arriviamo a 1.5%.
Ma i dati sono sterili. E poi ci crediamo ai dati? Beh allora ricorriamo ai racconti sociologici e di costume. Nel New York Times
del 2 Giugno scorso è apparso un interessante articolo di John
Tagliabue. Racconta dell'invasione dei giovani francesi in Irlanda. (I
francesi sono nella stessa posizione di noi italiani, con un mercato
del lavoro che è uno schifo, rigido, con tassi di disoccupazione
giovanile pari ai nostri, e con un blocco sociale anti-precarietà
durissimo e letteralmente sulle barricate).
Ma cosa ci vanno a fare i giovani francesi in Irlanda? Ci vanno a fare
quello che non possono fare in Francia: lavori precari, ma redditizi
dopo un po' di anni. 20 mila immigrati francesi in Irlanda, negli
ultimi anni (86 mila in Inghilterra). Sembra strano, ma fate mente
locale: pensate al vostro ultimo viaggio a Parigi, al vostro ultimo croque monsieur
al bar, con il cameriere che apre la birra sotto l'ascella; e già,
aveva almeno 50 anni. A Parigi i camerieri non sono giovani che
guadagnano uno stipendio mentre studiano, come a New York o a Londra.
Ma anche a Roma i camerieri sono vecchiotti. Non sarà che i dati sono
giusti? Altri dati allora: le indagini Eurostat (2003 e 2004) ci
dicono che l'Italia e la Francia sono gli unici paesi in Europa dove
non va nessuno, nel senso che nessuno emigra per lavorare in Italia e
in Francia (dall'Europa). Guardate la figura, che indica i flussi
migratori interni all'Europa: nessuna freccia va verso l'Italia e la
Francia. In Italia, e Francia arrivano solo lavoratori dell'Europa
dell'est e tanti extracomunitari che cercano lavori poco o pochissimo
qualificati, e che quindi pagano poco.
Perché questo? Perché in Italia la situazione che abbiamo creato
genera domanda solo per lavoro poco qualificato (che attira gli
extracomunitari perché costoro son ben disposti a lavorare per un
salario basso, che è comunque molto migliore di quello che ottengono
nel paese di origine), mentre in Irlanda ed Inghilterra si
genera domanda per lavoro qualificato. E chi ha la capacità e la voglia
di lavorare in tali, precari, lavori va lì, inclusi molti italiani.
Qui non stiamo parlando solo di baristi e camerieri ma anche di
scienziati, accademici e non, di studenti, e via discorrendo. La
tabella di seguito, presa da un bell'articolo di S. Gagliarducci, A.
Ichino, G. Peri, R. Perotti (disponibile qui)
parla chiaro: la percentuale di stranieri occupati in scienza e
tecnologia in Italia è 1%, contro il 4% e più in Germania e Regno Unito
(e il 10% negli Stati Uniti, ma quelli stanno su Marte). La
percentuale di studenti di dottorato stranieri in Italia è risibile, 2%
(e indovinate da dove vengono ...). Il Regno Unito ha il 35% - trentacinque percento - di studenti stranieri.
USA | Germania | Regno Unito | Francia | Italia | Spagna | Portogallo | |
Studenti di Ph.D. dall'estero | 26% | n.d. | 35% | n.d. | 2% | 11% | 6% |
% di stranieri in scienza e tecnologia | 10.0% | 4.0% | 4.2% | 3.5% | 1.0% | 1.5% | n.d. |
Insomma, ricapitoliamo: i) la teoria economica ed i dati ci dicono
che un mercato del lavoro regolamentato, sindacalizzato, e ingessato
come quello che si è sviluppato in Italia dal dopoguerra genera
disoccupazione e soprattutto disoccupazione dei giovani e delle donne;
ii) l'Italia questo ha, infatti: alta disoccupazione, specie di giovani
e donne. Sia chiaro allora: chi
vuole questo mercato del lavoro danneggia i lavoratori, soprattutto
quelli che vorrebbero lavorare ma non possono come i giovani e le donne. Noi vorremmo un mercato del lavoro come quello dell'Irlanda.
4. Gli argomenti contro la flessibilità sono errati
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4. Gli argomenti "tecnici" contro la flessibilità sono empiricalmente irrilevanti e talvolta logicamente errati.
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Ma quali sono gli argomenti logici ed empirici
che forniscono supporto alle restrizioni legislative alla flessibilità
nel mercato del lavoro? Perché introdurre restrizioni legislative al
diritto di licenziamento per motivazioni economiche? Non è facile
trovare nel dibattito in Italia tali argomentazioni in forma
logicamente compiuta. Il livello del dibattito di politica economica
nel paese, lasciatecelo dire, è terrificante. Un "luogo" adatto dove
trovare una controparte con cui dibattere però c'è: il sito lavoce.info
è popolato da seri economisti del lavoro che si pongono queste domande,
come noi, anche se le loro risposte sono spesso differenti. Ecco per
esempio una classificazione di queste argomentazioni ad opera di Andrea Ichino, che riportiamo verbatim per meglio discutere:
- Un’eccessiva instabilità del rapporto di lavoro può ridurre l’investimento in capitale umano specifico e generale da parte di lavoratori e imprese, con esternalità negative e conseguente riduzione della produttività e del tasso di crescita.
