Vale la pena esaminare in dettaglio i contenuti e le motivazioni di questa sentenza, soprattutto per evitare una rappresentazione manichea che vorrebbe Governo e Corte Costituzionale contrapposti, il primo impegnato a riformare il paese e contenere la spesa pubblica, l'altra pronta a demolire i pur modesti risultati di questo impegno sulla base di ragionamenti giuridici formalisti e privi di razionalità economica.
La sentenza nasce dall'unione di diverse questioni di legittimità sollevate da diversi giudici (si tratta in particolare del Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, della sezione giurisdizionali per la Regione Emilia–Romagna e per la Regione Liguria della Corte dei conti) i quali, trovandosi a giudicare circa richieste di condanna dell’INPS alla corresponsione dei ratei di pensione maturati e non percepiti nel biennio 2012-2013, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma in oggetto, hanno ritenuto necessario rimettere alla Corte Costituzionale la decisione sui profili di incostituzionalità eccepiti. Poiché “i giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti”, la Corte ha deciso innanzitutto di riunirli e di pronunciarsi in merito con un’unica sentenza. Tutti i giudici rimettenti avevano ritenuto che l'illegittimita' costituzionale del blocco della perequazione contenuto nella riforma Fornero, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, avrebbe contrastato il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati [per i giuristi: il comma 25 dell’art. 24 sarebbe stato costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione.
I giudici, inoltre, avevano ipotizzato che la norma censurata avrebbe violato anche gli artt. 2, 23 e 53 della Costituzione, poiché, nel caso di specie, “indipendentemente dal nomen iuris utilizzato”, ossia al di là della forma in cui il provvedimento era stato formulato, la misura di azzeramento della rivalutazione automatica avrebbe configurato una prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Imponendo alle parti di concorrere alla spesa pubblica in una misura non ancorata alla loro effettiva capacità contributiva, la norma avrebbe dunque violato il principio di eguaglianza. (Questo e' lo stesso meccanismo che la Corte ha utilizzato nell'ottobre 2012 per pronunciarsi contro i tagli agli stipendi dei magistratii e dei dipendenti pubblici in generale; ne abbiamo discusso qui e qui settore pubblico). Uno solo dei giudici rimettenti aveva richiesto la censura della norma anche con riferimento all’art. 117, primo comma della Costituzione, in relazione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e richiamando, infine, gli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Che cosa ha deciso la Corte rispetto alle questioni sollevate? Riassumiamolo brevemente e con chiarezza. Con la sentenza n.70/2015 la Corte Costituzionale ha stabilito che:
1. La norma riguardante il blocco della perequazione non ha carattere tributario, poiché essa non contempla quegli elementi che la Corte, con giurisprudenza costante, ha chiarito essere indefettibili alla fattispecie tributaria. Affinché un obbligo normativo possa essere considerato un tributo “la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto contrattuale; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese”. Un tributo consiste essenzialmente in un “prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva” (sentenza n. 102 del 2008); e, poiché il blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico e poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa, la norma non possiede i requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali imposte e non può pertanto essere censurata per una violazione del principio di uguaglianza o dei principi di progressività e capacità contributiva.
2. La questione di costituzionalità sollevata con riferimento all’art.117 della Costituzione ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è infondata perché il giudice che l’ha sollevata non ha fornito alcuna motivazione adeguata in proposito, limitandosi a evocare dei parametri costituzionali “senza argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione”.
