Il governo – per bocca del ministro Sacconi – dichiara trattarsi di un'ipotesi neppure presa in considerazione, per un problema già avviato a soluzione (?) agendo su detassazione e decontribuzione del salario variabile, in linea con il recente accordo interconfederale – orfano della firma d'Epifani – che delinea i nuovi assetti contrattuali.
L'opposizione - come sempre priva d'idee e culturalmente incapace di rapportarsi, o fors'anche solo di capire, il giuslavorista Pietro Ichino che teoricamente dovrebbe avere, nel PD, il compito d'occuparsi della materia - urla e strepita, paventando quelle improbabili penalizzazioni del Sud che solo l'incomprensione per il funzionamento dell'economia rende credibili.
I sindacati presentano, come ultimamente è consuetudine, reazioni contrastanti. Le parole dell'accomodante Bonanni danno per chiarita la contrarietà governativa e definiscono, correttamente, l'idea “illiberale” - dimenticando che tale è, a maggior ragione, pure l'attuale sistema centralizzato – mentre l'irriducibile Epifani si frega le mani: un'insperata occasione per la tanto amata scampagnata tra vecchie glorie a Piazza San Giovanni, in Roma, al nostalgico grido di “sciopero generale!” che fa tanto anni '70 ....
Anche Nostra Signora dell'Astronomia ha detto nein, confermando, peraltro, quella che da tempo è la posizione ufficiale di Confindustria, che non vuole soluzioni dirigistiche ma, poi, mai trova il coraggio di portare sino in fondo tale impostazione. La via aperta dal nuovo accordo con i sindacati - CGIL esclusa - va nella giusta direzione ma con grande timidezza, dal momento che tende a dare ancora troppa importanza - anche in sede di singole aziende - agli organismi di rappresentanza invece che agli individui. Tra l'altro, non poche voci in arrivo dalla mitica “base associativa” apportano un contributo di dissonanze alla sinfonia in esecuzione, nel timore di trovarsi ad aprire le porte ad un sindacato da sempre molto poco presente nelle piccole imprese.
(Quasi) tutti d'accordo, dunque? Così pare, eppure …..
Eppure il problema è reale e la Lega – con il consueto fiuto, tutto politico, per gli umori del territorio di riferimento – l'ha segnalato, pur nel tipico modo mediaticamente dirompente e politicamente scorretto, e pur prospettando una non-soluzione, che si limita a trasferire la rigidità dal livello nazionale ad alcuni sub-livelli che potremmo definire – ricordando Gianfranco Miglio – "macroregionali".
Già, la Lega. Qualcuno sostiene – a torto od a ragione, non importa - che certe uscite siano il frutto d'irrecuperabile incompetenza, fors'anche di crassa ignoranza, se non proprio di desolante incapacità d'intendere e di volere. Comunque, sempre d'ignobile razzismo. Non si può escludere che ci sia del vero in tali accuse, per quanto - vista la qualità delle proposte provenienti un po' da ogni dove - tali caratteristiche appaiano comuni alla classe politica italiota. Probabilmente, però, un simile atteggiamento di contrasto acritico - molto comune nel Paese del muro contro muro perenne ed assoluto, nel quale l'appellativo d'imbecille mai si nega all'avversario politico, rigorosamente senza cercar di capirne le posizioni - impedisce di accorgersi dell'evidenza: trattasi, banalmente, di strategia politica, volta al contrasto di quell'ectoplasma dai confini incerti per schieramento ma misurabili per geografia, che ha preso il poco fantasioso nome di “partito del Sud”. Il tema proposto, cioè, si presta egregiamente a tenere alta l'attenzione ai problemi del Nord produttivo, nel momento dell'attacco alla diligenza portato dagli “indiani”. Il tutto si configura come un altolà al Premier, tanto per ricordare quali siano i limiti entro i quali è possibile muoversi, condito con richiami alle bandiere locali e velenosi dubbi in merito alle missioni militari all'estero. Nemmeno la terminologia è casuale, come sempre, del resto: si parla alla pancia dell'elettorato, al quale si promette la difesa degli interessi comuni al territorio di riferimento, così come vengono - spesso superficialmente - percepiti.