- La possibilità di interrompere senza vincoli il rapporto di lavoro può indurre le imprese a selezionare i lavoratori da assumere con minore attenzione, peggiorando la qualità media del match tra impresa e lavoratore, con danni per l'intera economia.
- Se rapporti di lavoro instabili si alternano a periodi di non occupazione, esiste evidenza di un effetto "scarring" a danno del lavoratore, che permane nel tempo, con esternalità negative ad esempio sulla progenie del lavoratore stesso. Le conseguenze di lungo periodo di un "low labor attachment" sono state ampiamente studiate nel caso dell’occupazione femminile, ma non solo.
Analizziamo queste argomentazioni teoriche una ad una (per
verificarne la validità empirica occorrono i dati, che a quanto ci è
dato sapere sono scarsi). L'esternalità ipotizzata in i) è tutt'altro
che ovvia. Il rischio di licenziamento tende in generale ad
incentivare, invece che a ridurre, la formazione di capitale umano del
lavoratore. Chiedete cosa fanno all'estero i giovani professori in tenure track
(e cioè non ancora confermati), o i giovani avvocati che vogliono
diventare partners, o i giovani commercialisti che hanno iniziato da
poco a lavorare per un'azienda di consulenza o di contabilità. Lavorano
letteralmente giorno e notte. Lo sappiamo, l'abbiamo fatto anche noi.
Una distorsione a favore di capitale umano generale piuttosto che
specifico all'azienda è possibile, ma questa si cura non proibendo il
licenziamento ma, in principio, tassando monetariamente l'azienda che
licenzia "troppo". Notasi che occorre saper calcolare quale
azienda licenzi "troppo" e quale no; cosa non facile. Ma la
scorciatoia di tassare tutte le imprese che licenziano introduce enormi
costi di transazione. Il punto vero è che impedendo il licenziamento si
generano molte più distorsioni di quante supposte
esternalità si eliminino, visto che tutte le aziende che dovrebbero licenziare non
possono farlo, e quindi falliscono (o vivono di sussidi). Il fallimento
di un'azienda altrimenti sana (o il sussidio a vita di una decotta) ha
un costo sociale altissimo: questa è una delle peggiori esternalità che
una cattiva legislazione produce, dato che il fallimento/sussidio distrugge
capitale fisico, umano, ed organizzativo. Nemmeno la formazione di
capitale umano ne è avvantaggiata: nessuno investe in capitale umano
generale se sa che le sue chances
di tornare sul mercato del lavoro sono nulle o minime, visto che nessuno
licenzia e nessuno assume. E il capitale umano specifico all'impresa?
Ma chi investe con salari rigidi, licenziamento impossibile, carriera
per anzianità, mansioni definite per contratto? Avete mai visto qualche
funzionario ministeriale darsi da fare incessantemente per diventare più
bravo e sbrigare meglio le vostre pratiche?
Il punto in ii) ci pare logicamente incorretto. Ad ogni dato
livello di vincoli al licenziamento corrisponde un livello ottimo di
investimento in selezione del personale. Il legislatore stabilisce i
vincoli, e l'azienda sceglie quanto investire in
selezione. Poiché licenziare in Italia è quasi impossibile, le aziende
fanno selezione all'infinito tenendo i giovani assunti in contratti
temporali assurdi inventati dai nostri beneamati giuslavoristi. Ma che
sia sempre ottimo fare più selezione invece di licenziare è ovviamente
falso: implicherebbe che è ottimo non assumere mai e continuare a fare
selezione. Assumere e licenziare sono, entrambi, dei costi di
transazione. È banale che un sistema di diritti di proprietà
efficiente, ovvero una legislazione del mercato del lavoro
intelligente, dovrebbe cercare di minimizzare la somma dei costi di
transazione. Quindi dovrebbe rendere il licenziamento per ragioni
economiche facile, ed altrettanto facile l'assunzione di un nuovo
lavoratore. Starà poi all'azienda e al lavoratore decidere se fare
tanta selezione uno dell'altro e poi firmare contratti di lunga durata
con tutti i vincoli possibili; oppure se per loro è più conveniente un
rapporto di breve durata. Il legislatore saggio, ripetiamo, dovrebbe
solo preoccuparsi di minimizzare i costi di transazione. Lo sappiamo
anche noi che in presenza di inefficienze multiple ridurne solo alcune non
è necessariamente meglio (per i non economisti, questo si chiama
teorema del "second best"), ma ridurle tutte lo è: chiediamo si riducano tutte, dunque!
