È opportuno fare una premessa, visto che io sono un beneficiario della sentenza. Con questo articolo voglio semplicemente spiegare qual è la questione e quali sono le conclusioni che ha tratto la Corte, al di là di qualsiasi valutazione di merito.
La sentenza è molto lunga (nel file utilizzato da me sono 33 pagine, scritte con interlinea 1). In realtà, per chi volesse leggerla, diventa interessante solamente a partire dal punto 11 della motivazione che, nel file utilizzato per il commento, si trova a pag. 25. Fino a pag. 25, punto 10 incluso, la motivazione si dilunga nell’analisi dei motivi di rimessione sviluppati dai vari giudici amministrativi di numerose regione italiane. Questa parte si può tranquillamente saltare a piè pari anche perché i motivi, nella sostanza, sono più o meno simili.
Prima di tutto, per comprendere bene la questione è necessario fornire alcune spiegazioni sulle modalità di determinazione degli stipendi dei magistrati. Un primo principio in materia è stato sancito fin dal 1978 dalla Corte Costituzionale stessa. Secondo tale principio, corollario e garanzia dell’indipendenza del giudice è la percezione di uno stipendio “adeguato alla quantità e qualità del lavoro prestato, ma anche certo e costante e, in generale, non soggetto a decurtazioni tanto più se periodiche e ricorrenti”. Effettivamente è abbastanza intuitivo che un giudice che guadagna poco è un soggetto potenzialmente corruttibile, tanto che il principio viene ribadito anche nella c.d. Magna Carta dei Giudici approvata a Strasburgo dal Consiglio d’Europa, per cui, al punto sotto la voce Garanzie di indipendenza si dice
Il giudice deve beneficiare di una remunerazione e di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al riparo da ogni indebita influenza.
Senonchè vi è da domandarsi quale sia il parametro, ovvero quando lo stipendio debba ritenersi “adeguato”. Prima dell’intervento legislativo bocciato dalla Corte, il legislatore considerava adeguato uno stipendio che, a partire dai 12 anni di carriera, superi i 90.000,00 euro lordi.
Altro elemento di cui bisogna tenere conto quando si parla delle retribuzioni dei magistrati è costituito dal principio per cui essi, ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo n. 165/2001 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), come i militari, i diplomatici ed i professori universitari sono una categoria “non contrattualizzata”, cioè una categoria per la quale non esiste una contrattazione collettiva. Per quanto riguarda i magistrati, tale circostanza viene giustificata con l’argomento per cui essi rappresentano il terzo potere dello Stato e, quindi, non è opportuno che debbano “chiedere” agli altri due poteri eventuali aumenti di stipendio attraverso la contrattazione collettiva che può, all’occorrenza, essere anche conflittuale. Dunque, al fine di garantire che gli stipendi non vengano erosi dall’inflazione, è stato introdotto un meccanismo chiamato di “adeguamento automatico” per cui i magistrati percepiscono, con cadenza triennale, degli aumenti calcolati sulla base della media degli aumenti percepiti da tutte le categorie del settore pubblico (art. 2 Legge 19 febbraio 1981, n. 27). Anche questo viene visto come un corollario del principio di indipendenza del Giudice.
Scrive la Corte al punto 11.4, pag 26, della sentenza:
“…l'indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche mediante <<l'apprestamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni, concernenti, fra l'altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico>> (sentenza n. 1 del 1978). La sentenza n. 238 del 1990 ha delineato la funzione dell'adeguamento triennale e dei meccanismi rivalutativi della retribuzione dei magistrati, affermando che, <<In attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il profilo economico (...) evitando tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il legislatore ha col citato art. 2 predisposto un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati che, in quanto configurato con l'attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo>>…
Ed ancora, sempre al punto 11.4, pag. 26
Per questa ragione, attraverso un meccanismo di adeguamento automatico del trattamento economico dei magistrati, la legge, sulla base dei principi costituzionali, ha messo al riparo l'autonomia e l'indipendenza della magistratura da qualsiasi forma di interferenza, che potesse, sia pure potenzialmente, menomare tale funzione, attraverso una dialettica contrattualistica. In tale assetto costituzionale, pertanto, il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come ordine autonomo ed indipendente, eccede i connotati di un mero rapporto di lavoro, in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo essere parte e regolatore di tale rapporto.”
