Undici son troppe
Frequentando l’università all’estero mi è capitato più volte di dover spiegare il sistema scolastico italiano a degli stranieri. E uno dei commenti più comuni è stato “voi studiate tantissime materie!”. Per l’esattezza undici nel mio ultimo anno, da quelle scientifiche a quelle classiche, dalle lingue morte a quelle vive. Studiare una gamma così ampia e varia di materie permette allo studente di ottenere una buona cultura generale, di cui ci vantiamo ad ogni buona occasione: possiamo tradurre le scritte in latino su antichi palazzi e utilizzare citazioni famose dal nostro amato latinorum, abbiamo una buona conoscenza della storia, possiamo fare da ciceroni nei principali musei europei, e al tempo stesso cavarcela con qualche conoscenza scientifica. Mi sono reso conto del buon livello di cultura generale che lo studente italiano può ottenere, confrontandomi con coetanei inglesi, neozelandesi, francesi e via discorrendo. Per quanto acculturati possiamo essere, e per quanto giovamento possiamo trarne, studiare undici materie differenti vuole dire non poter approfondirne più di tanto gli argomenti. Si può tirare la coperta degli orari un po’ di qua e un po’ di là, ma alla fin fine risulta sempre troppo corta per coprire tutto quanto. Quante volte è successo di arrivare a Maggio con l’acqua alla gola e professori che fan di tutto pur di portare a termine il programma, rendendone lo studio piuttosto superficiale. La soluzione non è allargare la coperta, aumentando le ore di scuola: la soluzione è rimodulare gli obiettivi rispetto agli orari che si hanno. Ottenere una conoscenza approfondita in undici materie semplicemente non è realistico. Focalizzare l’attenzione su un minor numero di materie negli ultimi due anni di istruzione superiore, lasciando libera scelta allo studente, è a mio parere la miglior soluzione.
L’utilità è relativa
I miei amici stranieri spesso si meravigliano quando svelo, un po’ con orgoglio e un po’ con rassegnazione, che ho studiato latino e greco per cinque anni. Vari miei compagni del corso di laurea (che è Philosophy, Politics and Economics), al liceo hanno invece frequentato corsi di matematica avanzata, statistica, economia o business. Chi è nella situazione migliore? La diatriba sull’utilità o inutilità dello studio delle lingue morte non verrà mai risolta definitivamente, specialmente in un Paese litigioso come l’Italia. Di sicuro però quei miei compagni di università hanno faticato molto meno nel primo anno di università. L’utilità di qualcosa non è assoluto, ma relativo alla situazione in cui ci si trova. Di sicuro non è una nostra scelta quella di vivere in un mondo che guarda all’economia più che alle scienze politiche, o di ritrovarci in un ambiente lavorativo in cui delle conoscenze classiche importa poco a pochi. Può piacerci oppure no, ma la situazione è questa. Risulta dunque evidente (almeno a me) che lo studio di materie come il latino e il greco sia al momento squilibrato rispetto allo studio di materie alternative: troppo prolungato e con un dispendio troppo alto di tempo e forze. Quante ore passate in compagnia di quei pesantissimi dizionari! Attenzione, questo non si traduce in “aboliamo il greco e il latino”. Lo studio di queste due lingue morte è difatti fortemente formativo. Il latino ci insegna come strutturare frasi e pensieri in modo logico e consequenziale, anche in periodi lunghi e complessi. Lo studio degli autori latini ci trasmette il concetto fondamentale della brevitas molto meglio di Twitter. Il greco è fondamentale per imparare a comprendere il sottinteso, il non detto. Per tradurre il greco è necessario sviluppare la capacità di ricondurre ad una struttura logica ciò che a prima vista sembra confuso e complesso. La letteratura greca e latina, infine, sono fonte di concetti e pensieri su cui si fonda la nostra cultura. Ho studiato al classico e ne ho visto i benefici. Ciò nonostante, fare spazio a nuove materie, almeno negli ultimi anni i liceo, mi sembra altrettanto importante.