L'esternalità menzionata al punto iii) è al più un divertissement teorico che un fatto concreto, e la logica che la sottende e' scivolosa. Lo "scarring"
è dovuto proprio alla mancanza di flessibilità nel mercato del
lavoro. Se nessuno licenzia, pochi assumono; se pochi assumono, chi
viene licenziato avrà vita dura, molto dura. Se è stato licenziato
quando quasi nessuno lo è, ci sarà il suo bel motivo: l'effetto scarring
in questo caso è massimizzato proprio perché il licenziamento è raro.
La durata dei periodi di disoccupazione è endogena e una enorme
evidenza empirica, oltre che il senso comune, mostrano che i periodi di
disoccupazione medi sono molto bassi (pochi mesi) quando il mercato del
lavoro è flessibile. Quindi l'effetto "scarring"
in un mercato del lavoro liberale è di fatto limitato a casi
patologici, che ovviamente non si risolvono mantenendo tutti in
occupazioni improduttive. I casi patologici si risolvono con forme di
assicurazione, cose ben diverse dal divieto di licenziare. In ogni
caso, se esistesse un importante effetto "scarring"
generalizzato, anche questo andrebbe curato con un sussidio
all'impresa, non con un'imposizione erga-omnes, esattamente come nel
punto i).
Lo stesso tipo di annotazioni critiche possiamo fare ad
altre argomentazioni di tecnici del mercato del lavoro. Si prenda per
esempio, sempre dallo stesso sito, la recente proposta di "eliminazione
della precarietà" per via giuridica, elaborata da T. Boeri e P. Garibaldi.
La motivazione è lodevole, ma la proposta in cosa consiste? In
codificare la relazione di lavoro fra impresa e dipendente ancora di
più: sei mesi di "prova", poi trenta mesi di "inserimento"; dopo di
questi si passa alla situazione "normale", quella del contratto a tempo
indeterminato. Nient'altro, a parte una riduzione della durata massima
del contratto di lavoro a tempo determinato da tre a due anni, senza
spiegazione del perché. Cosa cambierebbe? Nulla! Perché sei mesi?
Magari al lavoratore e all'impresa vanno bene otto. Perché trenta di
inserimento? Magari ne preferiscono quattordici. Perché il tempo
determinato "giusto" è due anni? Se invece io lo volessi di due anni e
tre mesi? .. La logica della proposta ci pare chiara: ingabbiare i
mercati in criteri decisi a tavolino, con numeri che sembrano quelli di
Maastricht, tirati fuori a caso dal cappello dell'addetto ai lavori.
Sia chiaro, ci siamo concentrati sulle argomentazioni di Ichino da un lato e di
Boeri e Garibaldi dall'altro perché sono le più solide e perché ne rispettiamo gli
autori. Le altre che si trovano in circolazione lasciano molto più a
desiderare. Buona parte della discussione sui giornali è addirittura
senza senso.
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5. Che fare? Soyons realistes, exigeons l'impossible!
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Prima di tutto, aboliamo la regolamentazione legislativa delle tipologie contrattuali.
Abbiamo già discusso questo punto. L'articolo 1322 del codice
civile dice che le tipologie di contratto specificate dalla legge non
sono esaustive: le parti possono inventarsene di nuove. Perché questo
non vale per il mercato del lavoro? Una volta proibita la schiavitù e
le poche figure contrattuali che le assomigliano, perché non lasciare
che se un lavoratore e un'azienda sono contenti di avere un rapporto di
lavoro ad hoc, se lo decidano tra loro il contratto appropriato?
Inoltre, riduciamo fortemente l'onere probativo imposto alle imprese dalla legge sui licenziamenti per giusta causa.
Spiace dirlo così brutalmente, ma impedire alle imprese di licenziare
semplicemente quando lo impone il calcolo di convenienza economica,
significa anche impedire alle imprese di assumere quando un nuovo posto
di lavoro è profittevole, proprio perché si caricano le imprese di un
costo aggiuntivo di cui esse dovranno tener conto al momento
dell'ipotetica assunzione. In questo modo si svuoterebbe il dibattito
riguardante l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che obbliga il
reintegro del lavoratore nei casi di licenziamento senza giusta causa.