Bene, sgombrato rapidamente il campo dall'aspetto di competizione politica, e dalle motivazioni a monte della proposta, è tempo di entrare nel merito.
I fatti sono noti. Le diverse zone del Paese si caratterizzano per una grande variabilità di situazioni in termini di “costo della vita” - sinteticamente raggruppate nelle consuete macro-aree Nord (talvolta Nord-Ovest e Nord-Est), Centro e Sud - con una evidenza empirica e statistica, in linea di massima, di diminuzione del parametro al calare della latitudine. In Italia, però, vige un sistema di retribuzioni rigidamente determinato in ambito nazionale: la materia è delegata alla contrattazione tra le parti sociali, a livello centrale, che partorisce una pletora di “contratti collettivi nazionali di lavoro”, i quali assumono, peraltro, valore di legge.
In passato – tra il 1946 ed il 1971 – non era così: proprio in considerazione del problema citato, era in vigore una differenziazione territoriale che determinava le retribuzioni in funzione della localizzazione, suddividendo il Paese in alcune zone (inizialmente 4, poi 14, infine 7), in seguito ad un accordo tra sindacato e Confindustria. Tale norma fu abolita - in seguito alle lotte portate avanti, in particolar modo, dalla CGIL – per opera di Giacomo Brodolini, ministro socialista proveniente dalle fila di quel sindacato e talvolta – ahimé – citato quale maestro da Renato Brunetta, forse senza ricordare – chissa? - le pesanti responsabilità del nostro (?) eroe in merito alla promozione di quella paradigmatica ed illiberale esemplificazione di rigida cultura anti-imprenditoriale che prese il magniloquente nome di “Statuto dei lavoratori”.
A prescindere dalla considerazione che ciò avvenne, probabilmente, perché quella stagione era esasperatamente sindacalizzata, rimane il fatto che il sistema allora in atto non funzionava. E non era in grado di funzionare, per i fini dichiarati, se solo si pensi che le differenze di costo della vita non possono essere ricondotte solo all'appartenenza regionale ma, del tutto evidentemente, sono fortemente influenzate anche dalla dimensione cittadina o rurale, dall'aspetto orografico, dalla tipologia economica prevalente, dalla connotazione turistica …... e da una miriade di altre specifiche situazioni, che poco o nulla hanno a che fare con le semplificazione per macro-aree.
Pare logico dedurne, allora, che la strada già inutilmente sperimentata non possa tornare ad essere battuta e che sia necessario trovare nuove opzioni per risolvere un problema, comunque, assai reale.
Abbandonando, dunque, la strana idea di una standardizzazione che fa a pugni con la realtà, formata da millanta singole situazioni, si direbbe opportuno prendere come stella polare la specifica situazione di ogni azienda, nella sua capacità di stare sul mercato in condizioni di redditività.Già, ma allora nessun senso può avere un contratto collettivo – nazionale o territoriale che sia – per sua natura incapace della flessibilita' necessaria. Lo scontro, però, è non solo con la perdita di potere - e relative rendite - che ne deriverebbe ad ogni sorta di sindacato, ma anche con quell'idea di lavoro come diritto – con corollario di “giusta (?) mercede” - che permea la cultura dominante, al punto che la stessa Carta fondamentale definisce lo Stivale una curiosa “repubblica fondata sul lavoro”, anziché, ad esempio, sulla libertà …..
In ogni caso, se si decidesse di prendere tale direzione – improbabile, in questo baluardo del socialismo reale all'amatriciana (meglio: alla puttanesca ...), si dovrebbe arrivare ad una sorta di contratto tailor made, cioè tagliato su misura per le singole posizioni, in grado di legare il corrispettivo economico al contributo reale di ciascuno alla creazione di valore per l'azienda.