3. La norma configura invece una violazione dei principi sanciti agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma della Costituzione. La Corte ricostruisce la logica alla base del provvedimento che ha introdotto il meccanismo di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, dando attuazione al disposto dell’art.36 della Costituzione (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.”) e dell’art.38, secondo comma (“I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”) ed evidenzia come l’adeguatezza del trattamento pensionistico a garantire dignità di vita e protezione del cittadino non più in grado di provvedere a sé con il lavoro non può prescindere da un meccanismo che tuteli tale trattamento dall’erosione causata dalle dinamiche inflattive. Quindi la Corte ricostruisce la successione dei provvedimenti che nel corso del tempo hanno implementato e poi modificato tale meccanismo, soffermandosi in particolare su quelle norme che in tempi recenti hanno stabilito alcune temporanee sospensioni o riduzioni della perequazione automatica. Queste norme sono state tutte oggetto di un vaglio di costituzionalità e la Corte sottolinea come in ogni singolo caso essa si sia espressa rigettando le questioni di incostituzionalità e riconducendo la legittimità dei provvedimenti alla naturale discrezionalità di cui il legislatore gode nello stabilire i mezzi e le forme del contenimento della spesa pubblica. In particolare, la sentenza richiama il precedente del giudizio espresso con sentenza n. 316 del 2010 circa l’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007. In quel caso, il legislatore aveva stabilito di azzerare per la sola annualità 2008 la rivalutazione dei trattamenti pensionistici particolarmente elevati, superiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Tale misura era stata valutata dalla Corte come ragionevole e conforme al dettato costituzionale perché rispettosa del principio di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni e perché “finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2008”. In quell’occasione, tuttavia, la Corte aveva espresso un monito al legislatore affinché tenesse conto nei provvedimenti futuri del fatto che una sospensione a tempo indeterminato ovvero una frequente reiterazione del blocco della perequazione avrebbe prodotto effetti cumulativi in conflitto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità, poiché anche trattamenti di importo elevato avrebbero potuto finire col non essere sufficientemente difesi dall’inflazione. La motivazione con cui la Corte ha censurato la norma del governo Monti è dunque da ricercarsi nell’aver ignorato questo monito e nell’aver reiterato una misura una tantum di blocco della perequazione senza tenere conto del suo conflitto con gli obblighi posti dagli artt.36 e 38 della Costituzione e addirittura senza fornirne un’adeguata motivazione. Nel caso della norma in oggetto, infatti, il legislatore si sarebbe limitato a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza lasciare emergere dal disegno complessivo della riforma la necessità della “prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), la Corte osserva, “non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196”.
Sulla base di queste ragioni, dunque, a differenza che nei casi analoghi precedenti, la Corte ha stabilito l’incostituzionalità della norma con gli effetti sugli equilibri della finanza pubblica che tutti abbiamo ora davanti agli occhi.
A ben leggere la vicenda, la Corte, richiamando esplicitamente la lunga giurisprudenza con la quale ha dato costante sostegno agli interventi di contenimento della spesa pubblica fatti a danno delle pensioni, ha voluto sottolineare con questa sentenza come la specifica norma oggetto di censura abbia segnato il superamento di quei limiti di ragionevolezza che devono sostenere ogni produzione legislativa che voglia essere conforme alla Costituzione.
Ma il concetto di ragionevolezza è per sua natura assai sfumato e sottoposto ad ampi margini di discrezionalità interpretativa. Questa discrezionalità conferisce alle decisioni della Corte una natura intrinsecamente politica. Non e' quindi completamente astruso l'argomento di ritiene di poter utilizzare la natura politica delle decisioni per accusare la Corte di svolgere un’opera di rallentamento dell’azione riformatrice. Piu' in generale le sentenze dell’alta corte, anche quando non implicano valutazioni di ragionevolezza, hanno sempre una natura politica. Ce l’hanno perché la Corte è un organo elettivo e dunque per essenza la sua natura è politica. Ma ce l’hanno soprattutto perché lo spazio nel quale la norma viene interpretata e coniugata in riferimento alle concrete necessità del momento storico, alle concrete tensioni e sensibilità che emergono nella società in ciascun momento storico, è per definizione uno spazio politico.