Il nodo da affrontare e tagliare è il seguente: il licenziamento di
poche persone, al limite una sola, per ragioni economiche costituisce
"giusta causa"? Noi riteniamo che, in principio, la risposta sia SI e
che norme debbano essere istituite che lo permettano. Questo non
significa che l'azienda deve esser libera di licenziare arbitrariamente
chiunque stia antipatico al padrone; ma a questo problema si risponde
con opportune leggi contro i licenziamenti individuali discriminatori e
motivati in realtà da ragioni politiche, religiose, e sessuali. La discriminazione ad personam non si elimina imponendo vincoli generali sul licenziamento per ragioni economiche. Noi auspichiamo che, inoltre, non venga definita per legge la necessità
di arbitrati da parte del giudice in caso di conflitto. Si lasci che
l'arbitrato avvenga privatamente e attraverso compensazioni in moneta
accettate dalle parti.
Riassumendo:
si tratta di definire quelle poche e ovvie circostanze in cui il
licenziamento non è permesso perché discriminatorio (e al quale fa
seguito o il reintegro o, se il lavoratore lo preferisce, una
compensazione economica) e permettere il licenziamento in tutte le
situazioni non classificate esplicitamente come discriminatorie.
Poi, aboliamo la contrattazione collettiva a livello nazionale dei salari e delle forme contrattuali.
Non vi è nessuna logica, né di efficienza né di equità, per
mantenere il contratto nazionale, di categoria o di quel che sia. I
contratti vanno fatti a livello aziendale, o individuale, perché è a
livello individuale o, al più, aziendale, che si verifica l'incontro
fra domanda e offerta di lavoro. L'argomento secondo cui solo a
livello nazionale la capacità contrattuale del lavoratore è
equiparabile a quella del datore di lavoro è falso empiricamente, oltre
che specioso logicamente.
Empiricamente falso perché, ovviamente, essendo la mobilità
territoriale del lavoro limitata e le capacità professionali dei lavoratori altamente eterogenee, certi lavoratori in certe aree hanno
una capacità contrattuale superiore alla media nazionale ed altri una
inferiore alla media nazionale: è una media dopotutto. Ugualmente,
alcune aziende saranno altamente produttive, e quindi troveranno il
salario medio nazionale un conveniente regalo (ossia, senza
quell'accordo potrebbero facilmente essere disposte a pagare i loro
dipendenti ben di più) mentre altre lo troveranno troppo alto e saranno
costrette a chiudere o a licenziare (mentre i loro lavoratori,
probabilmente, avrebbero preferito lavorare e guadagnare un salario,
magari inferiore al medio nazionale, invece di non guadagnare nulla).
Quindi, il contratto nazionale con il salario nazionale crea
ingiustizie e disuguaglianze ingiustificate da un punto di vista
economico. Altrettanto ovviamente il contratto nazionale crea gli
incentivi sbagliati: a chi non ha voglia di lavorare e non sa fare
nulla garantisce un salario troppo alto, e chi ha voglia di lavorare e
sa fare le cose bene, offre un salario troppo basso.
È logicamente specioso, perché è ovvio che la contrattazione
decentralizzata è superiore, in quanto si adatta meglio a situazioni
eterogenee, alla contrattazione centralizzata da parte di agenti i cui
interessi non sono allineati a quelli per conto di cui contrattano. E
qui veniamo al punto dolens: i contratti nazionali e la
rappresentatività erga omnes di alcune organizzazioni sindacali servono
solo a mantenere in piedi una burocrazia sindacale parassitaria e
potente, pagata con le tasse dei lavoratori, in attesa che si liberino
per i più fortunati fra di loro posti da ministro, viceministro,
presidente di camera e senato, parlamentare, o anche solo presidente
dell'Inps, o dei mille istituti inutili ma costosi che i sindacalisti
italiani presiedono prima d'andare in pensione.
Infine, proteggiamo i lavoratori da eventi avversi attraverso una assicurazione di disoccupazione obbligatoria e nazionale.
Esisteranno sempre congiunture sfavorevoli, fallimenti di imprese,
lavoratori che perdono il loro impiego. Il sistema attuale è
particolarmente sfavorevole verso i più sfortunati, i disoccupati. La
cassa integrazione guadagni provoca effetti perversi disincentivando il
lavoratore dal cercare un nuovo lavoro; soprattutto, non a tutti la
cassa integrazione viene concessa, alcuni sono "fortunati", altri molto
meno, il ché è ingiusto e crea incentivi distorti. E se l'impresa
fallisce, quando la cassa integrazione finisce il lavoratore si trova
senza lavoro e senza stipendio. Occorre invece istituire
un'assicurazione di disoccupazione obbligatoria e nazionale. Se proprio
volete un modello per quest'ultima, quello spagnolo è un buon punto di
partenza; In Spagna la cassa integrazione non esiste da tempo, e la
contrattazione nazionale e di categoria sta passando di moda, mentre
sempre di più il grosso della contrattazione si fa a livello aziendale
... sarà un caso che la Spagna ha aumentato il numero dei suoi occupati
del 50% (cinquanta per cento!) in undici anni?
Serve altro? No, per quanto riguarda il mercato del lavoro non serve altro.
