(I) Più consumo, meno risparmi.
In un certo senso questo è il mito fondatore di tutte le cattive politiche economiche e, di fatto, dei sette miti che andrò discutendo. Tanto per dare un'idea di quanto ho in mente, gli altri sei, nell'ordine, sarebbero:
(II) La deflazione causa depressione, solo l'inflazione ci può salvare.
(III) Abbiamo bisogno di una politica fiscale super-espansiva per uscire dalla trappola della liquidità.
(IV) Siamo in una trappola della liquidità perché le famiglie non spendono e stanno "tesaurizzando".
(V) Permettere che banche, ed altre imprese, falliscano farà solo peggiorare la crisi.
(VI) C'è troppa, non troppo poca, competizione fra le banche; ed anche in generale.
(VII) Le riforme strutturali possono aspettare, ora occorre pensare all'emergenza.
Ah, scordavo, poi c'è il mito che li sintetizza tutti: avevano ed hanno ragione Roubini, Soros, Tremonti ... e quant'altri profeti di sventura sono emersi durante l'ultimo anno e mezzo. E Paul Krugman, ovviamente, ha più ragione di tutti perché lui ha anche il Comitato del Nobel per l'Economia che ce lo conferma.
Ma andiamo per ordine. Si diceva:
il problema fondamentale è che la gente non consuma più, occorre far ripartire i consumi, occorre che il magico "consumatore americano" ricominci a spendere come ha fatto dal 1992 in poi.
Questo mito fondatore si basa sull'esistenza di un magico "moltiplicatore" (keynesiano, ovviamente) tale che più grande è la quota del proprio reddito che la persona media consuma più alto sarà il reddito complessivo della nazione. Tale argomento è spesso giustificato a mezzo di luoghi, tanto comuni quanto incompleti, del tipo: "la domanda sempre crea la propria offerta" (sì, ma da chi viene l'offerta?); oppure: "le imprese decidono di produrre solo se si aspettano di vendere i loro prodotti" (non v'è dubbio, ma le imprese vogliono anche essere pagate e, soprattutto, far profitti con ciò che vendono). Tali luoghi comuni non sono erronei, sono solo incompleti: quando li si completa le loro implicazioni sono, quasi sempre, alquanto diverse da ciò che il mito fondatore vorrebbe farci credere.
I credenti in tali amenità non fanno quasi mai una pausa per considerare il fatto che, anche nel mondo dei modelli astratti, tanto più consumiamo meno abbiamo a dispozione per risparmiare e investire. Da questo banale fatto seguono due conseguenze, non banali. La prima: più alta è la quota di reddito che consumiamo più dobbiamo essere in grado di prendere a prestito da qualcun altro, quindi maggiormente occorre indebitarsi. Alternativamente, se non ci indebitiamo occorre accettare la seconda conseguenza che è: stiamo consumando la nostra ricchezza accumulata, la qual cosa funziona sino a quando detta ricchezza non si esaurisce. In una economia chiusa la seconda conseguenza è automatica; in un'economia aperta, invece, si può andare avanti per un po' di tempo (magari con il trucco di indebitare le generazioni future attraverso il debito pubblico) fino a quando gli investitori stranieri son disposti a farci credito. Quando costoro, gli investitori stranieri, o ben si stancano di prestarci risorse che forse non siamo in grado di restituire oppure si trovano anch'essi a corto di reddito corrente da prestarci, allora ... da chi prendiamo a prestito? Ma dal nostro reddito futuro, ovviamente, risponde il credente nel mito del moltiplicatore! Davvero? Beh, dipende.
La confusione ha un'origine duplice. Da un lato, occorre notare che il risparmio è quella cosa da cui provengono gli investimenti e gli investimenti consistono anch'essi, come i panini e le gite al mare, in domanda di beni e servizi che vengono prodotti da qualche impresa. Insomma, se il consumo ha il magico moltiplicatore, anche il risparmio ha il suo e, quindi, genera occupazione e valore aggiunto in base alla medesima regola secondo cui "la domanda crea la propria offerta". Vale a dire: ci sono imprese e lavoratori il cui vantaggio comparato è quello di produrre beni di investimento. Il risparmio consiste, quindi, in "domanda effettiva" per quei lavoratori e quelle imprese. D'altro canto, i credenti nella religione del consumatore-moltiplicatore non sembrano ricordarsi di ciò che chiamiamo, in gergo, "il vincolo inter-temporale di bilancio": quest'ultimo non vale solo per i singoli individui (senso comune: chi non lavora non mangia) ma anche per gli aggregati che chiamiamo "paesi" (senso comune: se non investi oggi con che cavolo produci domani?). Questa seconda osservazione è di qualche rilevanza per i giorni nostri: quando (negli anni scorsi) abbiamo preso a prestito per consumare in quel "oggi" (che oggi-oggi è diventato "ieri") i nostri finanziatori si aspettavano che li ripagassimo con i nostri futuri risparmi. Altrimenti, come potrà, il debito che abbiamo accumulato, essere mai rimborsato? Visto che il problema sembra essere dovuto al fatto che alcuni di noi o (in media) tutti noi ci si trova incapacitati a restituire i debiti contratti, non è che la soluzione forse sta nel risparmiare un pelino di più? Sembra di no, secondo il mito del consumatore-moltiplicatore ... Mettiamo la cosa in modo diverso: il vincolo di bilancio inter-temporale richiede un mix equilibrato (ed inter-temporale anch'esso) di consumo e risparmio. Quando uno ha risparmiato poco e preso a prestito molto per un sacco di tempo, consumare di meno e risparmiare di più è la cosa giusta da fare. Questo vale, sembra, nella casa di ognuno di noi. Com'è che non vale nell'aggregato? I credenti dicono che nel passare dall'individuale all'aggregato avviene una specie di transustanziazione che i mortali non sanno ben intendere ma che, comunque, avviene. Fidatevi, ci dicono: mi sbaglio o durante gli ultimi quindici anni, almeno, ci siamo fidati (faccio per dire: io di mio m'ero fidato proprio per niente) che questa transustanziazione sarebbe avvenuta ed oggi siamo nelle "pettole" perché, ma guarda un po', non è avvenuta ed alcuni di noi sono pieni di debiti che non riescono proprio a ripagare?