In principio, cautela e' dovuta in questi giudizi per il fatto che l’aggettivo ‘politico’ designa in questo contesto la necessità inaggirabile del fatto che in ogni sistema giuridico in quanto tale (nei sistemi di civil law come quello italiano ed ancor più in quelli di common law come quello americano) l’attività normativa viva di una naturale elasticità che la renda adeguata ai dati della fattualità storica. La natura politica delle sentenze costituzionali non implica dunque, dal punto di vista concettuale, né la loro arbitrarietà né la loro subordinazione strumentale a forzature interessate del dettato costituzionale.
Detto questo, pero', guardando agli aspetti meramente numerici della cosa, resta il fatto che con due diverse sentenze la Corte ha deciso che il blocco della perequazione automatica delle pensioni superiori ad otto volte il minimo per il solo anno 2008 (un anno che ha visto un’inflazione misurata dall’ISTAT con l’indice IPCA al 3,5%) fosse ragionevole mentre il blocco della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre volte il minimo per le annualità 2012 e 2013 (anni per i quali l’inflazione rilevata è stata rispettivamente del 3,0% e del 1,2%) non lo sia.
E quindi si può lecitamente chiedere: sulla base di quali argomenti quantitativi è stata fissata questa soglia di ragionevolezza? Sulla base di quali considerazioni statistiche si è ritenuto di misurare il danno sociale arrecato dalle due distinte misure?
E si potrebbe forse spingere questo ragionamento fino ad esigere dalla Corte che, in materia di valutazione di provvedimenti economici sotto il profilo della ragionevolezza, le decisioni siano assunte sulla base di argomentazioni ben fondate nella teoria e di valutazioni che tengano conto anche del costo sulla finanza pubblica della mancata adozione dei provvedimenti oggetto di censura e delle stesse pronunce di incostituzionalità. Questo significherebbe pero' accrescere enormemente il senso politico delle sentenze costituzionali, azzerando di fatto la differenza di ruolo e di prospettiva tra Legislatore e Consulta, la cui dialettica invece garantisce al sistema stabilità ed
equilibrio. La questione si presenta quantomeno complessa.
La rappresentazione manichea che vorrebbe la politica impegnata a riformare il sistema ed in questo ostacolata da organi costituzionali arroccati a difesa dello status quo con motivazioni formaliste e prive di congruenza economica, per quanto ovviamente semplicistica e anche populista, potrebbe apparire supportata dal confronto tra la sentenza in oggetto e varie altre sentenze passate riguardanti aumenti invece che tagli alla spesa pubblica. La corte è intervenuta infatti molteplici volte sulle norme che disciplinano la finanza pubblica; un ottimo quadro riepilogativo della giusrisprudenza in materia e' rinvenibile qui. Ad esempio, con la sentenza n.1/1966 (e successivamente con numerose altre pronunce), la Corte, interpretando estensivamente la previsione dell’art.81 (nella formulazione vigente all’epoca) ha stabilito:
i) la legittimità costituzionale delle leggi di spesa prive di copertura degli oneri futuri;
ii) che l’obbligo del legislatore ad indicare i mezzi con cui fronteggiare nuove e maggiori spese non comporta, per le spese che impegnano più esercizi finanziari, la necessità che queste siano indicate nel bilancio di previsione negli esatti termini e nell’esatto importo con la corrispondente puntuale copertura, in quanto è possibile, in questi casi, effettuare il riscontro nei bilanci dei vari esercizi finanziari;
iii) che è consentita la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l'inasprimento di tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l'accertamento formale di nuove entrate, l'emissione di prestiti e via enumerando, anche alla previsione di maggiori entrate.
Come è noto, questi pronunciamenti sono stati considerati come un’autorizzazione de facto al parlamento ad aggirare il dettato dell’art.81 e a prevedere spese coperte soltanto da entrate future (la cui incertezza oggettiva la stessa Corte ha peraltro riconosciuto) e quindi come la legittimazione all’aumento indeterminato del debito pubblico.