Certo occorrono anche riforme in altri settori, ma abbiamo promesso
di parlare solo di mercato di lavoro in questo post. Comunque, ecco la
lista della spesa: oltre ai dieci, cento, mille 'bersani' che
liberalizzino persino il settore della distribuzione di carta igienica,
occorre tagliare le tasse sul reddito da lavoro, tagliare i contributi
sociali, liberalizzare in modo attuarialmente equo l'età di
pensionamento.
Se vi siete stancati di leggere cose tecniche - vi avevamo
avvisato: non sempre scriviamo cattiverie e goliardate più o meno
sconce - basta così. Il grosso l'abbiamo detto e la rivoluzione,
pardon: riforma, del mercato del lavoro che s'ha da fare l'abbiamo
descritta. Ma se vi vanno alcune altre riflessioni più generali,
adelante!
6. Il "posto fisso alle Poste" e conclusione
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6. Ma il "posto fisso alle Poste" non è un bene?
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Le microscopiche riforme introdotte dalla Legge Biagi hanno creato
sconcerto in alcuni settori del mondo politico-sindacale, uno sconcerto
che ha trasformato questa leggina in un simbolo da abbattere. A fronte
dell'effetto reale sortito, una tale reazione sembra francamente
spropositata. Ci sono varie ragioni per questo, ma la principale è
ovviamente di natura simbolico-politica: la legge Biagi stabilisce che
lo statuto dei lavoratori non è una bibbia intoccabile, ma una legge
fatta quasi quarant'anni fa, con un mucchio di difetti e che ha
prodotto più danni che altro ai lavoratori. Se era giustificata al tempo, di certo non lo e' piu' ora. Ovviamente, nel dibattito
sopra la legge Biagi, questo non viene detto. Ciò che viene detto,
invece, è che la legge Biagi "crea" o "genera" o "sostiene" o "incentiva" la precarietà del rapporto di lavoro.
Chiediamoci, dunque, è vera questa accusa? In cosa consiste la
precarietà? Cosa genera la precarietà? E' davvero così terribile la
precarietà?
Non c'è dubbio che la precarietà in Italia, e anche altrove,
spaventa. La lotta alla precarietà è l'unico argomento su cui destra e
sinistra appaiono in accordo. Dalla chat di Romano Prodi con il Corriere,
Domenica 26 Marzo, 2006, si legge: "Con questa legge [la Legge Biagi]
si è istituzionalizzato il precariato. Berlusconi dice che c'è solo il
12% di lavoratori precari. Sì, nella massa. Ma tra i giovani più della
metà sono precari. E questo significa distruggere una generazione:
impedire loro di fare programmi, acquistare una casa, fare figli. [...]
Per questo ho proposto di alzare il costo del lavoro precario e di
ridurre il costo per il lavoro stabile». Casini, a Porta a Porta,
difendendo la Legge Biagi, dice (riportiamo a memoria): "siamo tutti
genitori, e tutti sognamo un posto fisso per i nostri figli." La
dichiarazione di Casini è rivelatrice: secondo lui la precarietà si
elimina con il posto fisso, ovvero la precarietà è uguale al posto di
lavoro non fisso, non eterno.
Il posto fisso garantito esiste
solo nel mondo dei sogni e delle menzogne che i politici ed i
sindacalisti italiani da sempre raccontano. Chiediamolo ai giovani
meridionali quanto si sentono garantiti dal posto fisso (lo cercano,
naturalmente, perché non hanno altra possibilità - eccetto emigrare,
cosa che hanno sempre fatto e continuano a fare). Solo nel settore
pubblico esiste, purtroppo, il posto fisso. Infatti il settore pubblico
non progredisce, non compete, non migliora, non esiste per servire i
cittadini, e si vede. Se il settore pubblico volesse progredire
dovrebbe adottare prima di tutto il principio che il lavoratore che non
funziona si può cambiare di posto, rimuovere, abbassare di qualifica,
e anche licenziare. Come succede, guarda caso, in tutti i paesi del
mondo in cui i servizi pubblici sono minimamente funzionanti, e come sostiene - altra voce che predica nel deserto - Pietro Ichino.
Lo spettro della precarietà, dunque, si aggira per l'Europa. Noi la
chiamiamo flessibilità e vuol dire questo: un'azienda ha il diritto di
licenziare un lavoratore, con un preavviso di uno o due o anche tre
mesi, per ragioni puramente economiche, ovvero perché non ne ha più
"bisogno" ed il lavoratore costa troppo rispetto a ciò che produce. Da
molte parti si considera tale diritto un male, noi lo consideriamo un
bene, anzi un elemento necessario per lo sviluppo economico. Che
piaccia o meno alle anime belle che predicano la programmazione ed il
lavoro stabile come se fossero una specie di miracolo legale, il posto
di lavoro stabile non esiste e non è mai esistito. Laddove è stato
imposto, per esempio nei servizi pubblici, avviene ad un alto costo per
il resto della società che deve privarsi di parte del prodotto del
proprio lavoro per pagare il salario ad un lavoratore che sta facendo
cose che non servono a nessuno, oppure non sta facendo assolutamente
nulla. Poiché, per ovvie ragioni, se qualcuno consuma senza far nulla
dev'esserci qualcun'altro costretto a consumare meno di ciò che
produce.
