La teoria economica e' in principio utile al legislatore perche' aiuta a disegnare buone norme, ad esempio norme che tengano conto degli incentivi che le norme stesse modificano. Un bell'esempio classico e' il seguente: la pena di morte per chi ruba una mela ridurra' i furti di mele ma dara' incentivo a chi ruba una mela ad uccidere tutti i testimoni. Ma la teoria economica e' anche utile al giurista per interpretare la legge, ad esempio quando essa utilizza termini economici. Questo e' quello che ha fatto la Corte Costituzionale nella sentenza illustrata da Axel, nella parte che ci interessa in questo post. Lo ha fatto molto male, denotando una ignoranza di principi economici fondamentali che a noi appare inaccettabile.
Come Axel ha spiegato, lo stipendio dei magistrati e' composto da una parte di pura remunerazione del loro lavoro ordinario e da una parte (l'indennita' giudiziaria) di compensazione per il lavoro extra reso necessario dalle "lacune organizzative" del sistema giudiziario. Se la remunerazione pura dipende dall'eta' in servizio del magistrato, l'indennita' e' invece fissa. Il governo, ad agosto 2011, aveva deciso di bloccare gli aumenti della prima componente fino al 2013 e di decurtare la seconda componente, a un tasso crescente fino al 2013. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime entrambe questi interventi del legislatore: la prima perche' blocca un meccanismo che contribuisce a garantire l'indipendenza della magistratura. La seconda perche' costituirebbe una imposta applicata ad una sola categoria di lavoratori, in violazione dei principi costituzionali di uguaglianza (anche di fronte al fisco) e di concorso collettivo alle spese pubbliche. Inoltre, essendo l'indennita' fissa, una sua riduzione, interpretata come imposta, costituirebbe una imposta non progressiva (non in percentuale crescente col salario totale), una violazione questa del criterio di progressivita' dell'imposizione fiscale imposto dalla costituzione. Fine del riassunto.
La questione dell'indipendenza della magistratura e di come essa sia connessa al contratto di retribuzione dei magistrati e' questione interessante ed indipendente . In questo post vogliamo pero' discutere la decisione della Corte riguardo all'indennita', perche' questa e' di grandissima rilevanza economica, nel senso che non si applica solo ai magistrati ma ad ogni pubblico dipendente cui il legislatore decidesse di ridurre il salario, come ha ben messo in evidenza Axel.
Per meglio comprendere in cosa consista l'interpretazione della Corte a questo proposito partiamo dalla Costituzione, ed in particolare dall'Art. 53, che come indica Axel e' il fondamento della decisione della Corte riguardo all'indennita' e quindi piu' in generale al salario dei dipendenti pubblici. Esso recita semplicemente:
Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Il primo comma richiede che la capacita' contributiva sia un fattore nella determinazione delle imposte. In principio non dice che la capacita' contributiva debba essere l'unico fattore. Ma ammettiamo pure che il comma vada interpretato nella sua versione piu' restrittiva. Esso in questo caso non permetterebbe imposte su una sola specifica categoria di lavoratori. In questo modo la Costituzione intenderebbe ragionevolmente evitare situazioni nelle quali, ad esempio, il Parlamento aumenti l'aliquota Irpef solo sui dentisti. Ma estendendo l'applicazione della norma costituzionale all'intervento legislativo in oggetto, in cui non si toccano le aliquote, e la categoria colpita e' quella dei dipendenti pubblici, la Corte non sembra comprendere che i lavoratori pubblici hanno una particolarita' che i dentisti non hanno: il loro datore di lavoro e' lo stato. Ed e' qui che la teoria economica dovrebbe illuminare la Corte nella sua interpretazione. Agendo sugli stipendi dei dipendenti pubblici lo stato agisce come datore di lavoro, non come fisco. L'intervento del legislatore e' chiaramente assimilabile a quello di un datore di lavoro in difficolta' finanziarie che volesse evitare la bancarotta intervenendo sul costo del lavoro. Potrebbe licenziare i propri dipendenti, o intervenire sui ricavi, in questo caso aumentando le imposte, cosi' come una impresa potrebbe aumentare i prezzi. Si capisce come l'intervento sui salari sia distinto logicamente da uno sulle imposte: il primo e' un intervento sui costi, il secondo sui ricavi. Tagliando i salari dei dipendenti pubblici il legislatore non tocca le aliquote (il legislatore ha fatto anche questo, negli stessi giorni, ma con provvedimenti distinti e su tutti i contribuenti) ma agisce sulla retribuzione del lavoratore, ne modifica in qualche modo il contratto. Si apre quindi un'altra questione giuridica importante, concernente il rispetto del contratto da parte del datore di lavoro. Lasciamo la questione ai giuristi, ma notiamo che nulla ha a che fare con la questione constituzionale posta dalla Corte.
