Ci scrive Davide Cetoloni, sulla Fiat (e altro):
.. la Fiat va in Serbia perchè gli costa meno produrre ..ok, per la Fiat va bene, ma per i suoi lavoratori Italiani ? .. e se tutte le grandi aziende ragionassero così, come farebbero gli Italiani a trovare un lavoro stabile in queste aziende ? [..]
vi prego, aiutatemi a capire!!! In questo mondo, giustamente o no, una grande azienda che deve competere a livello internazionale, per sopravvivere, sembra debba per forza andare in altri paesi dove la manodopera costa meno.. o, se è già in questi paesi, mantenere la manodopera a costo basso, e quindi far guadagnare poco ai suoi dipendenti .. cioè farli rimanere "poveri" ...
Perchè ??? Dov'è che sbaglio ..
E poi conclude col titolo di questo post
.. ci sarà un modo per far si che tutte le grandi aziende possano fare allegramente profitto e che la gente in Italia possa lavorare in santa pace ...e che tutti siano felici e contenti..
Allora, da dove iniziare? Dal "se tutte le grandi aziende ragionassero così, come farebbero gli Italiani a trovare un lavoro stabile in queste aziende?"
Infatti: se tutte le imprese ragionassero così, badando ai profitti, gli Italiani lavoro stabile (nel senso di immutabile) in quelle aziende non lo troverebbero. Ma la questione non sta nel modo in cui le imprese ragionano: se vogliono stare in piedi non hanno altra maniera di ragionare che quella. La questione è perché, ragionando così, le imprese non scelgono l'Italia (anche quelle che adesso stanno in Serbia, o altrove). Se lo facessero, il lavoro gli italiani lo troverebbero senza problemi. Per analogia: i consumatori vanno nei ristoranti con migliore rapporto qualità/prezzo (ragionano così), ma ci parrebbe assurdo che il ristoratore mediocre e carissimo dicesse: come fa un ristoratore a gestire un ristorante in questo paese?
Ma, continua Davide, allora "una grande azienda che deve competere a livello internazionale, per sopravvivere, sembra debba per forza andare in altri paesi dove la manodopera costa meno".
Questo no, non è vero. Non è vero perché la competizione tra imprese non si gioca solo sul costo della manodopera; chiamiamolo salario, come si faceva una volta. Innanzitutto, quello che determina la competitività relativa del mercato del lavoro in un paese è, semplificando, il rapporto produttività/salario, non il salario per sé (torniamo all'analogia del ristorante: il prezzo non è tutto, conta anche la qualità). La competitività dell'offerta di lavoro in un paese, da parte sua, dipende da molti fattori, a partire dalle rendite che i sindacati ottengono per i lavoratori occupati, fino alla rigidità dei contratti sul mercato del lavoro, e così via. Ma anche il rapporto produttività/salario non è tutto, perché il lavoro non è il solo fattore di produzione di una impresa, generalmente. E allora ecco che la qualità delle scuole che i lavoratori hanno frequentato, delle infrastrutture in cui opera l'azienda, incluso più in generale il sistema legale (certezza del diritto, giustizia civile), ... importano eccome. E importa anche il costo del capitale, che dipende dall'efficienza delle banche del mercato mobiliare ... e l'efficienza delle istituzioni a difesa dei diritti di proprietà dalle rapaci mani della mafia, e dei politici corrotti, ... Mi fermo, ci siamo capiti.
Tipicamente i paesi più sviluppati hanno salari più elevati a parità di produttività, perché i lavoratori godono di maggiori diritti (e/o rendite). Però tipicamente i paesi più sviluppati compensano questo svantaggio competitivo con migliori infrastrutture e servizi, istituzioni più efficienti, mercati del capitale più sviluppati,... Ma se il mercato del lavoro è protetto come in un paese sviluppato, ma le infrastrutture eccetera, non compensano, allora sì che le imprese ad alta intensità di lavoro emigrano. Et voilà l'Italie.
È questo un dramma irrisolvibile? Davvero non c'è un modo "per far si che tutte le grandi aziende possano fare allegramente profitto e che la gente in Italia possa lavorare in santa pace"? Ragioniamo con calma che il punto è delicato.
Prima di tutto, il fatto che le imprese ad alta intensità di lavoro emigrino è un vantaggio per i consumatori che ottengono beni a prezzi più bassi. Si tende a dimenticarlo, questo vantaggio, ma non si dovrebbe, è importante. Nel caso Fiat, i Serbi produrrebbero macchine, lavorando a salari che i lavoratori italiani non accetterebbero, e quindi vendendole a noi a prezzi inferiori a quelli che si otterrebbero se le producessimo noi stessi a Mirafiori.