Un punto politico assai importante è per me il seguente: pronunciamenti analoghi saranno possibili anche rispetto al nuovo art.81 introdotto con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1. Sebbene tale articolo, prevedendo il cosiddetto “pareggio di bilancio”, abbia superato la giurisprudenza in materia di indebitamento delle sentenze sopra richiamate, sono convinto che sia ancora possibile che futuri provvedimenti assunti nel quadro dei principi del nuovo art.81 possano essere vanificati da sentenze della Corte che, poggiandosi sull’elasticità del dettato, diano fondamento costituzionale ad una sua interpretazione non letterale e stringente.
Al netto di ogni considerazione politica, ci sono senza dubbio varie lezioni che si possono trarre da questa sentenza, proprio nell'interesse di chi intende promuovere e difendere significative modifiche delle dinamiche della spesa pubblica:
1. Nel giudizio della Corte vi è un’implicita censura del degrado a cui la tecnica legislativa sembra essere sottoposta da molti anni ormai. Può sembrare una questione marginale riservata a burocrati ed addetti ai lavori ma non lo è affatto. Il problema dell’oscurità, della farraginosità, dello scadente apparato tecnico argomentativo con cui vengono elaborate le norme è un grande tema per i veri riformatori: l’effettiva capacità di implementare qualsiasi riforma e qualsiasi intervento governativo, condiziona la qualità della democrazia, cioè la qualità del rapporto fondamentale tra cittadini e stato, che è mediato dalla norma. Ogni funzionario pubblico impegnato a dare concreta attuazione alle leggi e ad utilizzare gli strumenti attraverso cui governo dopo governo da diversi anni si decide di “riformare” la macchina amministrativa e della spesa pubblica (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle più recenti innovazioni in materia di fatturazione elettronica, certificazione dei crediti, dichiarazione dei redditi precompilata, riassetto delle competenze delle province, digitalizzazione dell’attività amministrativa ecc…) può testimoniare a favore della scadente qualità dei testi normativi, che di fatto spesso, con l’intenzione di “semplificare” il sistema, ne accrescono esageratamente la complicatezza e il disordine (di buone intenzioni, si sa, è lastricata la via che conduce all’inferno…).
2. La sentenza afferma con chiarezza che il blocco della perequazione automatica è un intervento che non ha natura tributaria e quindi non può incorrere nel pericolo di una
violazione del principio di uguaglianza. È un’affermazione importante, che può suggerire molto ai tecnici preposti ad escogitare soluzioni al problema del contenimento della spesa pubblica tali che non risultino incostituzionali ad un successivo vaglio.
3. La sentenza, coordinatamente alla precedente giurisprudenza della Corte, rivela con chiarezza che il tipo di irragionevolezza che può determinarne la sostanziale
incostituzionalità degli interventi normativi è fortemente connessa alla loro mancanza di progressività ed al loro carattere estemporaneo. Il monito espresso nel 2010 dalla Corte invitava chiaramente il governo a non reiterare misure una tantum i cui effetti cumulativi avrebbero di fatto contraddetto le prescrizioni degli artt.36 e 38 della Costituzione. Si può leggere questo monito - oggi rafforzato dalla sentenza 70/2015 - come un limpido invito a non incidere nella sfera dei diritti soggettivi con misure estemporanee, dettate da generiche necessità di quadratura contabile, ma a sviluppare una visione chiara organica e coerente della materia previdenziale, nella quale le esigenze (anch’esse costituzionalmente tutelate) di contenimento e buona gestione della finanza pubblica siano ben coordinate con i diritti sanciti dagli artt.36 e 38. Anche qui c’è tanta materia per le strutture tecniche preposte alla concreta elaborazione delle riforme ma c’è soprattutto un’importante indicazione metodologica data al legislatore e dunque alla politica: l’indicazione della necessità di fare interventi sistemici che riformino la situazione esistente tenendo conto dell’effettiva complessità delle relazioni che sussistono tra tutte le componenti e le dinamiche del sistema.