Programmazione, questa sconosciuta
Nel primo anno di università, abbiamo iniziato ad utilizzare un programma di analisi statistica, che è stato per me fonte di varie (fin troppe) ore passate inutilmente a cercare di farlo funzionare. Mi ha salvato un mio compagno di corso tedesco: al liceo avevano imparato ad usare Stata durante le ore obbligatorie di programmazione. Anche il curriculum nazionale britannico prevede lezioni obbligatorie di programmazione, partendo dalla spiegazione degli algoritmi come una ricetta di cucina all’età di 5 anni, fino ad arrivare alla conoscenza di due lingue di programmazione e alla capacità di creare un proprio programma all’età di 14 anni. Anche io, certo, ho avuto esperienza nella programmazione: un corsetto sulla programmazione Java, inserito nell’orario di matematica, nel quarto anno di liceo. È già qualcosa: alla fine del corso eravamo capaci di creare una calcolatrice con le operazioni base. Ma, fatto con discontinuità e senza alcun peso sulle valutazioni, è stato più che altro un sassolino gettato nello stagno che ha smosso le acque per un po’ senza dare dei fondamenti duraturi. Si trattava inoltre di un progetto organizzato dall’istituto. Insomma, un privilegio derivante dal fatto di studiare in un liceo con buone risorse. Di certo molto diverso dall’inclusione della programmazione nel curriculum nazionale inglese, a cui tutte le scuole si devono attenere. La scuola italiana necessita di una forte spinta in più in questo campo. E attenzione, imparare a programmare non è solamente un ottimo asset nel momento in cui bisogna cercare lavoro. La programmazione insegna a pensare al modo in cui pensare, a strutturare pensieri e frasi in modo logico, e aiuta ad acquisire la “rinomata” capacità del problem-solving.
Gli istituti tecnici
Chi ha frequentato istituti tecnici potrebbe rispondermi: io ho studiato economia, io giurisprudenza, io programmazione. Tali materie però sono offerte solo in istituti tecnici, e non nei licei. Il problema dunque sorge dal fatto che l’istruzione presso istituti tecnici soffra di una cattiva reputazione. In parte meritata, in parte retaggio del modo in cui il sistema educativo italiano fu inizialmente concepito in epoca fascista. È difficile trovare famiglie che spingano i propri figli ad iscriversi ad un istituto tecnico. Quante famiglie invece premono per mandare i propri figli al liceo classico senza che il figlio abbia la ben che minima intenzione di studiare greco e latino! Alcuni istituti tecnici sono riusciti a scrollarsi di dosso questa reputazione, istituendo corsi avanzati e innovativi, aprendo interessanti collaborazioni con aziende e altri progetti simili. La maggior parte degli istituti tecnici, tuttavia, ancora soffre di questa problematica e fa poco per risolverla. Si perdono così grandi opportunità.
Antico o vecchio?
Quando mostro foto della mia scuola ai miei amici stranieri il commento è: “è un palazzo così antico!”. Antico o vecchio, dipende dai punti di vista. Aule che sarebbero completamente da ristrutturare, bagni nell’ala vecchia che sono semplicemente vergognosi, strumentazione nei laboratori di fisica e chimica che fa ridere, alcuni professori che ancora utilizzano la lavagna luminosa per lucidi, proiettori e televisioni da prenotare giorni prima perché ce ne sono in numero limitatissimo. Insomma, la famosa carta igienica che manca e i muri che perdono l’intonaco di cui tanto si parla. Certo, non è colpa dell’istituto in sé: “mancano le risorse”. Non stupisce: nel 2014, l’Italia ha investito sull’istruzione l’equivalente del 4% del PIL, sotto la media europea del 5%. Ma soprattutto ben al di sotto dei Paesi del Nord: Belgio, Finlandia, Svezia hanno speso tra il 6.3% e il 6.6% del PIL. La Danimarca il 7%. Francia e Regno Unito intorno al 5.5%. Ogni governo ribadisce la priorità del sistema scolastico, ma le parole non si traducono in azioni concrete.
Ce l’ha con me!
Alla fine di ogni bimestre, l’Università di Oxford manda dei moduli online da compilare. E finché non mandi le risposte continua a riempirti la casella postale di email. Sono i moduli di valutazione dei professori e dei loro corsi. Puoi dare un voto su tutto: l’esposizione del professore, l’uso di slide, il ritmo di studi, la disponibilità dei testi usati, la difficoltà delle lezioni e simili. In più ovviamente un campo libero per i suggerimenti. E non è finita, quei moduli non finiscono nel dimenticatoio: più di una volta la facoltà ha adottato cambiamenti sulla base delle risposte ricevute. Non succede solo a Oxford, ma è pratica comune in tutte le università inglesi e anche in numerose scuole. Idem in Nuova Zelanda, dove ho passato sei mesi del mio quarto anno di liceo. Nella mia intera carriera scolastica, ho avuto una sola professoressa che ci consegnava delle schede simili. Un buon esempio, ma di certo non una pratica diffusa. Anche amici in università italiane ricevono questi moduli, ma spesso non c’è un risvolto fattivo. Tale pratica non è utile solamente per risolvere le problematiche specifiche, ma aiuta anche ad instaurare un rapporto di arricchimento e rispetto reciproco tra professore e studente. In particolare, allo studente viene dato il modo di interloquire con il professore in modo costruttivo e responsabile. Si riesce così ad attutire (certo non eliminare) quella tendenza sempre più comune tra studenti e famiglie a dare la colpa al professore: “il prof mi odia”, “lei ce l’ha con nostro figlio” e via andare. Il risultato educativo non può che essere danneggiato dalla mancanza di un sistema di feedback.