L'obiezione fondamentale a questo tipo di approccio poggia, solitamente, su una base di solidarismo che vuole supportare i diritti degli “svantaggiati” (qualunque significato si voglia personalmente attribuire a tale termine), i quali otterrebbero condizioni retributive più misere in assenza di solido potere contrattuale, dal momento che i rapporti di forza sarebbero sbilanciati a favore della parte imprenditoriale. Tale ragionamento, però, è figlio del deleterio ed abituale prevalere culturale del “modello superfisso”, secondo il quale ogni questione economica è sempre e solo questione redistributiva: è evidente, invece, che l'aumento della convenienza ad investire in attività d'impresa favorisce nuovi insediamenti, con conseguente maggiore richiesta di forza lavoro, e maggiori salari. Anche nel caso esemplare del meridione d'Italia, la disoccupazione diminuirebbe – così come il lavoro nero, legato a doppio filo all'attuale ingessatura del mercato del lavoro – con benefici effetti sul reddito complessivo prodotto nel territorio. È il mercato, bellezza ….. verrebbe da chiosare.
In quest'ottica, pare piuttosto ovvio che compito di un esecutivo dovrebbe essere il miglioramento delle condizioni di appetibilità per gli investitori, tramite la riduzione del gap in termini d'infrastrutture e dell'influenza della criminalità organizzata che affliggono il Sud e, in generale, il mantenimento di una situazione di legalità, insieme all'efficienza di alcuni servizi inalienabili, quali la rapida e certa amministrazione della giustizia. Collateralmente, anche togliere lacci & lacciuoli alle libere professioni, semplificare gli adempimenti ed introdurre - pian piano, eh, senza fretta .... - concorrenza nella fornitura di servizi generali al territorio - che so, magari eliminando così gli enormi sprechi d'acqua dovuti alle perdite degli acquedotti, oppure garantendo quel trattamento dei rifiuti che i pletorici organici curiosamente non paiono in grado di fornire impeccabilmente .... - sembrerebbe compito da assumersi. Non, dunque, la determinazione dei livelli retributivi.
Una seconda obiezione, curiosamente portata alla proposta leghista ma non all'attuale sistema centralizzato, riguarda la generale insufficienza delle paghe – specie alle qualifiche inferiori - delle quali sarebbe necessario aumentare il potere d'acquisto, piuttosto che discutere del livello di contrattazione. Questo è tutt'un altro argomento, che ha poco a che fare con il tema in discussione. Il tema è ancora quello del cosiddetto cuneo fiscale, cioè della differenza tra stipendio netto e costo per l'impresa: non v'è che ridurre il prelievo fiscale e contributivo, ma occorre trovare risorse che certamente non possono venire da demagogici aumenti delle aliquote sui redditi oltre un qualsivoglia importo, come più volte proposto da chi nulla capisce delle dinamiche economiche e – si direbbe – poca dimestichezza ha con la banale aritmetica. Qui, le alternative non sono moltissime: a fronte di una riduzione delle entrate fiscali va abbassata la spesa pubblica corrente, formata da stipendi e pensioni. Quindi, nuovo sistema previdenziale a regime da subito – che, tanto, è decisamente anomalo rispetto alle medie europee e la sua immediata riforma rappresenterebbe un'equa misura – e snellimento della macchina amministrativa. Non è il caso, peraltro, di affrontare a fondo anche questo argomento, hic et nunc, per non allargare troppo il discorso. Ancora una volta, invece, è opportuno ricordare che il potere d'acquisto si difende anche riducendo le tariffe dei servizi fondamentali, ch'è come dire alla politica di tener giù le mani dall'economia: vale ovunque, peraltro, anche in quel Nord dove li gestisce pure quella Lega che - son parole del ministro Zaia - è contraria alle liberalizzazioni per timore di colonizzazioni da parte di fantomatici "forestieri". Venissero persino i venusiani, a fornire acqua ed energia .......... chissenefrega, se l'efficienza fosse superiore!