L'istituzione del posto fisso è dunque iniqua e premia solo gli
approfittatori, i raccomandati, o anche solo i fortunati. Trasforma il
mercato del lavoro in una lotteria, nel migliore dei casi, o in un
lupanare dove si pratica il meretricio di massa: la raccomandazione,
l'amico/parente politico o sindacalista con il contatto che riesce a
farti assumere, che riesce a truccare il concorso, o addirittura tu
stesso/a che corrompi per vincere il concorso. Il posto fisso non
protegge i deboli, fa invece loro danno perché i deboli sono, appunto,
senza connessioni, senza capacità di meretricio, senza assi nella
manica, senza abilità di arrangiarsi. I deboli, in un mondo con i posti
fissi d'appannaggio ai furbi, si prendono le briciole. Il debole ha una
sola cosa a suo favore nella vita: che gli venga data l'occasione di
mostrare che vale, che ci sa fare, che anche lui può lavorare, produrre
e inventare.
Insomma, il debole figlio di nessuno ha solo la competizione come
speranza: se gli impedisci di competere, se crei un sistema dove i
furbi son "dentro" con i posti fissi per sempre, e i figli di nessuno
"fuori" con i posti marginali, i lavori più duri e senza prospettive
di carriera, allora il figlio di nessuno è debole per sempre. L'unica
salvezza dei deboli figli di nessuno, lo ripetiamo, è la precarietà dei
furbi, la possibilità che i furbi debbano temere la concorrenza dei
figli di nessuno: in un mondo flessibile il debole ha qualche speranza
di prosperare, in un mondo di posti fissi è fregato per sempre.
Se il lettore e' interessato ai dati seri sulla mobilità sociale, legga l'articolo di
Chris Flinn, "Labor Market Structure and Inequality: a Comparison of
Italy and the US" (in Review of Economic Studies
July 2002, vol. 69, n. 3). Chris trova che mentre la disuguaglianza
misurata scattando una fotografia dei redditi in un dato momento è più
alta negli USA che in Italia, quando si guarda all'intero arco di vita
non lo è. Questo perché nel mercato del lavoro americano ci sono più
opportunità di effettuare transizioni in su e in giù all'interno della
distribuzione dei redditi, mentre in Italia è tutto gessificato.
Perché gli italiani, ciononostante, cercano il loro bel posto alle
Poste? Decenni di politiche cattocomuniste sul mercato del lavoro e un
secolo e mezzo di emigrazione dei più motivati e ambiziosi (non stiamo
pensando a noi stessi, adesso, noi siamo solo poche centinaia,
irrilevanti; stiamo pensando all'emigrazione in Argentina e negli Stati
Uniti dalla fine dell'800 sino alla seconda guerra mondiale, e in
Germania e Svizzera negli anni 50 e 60) hanno lasciato il segno sulla
cultura e i valori del paese. Secondo la World Values Survey
del 1999, alla richiesta di identificare in una lista gli aspetti
importanti di un lavoro, gli italiani menzionano la "sicurezza e la
mancanza di rischio" molto più di quanto non facciano gli inglesi, gli
irlandesi, e gli americani, come riportato nella Tabella.
Sicurezza e mancanza di rischio (1999) | TOTALE | Irlanda | Italia | Gran Bretagna | USA |
Non menzionata | 28,5 | 31,4 | 23,9 | 34,9 | 28,2 |
Menzionata | 71,5 | 68,6 | 76,1 | 65,1 | 71,8 |
Perché? Ci sono due ragioni fondamantali, oltre alle ragioni
"culturali" cui abbiamo accennato. Questi sono appunti per Ex-Kathedra
futuri, ma li mettiamo qui per chi ha voglia ancora di leggerci.
La flessibilità è un problema di equilibrio generale.
i) Non basta liberalizzare i contratti dei giovani solamente. ii)
Ogni misura sul mercato del lavoro ha impatto minimo in un paese con
tassazione violenta come il nostro (perché le imprese fanno fatica a
innovare, perché molte sono in nero...), quindi bisogna liberare
risorse dalla spesa, e tanta (e questo in Italia non è possibile senza
mettere le mani sulla "questione meridionale"). iii) Non basta un
mercato del lavoro flessibile se il mercato degli affitti è bloccato da
tipologie contrattuali stabilite per legge (a Milano non si puo'
affittare a meno di 4+4 anni; cioè 8 anni, che possono diventare 4 se
si dimostra necessita di usare l'appartamento per se stessi). iv)
Bisogna liberalizzare il mercato del credito, così se voglio dei
capitali per fare i "kinky boots"
posso trovarli facilmente. v) Bisogna abolire gabelle, timbri, licenze
e certificati (notarizzati, ovviamente) attualmente necessari per
aprire un business.