Infine, tra le voci stipendiali dei magistrati rientra anche la c.d. “indennità giudiziaria”. Si tratta di un importo fisso che tutti i magistrati percepiscono in misura eguale, cioè a prescindere dal grado di carriera che, stando al legislatore, viene corrisposta in relazione agli oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività (art. 3, comma 1, Legge 19 febbraio 1981, n. 27). Secondo la Corte essa costituisce “compenso all'attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell'apparato della giustizia” (punto 12.4 della sentenza). Senonchè, non si comprende come mai l’indennità in questione venga percepita anche da coloro che operano in uffici in cui le gravi lacune organizzative non ci siano ovvero in uffici in cui, a prescindere dalle gravi lacune, non ci sia molto lavoro. Volendo portare il ragionamento alle sue estreme conseguenze, si arriva alla conclusione paradossale per cui la magistratura potrebbe non avere nessun interesse ad avere una giustizia efficiente, laddove, una volta venute meno le gravi lacune organizzative, l’indennità perderebbe la sua giustificazione ed andrebbe abolita. A seconda del grado di carriera, questa indennità costituisce da un terzo ad un sesto dello stipendio complessivo percepito dal magistrato. Quindi questa voce dello stipendio incide sempre di meno, mano a mano che si guadagna di più.
A prescindere dal fatto che questi ragionamenti siano fallaci o meno, questo è il dato di partenza per comprendere l’ulteriore sviluppo della vicenda. Nella primavera 2010 lo spread cominciò a mordere i polpacci anche al Belpaese e l’allora Governo Berlusconi, ministro dell’economia Tremonti, fu costretto, di malavoglia, a varare le prime misure di austerity. Fu, dunque, emanato il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122. Tra le tante misure introdotte, il decreto legge ha
- introdotto un “contributo di solidarietà” per tutti i pubblici dipendenti, compresi quelli delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato (tenete bene a mente questa circostanza), nella misura del 5% per la parte eccedente un reddito di € 90.000,00 e del 10% per la parte eccedente un reddito di € 150.000,00 (art. 9, comma 2, DL 78/2010);
- bloccato tutti gli aumenti di stipendio connessi all’anzianità e/o a promozioni di carriera nel triennio 2011-2013 con un meccanismo assolutamente demenziale, per cui chi, per puro caso, avesse maturato l’avanzamento di grado nel periodo in questione non avrebbe percepito il relativo aumento (art. 9, comma 21, DL 78/2010). A seguito di una trattativa instaurata con la categoria, il Governo ha accettato di distribuire il taglio tra tutti i magistrati, prevedendo che l’indennità giudiziaria di cui sopra venisse ridotta del 15% nel 2011, del 25% nel 2012 e del 32% nel 2013 (art. 1, allegato 1, della legge di conversione 122/2010);
- bloccato “l’adeguamento automatico” degli stipendi dei magistrati per il triennio 2011-2013 e ridotto lo stesso ai parametri del all’anno 2009, 2010 e 2014 (art. 9, comma 22 DL 78/2010).
Contro la norma in questione sono state sollevate una serie di eccezioni di incostituzionalità da numerosi TAR delle più disparate regioni italiane, da nord a sud. Le eccezioni si fondano essenzialmente su due profili:
- Una violazione del principio di indipendenza della magistratura (violazione degli artt. 101 e 104 della Costituzione), in quanto le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, i quali finirebbero con il controllare, in maniera arbitraria, la magistratura e, quindi, a comprometterne l’indipendenza.
- Una violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Ciò sulla base della considerazione per cui le riduzioni di stipendio sarebbero da considerare una forma di imposizione fiscale. Ne consegue che, se di imposizione fiscale si tratta, si doveva applicare l’art. 53 Cost, per cui, a parità di reddito, tutti devono contribuire in misura eguale alle spese dello Stato, quindi anche i privati.
La prima norma presa in esame dalla Corte è quella relativa al blocco del c.d. “adeguamento automatico” (art. 9, comma 22, DL 78/2010). Si è già detto sopra quali sono le premesse logiche che giustificano il meccanismo. La Corte dice che il meccanismo può essere effettivamente sospeso, come fece Amato nel 1992, tuttavia solo a “condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso” (punto 11.5). Nel 1992, dice la Corte, tali criteri furono rispettati, in quanto il blocco fu di un solo anno.
Viceversa, con i decreti al vaglio della Corte, tali criteri, sarebbero stati irragionevolmente oltrepassati. Ciò sulla base dei seguenti argomenti (punto 11.7):
- un primo aumento era già stato riconosciuto nel 2009 e, quindi, un anno prima del provvedimento legislativo, sicchè esso non solo ha determinato un blocco delle dinamiche retributive, bensì ha comportato una riduzione dello stipendio, in quanto incideva su di un diritto già acquisito;
- il blocco degli aumenti per i magistrati, a differenza di quelli per gli altri pubblici dipendenti, si estende fino al 2015 e, quindi, per un periodo più lungo, con irrazionale disparità di trattamento tra la categoria dei magistrati e quella del pubblico impiego contrattualizzato, e conseguente violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Costituzione oltre alla violazione del principio di indipendenza della magistratura.