Fuor di metafora e venendo all'oggi: un certo numero di paesi, gli Stati Uniti di gran lunga per primi, si sono dedicati a consumare di più di quanto il loro reddito avrebbe consentito ed hanno finanziato tale consumo con due mezzi. In primo luogo, offrendo la loro ricchezza accumulata (fosse essa costituita di case o di stock di capitale produttivo) come garanzia di tali prestiti. Tale comportamento è apparso ragionevole (lo ammetto: anche a me sino alla cruciale stagione 2001-2004) finché il valore di mercato di tale ricchezza accumulata andava salendo. In secondo luogo, "promettendo" (e qui le virgolette ci vogliono proprio, perché "promettendo" va inteso nel senso di: sia i mutuatari che i finanziatori "avevano previsto") un elevato tasso di crescita del reddito futuro, dal cui reddito i rimborsi del capitale e degli interessi sarebbero dovuti provvenire. Giusto per essere chiari: l'argomento in questione vale soprattutto e fondamentalmente per gli Stati Uniti e meno, molto meno, per gli altri paesi. Vale parzialmente per la Spagna e forse per l'Irlanda; dubito valga per il resto dei paesi europei e credo proprio non valga per l'Italia. Il problema italiano è completamente un altro, tralasciamolo per questa volta e rimaniamo negli USA.
Come è oramai dolorosamente chiaro, quelle famiglie che stanno risparmiando - siano esse negli Stati Uniti o all'estero non fa differenza, grazie alla globalizzazione dei mercati finanziari - non sono più disposte a far prestiti a quelle famiglie americane che "consumano keynesianamente" allo stesso ritmo con cui l'hanno fatto durante l'ultimo decennio, più o meno. In parte ciò dipende dalla situazione in cui gli intermediari finanziari (cioè: le banche) si trovano. Ma dipende anche, e soprattutto, da altri fatti. I "consumatori keynesiani" made in USA:
(i) Sono troppo indebitati: se non sono in grado di pagare le proprie case, cosa cavolo prestiamo loro a fare perché si comprino il Ford pick-up nuovo?
(ii) I loro attivi (case e titoli mobiliari) sembrano avere un valore molto inferiore al previsto e sembra che nessuno se li voglia comprare.
(iii) Il loro reddito non può crescere tanto velocemente come molti di noi avevamo sognato.
Sulla situazione delle banche rimando a dei miti futuri (IV e V) ma, per quanto riguarda i "consumatori keynesiani" americani, vi è una sola cosa ragionevole che possono fare: provare a lavorare un pelino di più, cominciare a risparmiare una percentuale più elevata del loro reddito e ripagare un pezzo sostanziale del loro debito. Solo una volta che questo processo di "de-leveraging" avrà luogo (il che significa che non solo il debito degli Stati Uniti d'America sarà diminuito ma che gli investimenti produttivi saranno cresciuti) sarà ragionevole aspettarsi che il consumo possa ripartire di nuovo "alla grande" e che si ricominci ad indebitarsi.
Qui ci andrebbe una parte complicata e piena di statistiche, che per il momento evito perché mancano sia il tempo che le conoscenze. Il "consumatore keynesiano made in USA" non sono tutte le famiglie americane, sono (più o meno) il 50% più povero delle famiglie americane: quelle sono nei guai seri. La qual cosa ci porta a considerazioni complicate sulla distribuzione del reddito, la produttività media che è fatta dei due famosi polli da una parte e zero polli dall'altra (che fa un pollo in media, ma la media non conta in questi casi, conta quasi solo la varianza) ed altre cose che davvero non mi sento ancora in grado di affrontare ... però teniamocele in mente per il futuro e ritorniamo per ora all'argomento "aggregato".
L'argomento aggregato non può astrarre dal fatto evidente che la crisi in cui ci troviamo è una crisi di debito/credito alla cui origine vi sono ... un gran numero di famiglie non in grado di rimborsare i loro debiti! Detto altrimenti: l'evidente (e riconosciuta da tutti) causa della crisi è che abbiamo molta meno ricchezza di quanto pensavamo. Quindi i nostri livelli di consumo non sono sostenibili, le imprese e gli investimenti produttivi non possono essere finanziati per mancanza di risorse (leggi: risparmio) e le nostre impegnative di debito sono da cestinare. Per questo i mercati finanziari non hanno "fiducia": come la ricostruiamo la benedetta fiducia? Con quali politiche?
In una situazione come questa meno risparmio e più consumo, finanziato con debito a breve a tassi zero, è solo una ricevuta per ulteriori e peggiori guai.
Condivido totalmente quello che scrive Michele.
Mi chiedo però come è posibile che chi ha studiato ad Harvard o alla Bocconi faccia finta di non sapere queste cose. Chi ci guadagna dalle cattive politiche economiche ?
La mia azienda e le sue concorrenti producono beni d'investimento (centrali idroelettriche ) e non aspettiamo altro che la domanda.