Internazionalizzazione
Amo viaggiare, ho visitato numerosi paesi nel mondo, ho studiato sei mesi in Nuova Zelanda durante il liceo, studio in Inghilterra, e ho fatto uno stage a Shanghai. Molto di tutto ciò grazie alla mia famiglia, che mi ha sempre spinto a imparare bene l’inglese anche fuori dall’orario scolastico e che mi ha sempre sostenuto (anche dal punto di vista finanziario) nelle mie esperienze internazionali. Studiare per un certo periodo all’estero durante il liceo sta diventando sempre più diffuso in Italia, il che è sicuramente un bene. Ma tale diffusione generalmente non sta avvenendo grazie alle scuole, ma alle famiglie. Anzi, le scuole spesso fissano paletti e agiscono da freno a tali esperienze, contrariamente a ciò che dovrebbero fare. Esperienze come queste sono assolutamente formative, magari non tanto dal punto di vista strettamente curriculare, ma certamente dal punto di vista della crescita personale dell’individuo. La mancanza di una spinta all’internazionalizzazione da parte della scuola si ripercuote anche sul dopo. Nella mia classe di 20 persone, sono stato l’unico a scegliere di studiare all’estero per la triennale. Dei miei amici italiani, nessuno ha intrapreso un’esperienza di stage, né tantomeno di stage all’estero. Al contrario, numerosi miei amici inglesi, tedeschi, coreani etc. si sono imbarcati in uno stage lavorativo all’estero durante l’estate, in un’esperienza di volontariato nel “Terzo Mondo”, o simili. Viaggiare, vivere, studiare e lavorare all’estero anche solo per un breve periodo apre la mente e ci arricchisce come persone. La scuola italiana dovrebbe incitare maggiormente i propri studenti in tali esperienze, piuttosto che provare a farli desistere.
Male, ma non malissimo; bene, ma non benissimo
C’è chi si copre gli occhi col prosciutto e non ammette le problematiche presenti. C’è chi è pessimista di natura, e non riesce a vedere gli aspetti positivi della situazione. Non penso di essere né l’uno, né l’altro. Il sistema educativo italiano presenta delle gravi carenze, che devono essere affrontate con urgenza. Strutture fondamentali fortemente carenti e investimenti per migliorarle insufficienti; una profonda mancanza di specializzazione nelle materie studiate e la grave assenza di materie alternative come economia, statistica e simili; la bassa attenzione alle nuove tecnologie e ai nuovi campi di studio come la programmazione informatica; le opportunità mancate nella valorizzazione degli istituti tecnici; un rapporto professore-studente sempre meno rispettoso. Tutti questi fattori pesano come un macigno sul sistema scolastico italiano e sui risultati che ottiene a livello internazionale. Allo stesso tempo, però, gli studenti italiani hanno l’opportunità di ottenere un bagaglio culturale estremamente ampio e formativo, anche tramite lo studio di materie che vengono considerate “inutili” nel mercato del lavoro; e alcuni istituti riescono a trovare le risorse per creare programmi didattici innovativi in nuovi campi di conoscenza. In poche parole, male ma non malissimo, bene ma non benissimo. La necessità e la possibilità di migliorare il sistema educativo ci sono; la volontà?
Uno dei primi programmi che scrissi da ragazzo servivava a riconoscere un verbo greco ed a coniugarlo.
Lo scrissi all'inizio della IV ginnasio. Messo di fronte ai primi verbi, mi dissi che questi Greci erano pazzi. Per evitare di impazzire anch'io, pensai di scrivermi un programma per fare il riconoscimento e la coniugazione al posto mio.
Ci impiegai quanto i miei compagni a passare dal presente all'imperfetto. Io nel frattempo mi ero riletto il libro di grammatica una decina di volte, ed il mio programma aveva una white list per gli irregolari, e coniugava presente, aoristo, futuro, perfetto, in indicativo, congiuntivo ed ottativo.
Una volta completato, in realtà lo usai pochissimo, perché mi resi conto che nello scrivere il programma, ero diventato un esperto nel dominio applicativo, a metà primo quadrimestre sapevo coniugare e riconoscere i verbi greci come i miei compagni non avrebbero saputo fare nemmeno in III liceo.
Stiamo parlando di quasi 30 anni fa. 30.
Se si poteva coniugare 30 anni fa lo studio del Greco con la programmazione, completamente da autodidatta (sia in Greco che in programmazione), immagino sia possibile farlo molto più facilmente anche oggi. Basta volerlo.