La transizione a un mercato del lavoro liberale è costosa.
Niente è gratuito. Per passare da un mercato del lavoro come quello
italiano a un mercato del lavoro di carattere liberale e garantista,
come quello inglese o irlandese che a noi piacciono tanto, ci vogliono
lacrime e sangue. Ricordate la Thatcher? La depressione delle grandi
città industriali inglesi (Liverpool, Manchester, per esempio) alle
fine degli anni 70? Ricordate i bei film sulla disperazione della
classe media che deve affrontare licenziamenti e riconversioni
industriali (pensiamo a My beautiful laundrette, Full monty,
i film di Ken Loach, e via così)? Lacrime e sangue allora. Ci rendiamo
conto. Ma 10-15 anni dopo l'Inghilterra è un paese vivo, sempre più
ricco (anche e soprattutto nella sua classe media); ricco
economicamente e vivo intellettualmente, positivo e ottimista. La
cinematografia inglese comincia a cambiare temi. Ora Ken Loach fa
film sulla guerra in Iraq, i giovani registi impegnati si occupano di
identità etnica (East is east, Bend it like Beckham)
molti registi fanno film allegri e divertenti, o magari intimisti, ma
nessuno si preoccupa più delle disperate periferie di Manchester, che
tanto disperate non sono più.
L'Italia è ora (beh, è stata negli ultimi 30 anni) dove
l'Inghilterra era alla fine degli anni 70. E le cose peggiorano.
Possiamo chiudere gli occhi e fare finta che la Cina non esista, né il
resto del mondo. Possiamo evitare di passare dalla fase di
riconversione e transizione, certamente, ma finiremo a passo svelto
verso il modello argentino. Non vogliamo nemmeno sapere che film fanno
in Argentina, francamente. Ah, si, fanno Nueve Reinas:
il manuale dell'arrangiarsi truffando il prossimo! Invece, pensiamo
all'Irlanda, quello deve essere l'obiettivo.
Oltretutto, i costi della
transizione, per quanto elevati, possono essere in parte alleviati con
opportune misure di assicurazione sociale (di cui non parliamo in
dettaglio, ma le abbiamo accennate sopra e ci ritorneremo). Tanto per
intenderci, assicurazione sociale non significa mantenere guardie
forestali in Calabria in numero 10 volte superiore a quelle del
Trentino, ma significa dare alle guardie un tempo ragionevole per
riconvertirsi ad altro. E "altro" può richiedere lavorare sul serio,
magari anche muoversi dove il lavoro è offerto. Questo è costoso,
per le guardie, e ci spiace per loro: non fanno nulla di male,
individualmente (hanno solo trovato il lavoro che più gli conviene), ma
sono stese su rendite socialmente inefficienti che il paese non può permettersi.
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Conclusione
'</h' . (('2') + 1) . '>'
Un'avvertenza conclusiva, per rassicurare il lettore (e addirittura
chiedergli di rileggere le argomentazioni, che abbiamo faticato a
fare): non siamo pazzi, né "amici dei padroni".
Ce la prendiamo qui con le rendite sul mercato del lavoro, garantite da
sindacati irresponsabili, perché parliamo del mercato del lavoro. Le
rendite monopolistiche dei "padroni" ci piacciono ancora meno. Ma di
questo ci occupiamo quotidianamente su nFA.
Qui ci occupiamo del mercato del lavoro, per una volta. E ci teniamo a
sostenere con forza, e a proposito insistiamo sia qui che altrove,
siamo certi d'essere "amici dei lavoratori".
Non siamo pazzi. Buona parte della gente che ha pensato e pensa a
queste cose da un punto di vista tecnico e privo di pregiudizi, la
pensa come noi. Blanchard e Tirole, economisti di fama e "di sinistra"
per esempio: "Reforms
of the unemployment insurance system which allow for higher insurance
while maintaining search effort [..] have both direct insurance
effects, but also indirect ones, as they allow to decrease employment
protection and improve efficiency" (in "Contours of employment protection reform"). Non
viviamo nelle catacombe: è il dibattito italiano sul mercato del
lavoro, cui il cittadino è normalmente esposto, che sta nelle catacombe
del pensiero economico.
La verità vera ma peccaminosa perché nega decadi di cattocomunismo
straccione, la verità che tutti tacciono travolti da un buonismo
anti-mercato tanto ipocrita quanto dannoso, è che la libertà
contrattuale sul mercato del lavoro fa bene soprattutto ai lavoratori!
