In questo periodo si fa un gran parlare di evasione fiscale. Ma non c'è solo l'evasione, accanto all'evasione c'è l'elusione. E poi c'è il principio del divieto di abuso del diritto (tributario, ma anche privato).
Di questa figura si è parlato, qualche domenica fa, nell'inchiesta “La grande evasione”, realizzata da una giornalista di Report (qui il pdf della puntata). A diverse banche (Unicredit, Intesa, Carige, MPS, BPM, Credem) sono state contestate diverse operazioni, fondando il relativo accertamento fiscale, per l'appunto, sulla base di tale principio. Nel caso Unicredit si è anche contestato il reato di falsa dichiarazione fiscale, sequestrando la somma di € 245.956.118,19.
Chiariamo anzitutto i concetti.
L'evasione è un comportamento in contrasto con le norme tributarie.
L'elusione è invece un comportamento conforme alla legge, seppur in contrasto con le sue finalità. E', quindi, una condotta del tutto lecita.
C'è, infine, il lecito risparmio d'imposta, che non è nè evasione, nè elusione.
Sembrano distinzioni chiare, ma la realtà è ben diversa, perchè a un certo punto le differenze concettuali si appannano, e la forza attrattiva dell'evasione trascina nel suo ambito sia i comportamenti elusivi che i comportamenti volti a realizzare un lecito risparmio di imposta.
Per lungo tempo, in Italia, si è privilegiato il dato della certezza del diritto e non era prevista alcuna norma generale antielusiva. E' solo nel 1990 che all'amministrazione finanziaria viene attribuito il potere di disconoscere le operazioni poste in essere senza valide ragioni economiche, allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d'imposta.
Nel 1997 viene introdotto l'art. 37-bis del dpr 600/73, che nel ribadire e precisare il potere di disconoscimento in capo all'amministrazione, elimina l'avverbio "fraudolentemente". Molte imprese, nei decenni scorsi, approfittando delle “smagliature” dell'ordinamento tributario, ottennero notevoli risparmi fiscali costruendo operazioni di dividend washing e dividend stripping (per alcune esemplificazioni vedere qui). Il caso Unicredit è simile. L'amministrazione contesta alla banca che l'unica ragione di una complessa operazione (“Brontos”) realizzata con società appartenenti al gruppo Barclays, era l'ottenimento di un risparmio fiscale, realizzato mediante la (indebita secondo il fisco italiano) “trasformazione” di interessi in dividendi. L'elenco degli indagati può leggersi qui. I dettagli dell'operazione, estremamente complessa possono leggersi nell'ordinanza di sequestro (qui).
Nel 2006 interviene la Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Nel decidere il caso “Halifax” divenuto il leading case in materia di abuso del diritto, la Corte afferma che l'abuso del diritto si configura quando lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente (corsivo mio, n.d.r.) l'ottenimento di un vantaggio fiscale (la decisione riguardava una controversia in materia di Iva). La Corte tenne inoltre a precisare che il principio del divieto di abuso del diritto non determina alcun obbligo del contribuente (che, nella stragrande maggioranza dei casi, è un'impresa) di scegliere, tra una pluralità di modalità esecutive di un'operazione, quella più onerosa. Le imprese restano libere di scegliere la forma di conduzione degli affari che permette loro di limitare la contribuzione fiscale.
Questa sentenza è stata seguita da numerose altre che hanno affermato i medesimi principi. La più recente è quella resa nel caso “Tanoarch”, il 27 ottobre 2011, in cui il principio è ribadito al paragrafo 51 della sentenza.
In sostanza, se l'operazione che determina il vantaggio fiscale è priva di effettività economica, cioè non è diretta a realizzare “business”, è abusiva, e i vantaggi fiscali possono essere disconosciuti dall'amministrazione fiscale degli Stati membri. Poichè la sentenza del 2006 era stata resa in materia di Iva, che è tributo comunitario (anche detto “armonizzato”), il principio del divieto di abuso del diritto in tale materia era direttamente applicabile in tutti i paesi membri.
Le operazioni che determinavano vantaggi fiscali in materia di imposte dirette (rispetto alle quali ciascuno Stato membro è sovrano) o in materia di imposte indirette diverse dall'Iva non potevano pertanto essere contestate applicando tale principio, salvo che si trattasse di operazioni rientranti nel campo di applicazione dell'art. 37-bis.
Il problema viene risolto direttamente dalla giurisprudenza italiana (non dal legislatore – si badi). Con una serie di sentenze del 2008 la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (qui una delle massime), afferma che nell'ordinamento italiano esiste un generale principio antielusivo, che si applica a tutti i tributi (non solo quelli comunitari), il cui fondamento va rinvenuto nell'art. 53 della Costituzione.
La Corte afferma che il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione (quindi lecito, n.d.r.), di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili (corsivo mio, n.d.r.) che giustifichino l'operazione diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale.
E se è pur vero che, ogni tanto, vi sono lampi nel buio, non è meno vero che le insidie proprie di un principio del genere sono evidenti. Il contribuente è lasciato in balìa delle ondivaghe prese di posizione dell'amministrazione finanziaria (in altre parole: della sua discrezionalità), spesso supportata da giudici (anche della Suprema Corte), sbilanciati – nel dubbio - verso le ragioni del fisco (osservazioni critiche qui).
E' evidente che la certezza del diritto, anch'esso principio fondante dell'ordinamento, cede di fronte a pure esigenze di cassa.