Ma la lezione politica principale da trarre da questa vicenda è che solo una chiara inequivocabile e forte espressione della volontà politica alla base delle norme può difenderle da interventi di censura. Questa chiarezza di intenti deve esprimersi innanzitutto attraverso la qualità del processo legislativo. Il rigore del procedimento legislativo, deve rendere la volontà del legislatore chiara inequivocabile e ben fondata nei principi dell’ordinamento. Solo subordinatamente a questa necessità la politica potrebbe valutare anche l’opportunità di una modifica costituzionale che vincoli la Corte ad interpretazioni del testo costituzionale di tipo più originalist (per usare una formula tipica del dibattito giuridico americano) e riduca dunque il margine di discrezionalità della sua attività interpretativa.
Come si può dedurre dagli art. 3 e 36, primo comma e 38 secondo comma, che un blocco della rivalutazioni di pensioni superiori a tre volte il minimo sia incostituzionale?
Scusate, se non rivalutando queste pensioni, esse non assicurano più un'esistenza libera e dignitosa, non garantiscono più mezzi adeguati eccetera eccetera, a maggior ragione non sono in grado di farlo le minime, quelle tre volte inferiori, che quindi dovrebbero essere immediatamente triplicate.
Quegli articoli della Costituzione sono dettati per la protezione dei più deboli, che può essere attuata da istituti come la paga oraria minima o la pensione minima.
Quella di volerli applicare alle pensioni di benestanti oppure addirittura a quelle d'oro è semplicemente, come giustamente è stato detto, una pagina vergognosa della corte costituzionale, che si può riassumere in questo semplice modo: abbiamo la possibilità di prenderci questi soldi e ce li prendiamo
E' auspicabile una riduzione di prerogative discrezionali della Corte Costituzionale? E poi cosa rimane alla democrazia per bilanciare il potere del governo, il Papa o il viaggio a Lourdes?
Resta tuttavia lo sbigottimento di fronte all'apparente follia del pronunciamento. Cos'è: il fuoco amico? Se di pronunciamento politico si deve supporre, la sua relativa finalità generale sfugge al ragionamento, e vengono in mente solo scenari da film di spionaggio, dove l'agente 007 opera per un fine forse buono o forse cattivo ma sconosciuto al resto del popolo perché implica i rapporti tra le superpotenze e anche gli ufo se possibile. Che ne so: gliel'ha ordinato la Merkel che ha deciso di sbarazzarsi dell'Italia, con la benedizione di Obama? E cosa di meno se no, rispetto alla sfrenata fantasia? Oppure invece si tratta di una deformazione professionale del giurista che, ignaro del mondo e preso nella rete della sua disciplina, cavilla sulle parole in modo forbito ma sconsiderato? È espressione forse della pochezza italica in generale, che di fronte ad un filo di ripresa e all'altrettanta leggerezza del governo sull'esistenza dei tesoretti, corre ad accaparrarsi il primato della generosità prossima ventura? Vogliono mettere in difficoltà il governo sotto elezioni facendo brillare una bomba atomica! Renzi sotto sotto è d'accordo! Ed ecco che si torna al film di 007.
Boh?!
Sembrano tutti matti comunque! E, loro malgrado, ce li dobbiamo pure tenere, però.
Sono un pensionato (non certo un super-pensionato!) che verrebbe avvantaggiato dalla sentenza, ma mi trovo d'accordo con quanto scrive Pigi. Certo : è sempre meglio ricevere un po' di più, ma questa misura retroattiva, costringerà comunque a prendere provvedimenti economici per coprire il "Buco" .... provvedimenti che danneggeranno tutti, anche chi sta peggio di me. A questo punto, penso che, invece di far retorica sulla solidarietà, sarebbe ora che coloro che possono siano disponibili a qualche piccolo sacrificio per il bene comune.... con qualche decina di euro in più o in meno al mese, sopravvivo lo stesso .... e se questo può servire ad uscire dalla crisi mi sta bene. La sentenza mi sembra stupida e nociva: diverso sarebbe stato se avessero deciso l'abolizione della norma dal 2016 senza retroattività. O no?