Ma è vero che se le imprese ad alta intensità di lavoro emigrano, i lavoratori di queste imprese perdono il lavoro. Se estendiamo il ragionamento, tutta la capacità produttiva italiana finirebbe all'estero, in quei paesi il cui costo del lavoro è basso e/o la cui efficienza istituzionale è elevata. A questo punto, in sostanza: se tutto si produce fuori dall'Italia ai consumatori italiani noninteressa più che i prezzi siano bassi - non avrebbero soldi con cui comprarli questi beni perché sarebbero disoccupati in Italia! Questo argomento non è di Davide, ma è frutto di un errore comune cui conviene rispondere per chiarezza. [Ultimamente, in questo errore è incappato Giovanni Sartori sul Corriere, e poi anche il nostro Voltremont - facendo entrambi una figura meschina - qui Guido Tabellini "smaschera" l'errore dell'illustre politologo - la risposta a Voltremont è nel capitolo 3 del nostro libro] Riassumo qui la risposta, che è un classico dell'economia classica: i prezzi si aggiusteranno e anche noi produrremo qualcosa da vendere in cambio delle auto serbe. La spiegazione di Guido è chiara:
Supponiamo che il costo di produrre una maglietta in Cina sia pari a un ventesimo del costo italiano, e che il costo di produrre una lavatrice in Cina sia un decimo del costo italiano. In regime di libero scambio, l’industria cinese si specializzerà in magliette e importerà lavatrici dall’Italia. Ma come, si chiede Sartori, perché mai i cinesi dovrebbero comprare lavatrici dall’Italia, se possono produrle a un costo dieci volte inferiore? Perché per produrre lavatrici, i cinesi dovrebbero rinunciare a produrre magliette; e, dato il loro vantaggio comparato, questo proprio non gli conviene. È molto meglio per i cinesi produrre magliette, e con il ricavato comprarsi le lavatrici italiane.
Bisogna poi ricordare che queste situazioni di vantaggio comparato non sono immutabili nel tempo. Se in un certo periodo storico l'Italia, ad esempio, godeva di un vantaggio comparato a fare mobili, magliette e altre manifatture, in un periodo soccessivo troverà dei vantaggi comparati a produrre altro. Negli Stati Uniti, ad esempio, il settore manifatturiero è andato riducendosi (come valore aggiunto e numero di occupati) in modo pressocché continuo dagli anni settanta ad oggi. Al tempo stesso sono sorte e hanno avuto enorme successo altre imprese, in altri settori (basti pensare a Google, Microsoft, Amazon, eccetera). Le stesse "grandi aziende" di un tempo, per sopravvivere, devo continuamente reinventarsi e trovare nuovi "business models".
Torniamo al punto di Guido Tabellini. Non solo, dato il loro vantaggio comparato, è molto meglio per i cinesi produrre magliette, e con il ricavato comprarsi le lavatrici italiane; ma, in un certo senso, diciamo pure "in media" (anche se non è propriamente corretto), entrambi i paesi guadagnano dall'aprirsi ai mercati - anche se uno di essi perde la produzione delle imprese ad alta intensità di lavoro. Anche questo è un risultato classico - utilizzato da David Ricardo come munizione contro i dazi sulle importazioni di grano a meta ottocento in Inghilterra. Ma la "media" è una media, e c'è chi guadagna e chi perde. Nel caso della Fiat in Serbia, guadagna chi compra automobili Fiat e perde chi le produceva a Mirafiori. Il fatto che il paese guadagni "in media" significa che in principio si liberano risorse per compensare chi produceva auto a Mirafiori. Non è cosa facile, compensare chi perde. Per tante ragioni, ma certo si può fare molto meglio e molto di più di quanto non si faccia in Italia. L'incapacità di farlo (compensare, direttamente o indirettamente, chi ci perde) è un'altra conseguenza della carenza di efficienza istituzionale del paese - il cane si morde la coda.
Possiamo concludere quindi che se solo riuscissimo a costruire istituzioni che meglio proteggano i lavoratori che perdono lavoro in seguito all'emigrazione delle imprese tale emigrazione non sarebbe un dramma? In un certo senso sì. Ma solo in un senso molto parziale. Se sia un dramma o meno dipende infatti da quale situazione usiamo a mò di confronto. Capiamoci: il paese guadagna, date le condizioni del mercato del lavoro e delle istituzioni. Ma guadagni molto maggiori sarebbero possibili limitando le rendite sul mercato del lavoro e riformando il paese, le sue istituzioni, etc. Rispetto a una situazione in cui si limitino le rendite che i sindacati ottengono sul mercato del lavoro e/o si rifondi il paese alle radici (dalle autostrade al sistema giudiziario) la situazione presente è un dramma. Un dramma enorme!
Magari si potesse ovviare al dramma semplicemente fermando la Fiat imponendole di stare a Mirafiori, o facendo come abbiamo sempre fatto, e cioé sussidiandola perché stia a Mirafiori (o Pomigliano, o ...). Purtroppo questa strategia non solo non serve (ci andrà qualcun altro a produrre in Serbia e tutti noi compreremo le auto di questo qualcun altro - oppure compreremo Fiat pagando un premio in tasse, che i sussidi alla Fiat ben da lì vengono) ma fa anche male al paese. Fa male perché o la Fiat chiude comunque o sopravvive sui sussidi, il che significa che il paese paga più tasse (ricordiamoci che la Fiat, in questo argomento, rappresenta tutta l'industria ad alta intensità di lavoro) e quindi lavora meno e quindi produce meno e quindi.....
Non ci resta che piangere. Oppure limitare le rendite sul mercato del lavoro, riformare il paese, le sue istituzioni (incluso quelle a protezione dei lavoratori che perdono il lavoro),...
Un post davvero ottimo, bilanciato, logico, propositivo. Aveva davvero ragione Samuelson nel dichiarare la teoria del costo comparato come vera e non-trivial, per quanto spesso il secondo punto possa essere questionato, da chi è "del settore".