Con l'applicazione del principio del divieto di abuso del diritto il fisco cerca di "coprire" i c.d. fallimenti normativi, i loopholes del legislatore, colpendo il contribuente che (lecitamente) li sfrutta.
Intendiamoci, non si vuole negare la necessità di colpire gli abusi (il caso Unicredit a me pare eclatante, anche se, al di là della questione penale, dal punto di vista tributario finirà con una transazione e la banca ci guadagnerà comunque; illuminanti, sul punto, le dichiarazioni di Ponzellini, ex Presidente di BPM, alla giornalista di Report), ma ciò deve avvenire senza perdere di vista concetti e (altri) principi (es. il principio di libertà di iniziativa economica; il principio di certezza del diritto). Sono le costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica, effettuate unicamente al fine di ottenere un vantaggio fiscale, che devono essere vietate e non qualsiasi operazione che determina un risparmio fiscale.
Succede invece, in non pochi casi, che il tutto viene ridotto a una sorta di "questione morale" (ricordiamo lo spot del Governo sull'evasore parassita sociale) che, probabilmente, nel diritto tributario, è l'ultima carta da giocare, quella della disperazione. Messa in questi termini la questione, potenzialmente tutti i risparmi fiscali sono abusivi!
Non va dimenticato inoltre che, come si è scritto all'inizio, il principio del divieto di abuso del diritto si sostanzia nell'attribuire all'amministrazione un potere, che essa può esercitare dopo che è compiuta l'operazione e non nell'imporre al contribuente un dovere. Non può certo immaginarsi, infatti, che vi siano doverosi comportamenti del contribuente con riguardo a condotte di "abuso del diritto" fondate su "principi generali", frutto, come s'è visto, di vaghe formule giurisprudenziali.
E' come dire che il contribuente deve essere in grado di salvaguardare lo "spirito della legge" più di quanto abbia fatto lo stesso legislatore, adeguando di conseguenza i propri comportamenti. E non è finita qui. La “storia” del principio del divieto di abuso del diritto, la sua evoluzione, il suo ambito applicativo, i casi controversi, hanno sempre riguardato comportamenti imprenditoriali.
La ragione è ovvia: solo in campo imprenditoriale è possibile discutere di “business”, di “valide ragioni economiche”, di “ragioni economicamente apprezzabili” e così via.
Ma in Italia, si sa, ti danno un dito e ti prendi tutto il braccio. L'amministrazione finanziaria, facendosi forte del principio del divieto di abuso del diritto, entra a gamba tesa anche nelle vicende familiari. E contesta, ad esempio, la rinuncia a un diritto (es. la rinuncia a un'eredità) pretendendo che il contribuente dimostri che essa è determinata da valutazioni economiche apprezzabili (e sindacabili da parte del giudice). O, come accaduto di recente, una donazione dal padre ai figli, atto rispetto al quale, per definizione, non vi è alcun interesse economico del donante (il quale dovrebbe, paradossalmente, dimostrare che non ha donato, come dice il codice civile, per spirito di liberalità, ma per ragioni economiche...). E gli esempi potrebbero continuare (ma dovrei entrare in dettagli eccessivamente tecnici).
In definitiva un “abuso” del “divieto di abuso”, che diviene il grimaldello per “fare cassa”. Con conseguenze devastanti anche per lo sviluppo economico del paese. Perchè le azioni del fisco in questo settore hanno cambiato il modo di ragionare di imprese e cittadini. In qualsiasi operazione economica si tende a vedere lo spettro dell'abuso del diritto e non di rado si sceglie la via più onerosa per evitare di finire sotto le grinfie del famelico fisco italiano. Nessuna certezza, solo rischi. Con buona pace della crescita e dello sviluppo economico del paese.
E, per concludere, una citazione del buon Voltremont (la citazione è riportata in numerosi interventi sul web, la fonte è un articolo scritto su Il Sole 24 Ore del 23 aprile 1986 che non sono però riuscito a reperire). Sapete cosa diceva il nostro? Citava un celebre caso deciso dalla House of Lords (IRC v Duke of Westminster, qui il sommario), in cui uno dei Lords (Lord Tomlin) affermava che «Nessuno è tenuto a costruire il proprio fienile in modo che il fisco vi entri con il forcone più grosso» (non sono riuscito a trovare l'intero testo della sentenza ma pare che in realtà Lord Tomlin, uno dei Lords, avesse invece affermato «Every man is entitled, if he can, to order his affairs so that the tax attaching under the appropriate Acts is less than it otherwise would be»).
Ottimo. E' una questione importante, che sta prendendo pieghe sempre peggiori.
Faccio un altro esempio: la cedolare secca sugli affitti, il cui scopo è evidentemente ed esclusivamente un risparmio fiscale per alcuni contribuenti.
Dobbiamo aspettarci che sia considerata pratica "elusiva" l'applicazione di tale regime, dato che non ha alcuna ragione economica se non il risparmiare un po' di imposte?
mi pare che la questione della cedolare secca,non c'entri nulla con tutta la questione di abuso del diritto.
Comunque,riguardo all'articolo,trovo che non c'entrasse nulla con l'argomento neanche il riferimento alla questione morale legata all'evasione e agli spot:invece è proprio una questione anche morale,visto che io devo pagare aliquote piu' elevate a causa di chi evade le imposte.