La seconda norma presa in esame è quella relativa al taglio dell’indennità giudiziaria, così come introdotta dalla legge di conversione n. 122/2010. Qui la Corte fa leva sull’argomento per cui la riduzione dell’indennità non sarebbe una misura di contenimento della spesa, bensì una vera e propria, e questo e' il punto cruciale, misura di tipo tributario (punto 12.3 della motivazione). Difatti, stando alla giurisprudenza della Corte, un’imposta avrebbe le seguenti caratteristiche (le parole sono della Corte, la numerazione è mia per facilità di lettura):
1)“la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo;
2)la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (nella specie, di una voce retributiva di un rapporto di lavoro ascrivibile ad un dipendente di lavoro pubblico statale "non contrattualizzato") [nota del redattore: il rapporto sinallagmatico è quello di prestazione/controprestazione in un contratto, nella specie tot stipendio per tot lavoro. In sostanza, dice la Corte, a parità di condizioni lavorative, viene ridotto lo stipendio, con modifica del rapporto];
3)le risorse connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione sono destinate a sovvenire pubbliche spese.”
Le misure al vaglio della Corte avrebbero proprio le caratteristiche suddette, laddove:
- il prelievo sull’indennità non sarebbe stato restituito e, quindi, era definitivo;
- non prevedevano una “correlativa riduzione degli obblighi e prestazioni previdenziali, né la riduzione dei carichi lavorativi che l’indennità è diretta a compensare”;
- erano dirette a “sovvenire pubbliche spese, e, in particolare, a stabilizzare la finanza pubblica” come si può desumere “dal titolo stesso del decreto legge: <<Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica>>, in coerenza con le finalità generali delle imposte”.
A fronte di questa premessa (natura fiscale della misura) la Corte ha buon gioco nel dichiarare l’incostituzionalità della norma. Difatti, è evidente che non si può imporre di pagare un’imposta che incide sulla retribuzione solamente ad una categoria di lavoratori e, cioè, i magistrati. La violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3, e del principio per cui tutti devono concorre alla spesa pubblica, di cui all’art. 53 della Costituzione diventa manifesta a chiunque (punto 12.4).
Attestata la sua natura tributaria, la norma finirebbe con il violare anche il principio della progressività delle imposte di cui all’art. 53, comma 2, Cost. Difatti, come si è detto, poiché la riduzione incide solo su di una voce dello stipendio, e tale voce è fissa per tutti i magistrati indipendentemente dal grado di carriera, finiva con l’incidere maggiormente sul reddito dei magistrati che guadagnano di meno, finendo con l’essere, addirittura, regressiva.
La terza questione era quella relativa all’introduzione della decurtazione di tutti i redditi nella parte eccedente la somma di € 90.000,00 (5%), rispettivamente € 150.000,00 (10%). Anche qui la conclusione, a questo punto, era ampiamente prevedibile. La premessa è sempre quella per cui una decurtazione unilaterale dello stipendio, a parità di prestazione lavorativa, è da considerarsi un’imposta e, quindi, a parità di reddito, deve essere pagata da tutti, siano essi dipendenti privati o pubblici (punto 13.2.1. della motivazione).
Non solo. E’ lo stesso legislatore ad aver fornito alla Corte un formidabile argomento a dimostrazione del fatto che la misura ha natura di imposta. Difatti, si è detto come essa abbia inciso sugli stipendi di tutti i dipendenti pubblici e, quindi, anche di quelli che non dipendono dallo Stato (ad esempio, enti locali). Senonchè, osserva la Corte, affondando la lama nel burro,“lo Stato non avrebbe titolo per modificare con la disposizione in esame i trattamenti economici di rapporti lavorativi di cui non è parte” (punto 13.2.2.). Qui l’argomento non fa una grinza. Un ente territoriale potrebbe, in ipotesi, versare in condizioni floride e non avere alcuna necessità di ridurre le proprie spese. Per quale motivo un simile ente dovrebbe ridurre lo stipendio al proprio dipendente? E come può lo Stato che non è il datore di lavoro, ridurre tale stipendio? Non solo - impietosamente - la Corte rincara la dose e fa presente come il risparmio di spesa non va nemmeno a beneficio degli enti datori di lavoro ed erogatori dello stipendio, poiché erano tenuti a versare gli importi “risparmiati” allo Stato, sicchè essi finivano, guarda un po’, con l’agire “come <<sostituti d'imposta>> per le imposte sui redditi, trattenendo gli importi indicati dalla norma denunciata (quali <<ritenute alla fonte>>) e provvedendo al loro <<versamento diretto>> all'erario per conto dei "sostituiti" propri dipendenti (ai sensi degli artt. 1, lettera b, e 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante <<Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito>>)”. In sostanza, è lo Stato stesso a definire imposta ciò che, dall’altra, definisce una riduzione della spesa…
Ed ancora, sempre in materia di pasticci, la Corte evidenzia come, con il decreto legge n. 138 d.d. 2011, lo Stato abbia introdotto un’analoga imposta estesa anche ai privati, senonchè essa incide solamente nella misura del 3%, per i redditi sopra gli € 300.000,00. Così il dipendente privato è tassato del 3% per i redditi superiori ad € 300.000,00, il dipendente pubblico del 10% per l’eccedenza degli € 150.000,00. Dunque, conclude la Corte, “l'irragionevolezza non risiede nell'entità del prelievo denunciato, ma nella "ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi” (punto 13.3).