Tornando ai livelli retributivi, è stato fatto correttamente notare che differenze tra Nord e Sud già ci sono, in dipendenza del fatto che le grandi e medie aziende – meglio strutturate e più moderne, quindi dotate di personale con caratteristiche mediamente più elevate – sono collocate in gran parte a settentrione. Ma la grave situazione occupazionale del meridione (perlomeno quella ufficiale ….) rimane chiaro indice di inadeguatezza alle necessità dell'economia locale: se un lavoratore costa più del valore che produce, non ci son santi …. Inoltre, salta agli occhi un problema di non poco conto: la pervasiva presenza della mano pubblica nell'economia – con il rilevante numero di lavoratori caratterizzati da retribuzioni uguali a Trieste come ad Enna, passando per metropoli e villaggi agresti, e la sicurezza del posto di lavoro per la vita - costituisce un'anomalia gravemente distorsiva delle condizioni sul campo. Già ora, infatti, tale fenomeno ha grande evidenza nell'assalto ai posti disponibili. Come intervenire, allora? Bollando come realisticamente irrealizzabile la soluzione ottimale - che consisterebbe nell'affidamento al mercato di ogni possibile attività, per ridurre ai minimi termini le distorsioni introdotte dalla mano pubblica - si potrebbe immaginare un futuro federalismo compiuto, nel quale le singole amministrazioni siano responsabili delle proprie spese, con risorse ad esse destinate raccolte nel territorio di riferimento, e perciò da utilizzare con oculatezza. Tra l'altro, la seconda ipotesi non escluderebbe la prima (il mercato) ma, anzi, potrebbe favorirla, dal momento che dalla superiore efficienza conseguirebbero minori costi e, quindi, imposte più lievi. In tempi ravvicinati, invece (con il mercato che determinasse, nel modo discusso, i salari privati), un'ipotesi provocatoria ma percorribile potrebbe riguardare un livello di retribuzioni pubbliche guidato dal confronto – su base comunale o, comunque, sufficientemente ristretta da risultare omogenea – con quanto pagato dalle imprese.
Rimane brevemente da considerare ciò che il governo sta facendo – per giudicare ciò che promette fare, pragmaticamente, sarà bene ispirarsi al mitico San Tommaso ed attendere concretezza, dopo gl'immancabili annunci. Passiamo a valutare quindi le azioni che i ministri Sacconi e Tremonti sostengono di aver intrapreso, al fine di risolvere il problema in esame e, più in generale, la difficile situazione economica che, insieme alle richieste di fondi provenienti dal Sud, ha suggerito alla Lega di aprire questo fronte.
Premessa d'obbligo: mai, da altri esecutivi, il mondo produttivo - ed in particolare la piccola impresa - aveva ottenuto l'attenzione di oggi, su iniziativa costante e pressante della PI confindustriale. Ciononostante non basta e non risolve. È pur vero, infatti, che la modesta detassazione (e decontribuzione) del salario variabile (legato al risultato), insieme alle minime condizioni agevolative per la capitalizzazione delle imprese, aggiunte alla mirata detassazione dell'investimento in attrezzature ed alle misure atte a favorire l'accesso al credito, raggiungono un risultato globale non del tutto disprezzabile. Ma, a prescindere dalla provvisorietà e dalla selettività di alcune norme e dall'aspetto di alchimie contabili di altre, è l'ottica complessiva a non essere corretta. Siamo sempre in presenza di una gentile concessione del principe, timoroso della piazza. Le recenti misure son state varate in reazione al probabile scenario di ordine pubblico conseguente ad un forte incremento della disoccupazione. Non si modifica la concezione dominante che non vuole considerare bene primario la libera iniziativa, sgravata da vincoli insulsi e mirati solo a mantenere il cosiddetto “primato della politica”.
L'ambiente culturale, insomma, rimane il socialismo. Immancabilmente etico e dirigista: d'altra parte, non sia mai che si cada preda dei deleteri effetti di un "mevcatismo" privo d'afflato spirituale.
Amen.
Mah! A parte altre connotazioni che si possono attribuire alla lega, è vero che hanno fiuto politico e sollevao questioni (di pancia) che piacciono al loro elettorato e non solo. Riconosco che questo ha un suo senso ed un suo valore. La capacità della lega nel'aver sollevato la questione salari al sud sta nel fatto che non ha intressi elettorali se non nel Centro-Nord, Chi ha peso elettorale nel Mezzogiorno è ancora peggiore oltre che corresponsabile dello sfascio. Insomma ogni buon demagogo è capace di questo. Né la lega né altri hanno però proposte credibili ed efficaci. Il guaio è questo. Quel che si sente e si legge anche da parte del governo anti-mevcatista è robaccia inutile e tipica di un qualunque gosplan scritto da gromyko.
luigi zoppoli