La loro migliore protezione è proprio la flessibilità, e la migliore
garanzia è un sussidio di disoccupazione fatto come logica economica e
senso comune comandano. Ma per far tutto questo, occorre passare sopra
le lobbies sindacali, professionali, e parrocchiali; occorre
sconfiggere le loro parassitiche burocrazie.
Sappiamo che è difficile, ma non importa: soyons realistes, exigeons l'impossible.
Da (modesto) economista, concordo sul piano tecnico con la vostra analisi e proposta. I miei dubbi - e sottolineo dubbi, non ho certezze al riguardo - sono di altro genere: gli USA (paese che ammiro incondizionatamente) o la Gran Bretagna sono davvero il modello di società da proporre in questo momento storico per l'Italia? Non parlo da economista: tacciatemi di "ateo devoto" o di "ratzingeriano di ritorno", ma dal settembre 2001 cerco di guardare a tali questioni spogliandomi per quanto possibile delle robuste convinzioni economiche (che in fondo credo coincidano con le vostre: il mio nickname dovrebbe essere self-explaining, anche se nessuno dei due era "solo" un economista) ed adottando una visione più complessiva. La butto lì a titolo di esempio e, ripeto, senza avere una risposta in tasca: quanto è compatibile difendere i valori occidentali, p.e. la famiglia e l'educazione tradizionale dei figli, obiettivo per me imprescindibile di fronte alla realtà dello scontro di civiltà in atto, con un sistema economico che spinge (meritoriamente sul piano della mera efficienza economica) alla mobilità p.e. territoriale? Se la forza della società italiana è nelle piazze e nei campanili, è davvero desiderabile creare generazioni di individui senza radici? Parafrasando un vostro esilarante pezzo di qualche giorno fa, dal punto di vista del "capitale sociale" da preservare non è in fondo meglio che il figlio del farmacista faccia anch'egli il farmacista, e il figlio dell'operaio faccia l'operaio, ecc., ecc. se questo consente di preservare una rete di valori e relazioni sociali secolari? Voi direte: assolutamente no, perché un sistema sociale mummificato non progredisce economicamente e quindi è destinato a perdere anche nell'(immagino per voi solo eventuale) scontro di civiltà. Io dico: e chi ci dice che il tipo di progresso in grado di farci vincere lo scontro sia (solo) quello di tipo economico? E se invece servisse un progresso (o una mera difesa) di tipo morale/culturale? Dico questo perché temo davvero che in un paese ormai marcio e quasi privo di valori come l'Italia riforme economiche come quelle che voi proponete potrebbero distruggere anche il residuo di "radici culturali" che ci rimangono. Mentre le stesse riforme, in nazioni con un sistema sociale, culturale e di valori condivisi molto più robusto come gli USA, i paesi anglosassoni in genere, ma anche alcuni stati europei (p.e. l'auspicabile futura Francia "all'americana" di Sarkozy), non possono che avere effetti positivi, non sono affatto certo che da noi il risultato non sarebbe il definitivo collasso della società italiana, con la resa di fronte al relativismo culturale e, più tardi, di fronte al "nemico tra noi".
A mio modesto parere la "nuova famiglia italiana" non è proprio un
bene da proteggere. Proprio in questi giorni i giornali sono pieni di
episodi di bullismo a scuola e stupri da parte di ragazzini minorenni a
compagnette di scuola. I commenti dei genitori degli stupratori? "La
scuola sa solo punire!!!". Ma siamo matti, adesso la colpa è della
scuola e non della famiglia. E poi, se andiamo a vedere il consumo di
droga nelle discoteche frequentate da minorenni (purtroppo non ho dati
ma hoi ricevuto l'informazione da persone che ne hanno accesso), parlo
di cocaina, il consumo è altissimo. Chi glieli da i soldi a costoro se
non i genitori? 50 o 100 euro alla settimana? Io fino a 18 anni vedevo
tra le 10000 e le 20000 lire a settimana e zitto. E non ditemi che
adesso c'è l'euro!!!
Insomma, non mi sembra che la famiglia
italiana odierna rappresenti questa grande risorsa da proteggere.
Proteggere poi da cosa? Da una riforma che crea occupazione e che ti
obbliga a spostarti da Bari a Milano nella peggiore delle ipotesi? E
poi diciamoci la verità, ora come ora si spostano i migliori, chi va
all'estero e chi migra nelle grandi città per trovare un lavoro che si
addice alle sue capacità. Di questi non vogliamo curarci? Ci
preoccupiamo solo di coloro che poverini, potrebbero essere costretti a
spostarsi data una riforma che crea più occupazione e ricchezza per
tutti? Non mi sembra proprio il caso.