Il secondo comma poi riferisce esplicitamente al sistema tributario, non ad ogni tributo. E' il sistema tributario a dover essere progressivo, non ogni singolo tributo. Quindi anche se accettassimo l'interpretazione manifestamente assurda della Corte che equipara un taglio dei salari dei dipendenti pubblici ad una imposta sugli stessi, la mancanza di progressivita' sarebbe irrilevante. Ed invece la Corte non distingue tra sistema tributario e tributo.
Da un punto di vista economico, quindi, la sentenza e' uno scempio. Cioe' e' uno scempio interpretare in modo estensivo la norma (in se' ragionevole) che una imposta non puo' essere applicate a una sola categoria di lavoratori. In buona sostanza la Corte definisce imposta ogni decurtazione di reddito i) che non verra' mai restituita, ii) che non e' associata a una riduzione del carico di lavoro, e iii) che serve a finanziare la spesa pubblica. Ma secondo questa definizione di imposte applicate a una sola categoria di lavoratori e' pieno il sistema tributario. E applicando la logica della Corte si giunge a conclusioni che sono ridicole. Ecco alcuni esempi:
- L'inflazione. L'inflazione decurta il reddito reale. Questa decurtazione e' persa per sempre se non c'e' adeguamento dei redditi nominali all'inflazione effettiva, cosa che in Italia oggi non esiste neppure per i magistrati. L'inflazione, naturalmente, non implica una riduzione del carico di lavoro contrattuale. Inoltre, inflazionare e' un modo per finanziare la spesa pubblica: spendo a debito oggi e ripago domani i debiti nominali in moneta svalutata. Poiche' l'inflazione decurta in modo diverso i redditi fissi e quelli variabili, ne consegue che non adeguare gli stipendi all'inflazione (assenza di scala mobile) e' incostituzionale.
- Le detrazioni. Una detrazione e' una riduzione di imposta per contribuenti che soddisfano certi requisiti. Per esempio, se hai n figli a carico e reddito pari a y allora ricevi una riduzione di imposta di x euro a figlio. Questa riduzione costituisce una imposta, un'imposta negativa (il criterio della Corte non dice che l'imposta deve essere positiva). Anche questa imposta non verra' mai restituita (cioe' nessuno puo' essere chiamato a restituire le detrazioni ricevute), non implica un aumento del carico di lavoro, e contribuisce a finanziare (in negativo) la spesa pubblica. Poiche' le detrazioni sono condizionate a certe caratteristiche e quindi sono diverse da un contribuente all'altro (per esempio, non paghi imposta negativa per figli a carico se non hai figli), ne consegue che tutte le detrazioni sono incostituzionali.
- Gli aumenti di stipendio. Idem come sopra. Se ridurre lo stipendio di una particolare categoria di lavoratori e' una tassa, allora aumentarlo e' una tassa negativa. Ne consegue che a meno che non vi sia un meccanismo che lega tutte le retribuzioni del settore privato a quelle del settore pubblico, gli aumenti di stipendio nel pubblico impiego sono incostituzionali.
- Gli aumenti dell'eta' pensionabile. Abbiamo stabilito che un lavoratore puo' andare in pensione a 60 anni. Da oggi diciamo che puo' andarci non prima di 65, a pensione invariata. Questa e' una decurtazione del reddito dei futuri pensionati. Come le precedenti non verra' restituita e serve a finanziare spesa pubblica (ridurre spesa per pensioni per non ridurre altre spese). Inoltre, se diciamo che la riforma si applica solo a chi e' nato dopo l'anno z, la "tassa" si applica ad alcuni ma non ad altri. Ne consegue che tutti gli aumenti non pienamente retroattivi dell'eta' pensionabile (o di qualunque altra parte del contratto sociale che implichi decurtazione di reddito presente o futuro) sono incostituzionali.
E cosi' via. Si puo' andare avanti ancora parecchio e giungere a molte altre conclusioni che, noi crediamo, percepiamo tutti come assurde.
Quali sono le potenziali conseguenze economiche della sentenza? Per esempio, ogni volta che ci sara' un rinnovo dei contratti del pubblico impiego che conceda aumenti salariali i dipendenti del settore privato potranno con ottime ragioni fare causa perche' anche a loro spetta lo stesso aumento. E poi, la sentenza implica che non si possano far lavorare di piu' i dipendenti pubblici senza aumentargli lo stipendio. Se facciamo lavorare piu' ore gli insegnanti e i professori a stipendio invariato gli stiamo riducendo il salario orario, una tassa secondo la Corte Costituzionale. Tutti i dipendenti pubblici (docenti universitari in prima linea) possono armarsi. La riduzione della frequenza e il congelamento degli scatti di anzianita', cosi' come il blocco degli adeguamenti degli stipendi all'inflazione programmata, che hanno subito in modifica unilaterale del loro contratto sono incostituzionali.
La conclusione e' semplice quanto antica: agli occhi di un economista come a quello di qualunque persona di buon senso questa e' una sentenza da manuale dell'Azzeccagarbugli.
ciò che ho sempre pensato...