Quali conclusioni devono trarsi dalla vicenda? La prima è che i politici e i burocrati non hanno fatto, diciamo cosi', un lavoro eccellente. Prima di adottare delle misure di tipo legislativo, sarebbe necessario porsi il problema della loro compatibilità con la Costituzione, anche alla luce delle letture che ne dà la Corte costituzionale, tanto più se si considera che c’erano i precedenti della crisi del 1992 da consultare. E, quindi, se la Corte, per sua giurisprudenza costante, ritiene che interventi di taglio unilaterale degli stipendi integrino una forma di imposizione fiscale, è evidente che essi non possano essere applicati solamente ad una categoria piuttosto che ad un’altra, a parità di reddito. Oltretutto, come si è visto, è stato lo stesso Legislatore a confessare che di imposta si trattava nel momento in cui ha ridotto gli stipendi dei dipendenti di altre pubbliche amministrazione facendosi versare gli importi che gli enti risparmiavano. La seconda e fondamentale considerazione è sull’impossibilità di incidere sulla spesa dello Stato mediante riduzioni unilaterali delle retribuzioni dei dipendenti. Nel 2011, in una lettera inviata al Presidente del consiglio dell’epoca, la BCE richiedeva una riduzione della spesa, se necessario, anche mediante riduzione degli stipendi dei pubblici dipendenti. L’argomento è stato speso dall’Avvocatura dello Stato, intervenuta per chiedere il rigetto delle eccezioni di incostituzionalità, ma viene respinto espressamente dalla Corte, secondo la quale:
“la normativa, nonostante la formulazione letterale della norma in esame, non può considerarsi una riduzione delle retribuzioni, come sostiene l'Avvocatura dello Stato, allorché, nella memoria difensiva, individua la necessità dell'intervento nel suggerimento dei presidenti (uscente e nominato) della BCE (banca centrale per la moneta unica europea) contenuto in una lettera al Governo italiano. Si tratta, invece, di una imposta speciale prevista nei confronti dei soli pubblici dipendenti”. (punto 13.2.2.)"
Concludendo, se lo Stato vuole ottenere riduzioni di spesa incidendo sul costo del pubblico impiego, può solo non concedere aumenti e, quindi, lasciare che sia l’inflazione a ridurre il valore reale delle retribuzioni, non rimpiazzare coloro che escono per quiescenza o altri motivi o, in ultima istanza, licenziare chi e' licenziabile. Non sembra un buon modo per rendere piu' efficiente la pubblica amministrazione.
Secondo alcuni commentatori tale errore sarebbe intenzionale: il provvedimento sarebbe stato predisposto in maniera tecnicamente scorretto in modo da determinarne con ragionevole certezza l'annullamento da parte della Corte Costituzionale. Tale sospetto sarebbe ingenerato dalla coincidenza fra gli estensori e i destinatari del provvedimento.
Piu' in generale la circostanza che la Costituzione determini "il salario variabile indipendente" per i dipendenti pubblici rappresenta un'utile indicazione per la riforma della stessa, anche alla luce dei recnti impegni al pareggio di bilancio assunti dall'Italia in sede europea, anch'essi se ben ricordo con rango costituzionale.
Complimenti ad Alex Bisignano per la dettagliata e chiarissima esposizione.
Il sospetto avanzato da Massimo non sembra infondato: se i politici non sono in grado di controllare l'azione dei burocrati, questi riescono spesso - se non quasi sempre - ad influire a proprio favore sulla legislazione o sulla sua applicazione.
Nella specie, i burocrati sarebbero riusciti a confezionare una legge suicida, nel senso che conteneva gli argomenti per essere dichiarata incostituzionale, ed i "geniali" membri del governo non se ne sono accorti.