Lo spunto al dialogo fu un mio articolo sull'eterna questione "pensioni" e sulla sempre drammatica necessità di ridurne la spesa totale in modo rapido e sostanziale. Questo spiega l'incipit iniziale di Luigi, ma il tema è poi diventato subito molto più generale. L'oggetto del nostro dialogare, quindi, non sono le pensioni per se ma, come dice il titolo, la nozione di "diritti acquisiti" e l'esistenza (e giustificazione) della "discrezionalità politica". Ossia del fatto che la politica possa/debba cambiare le carte in tavola a discrezione della maggioranza che governa.
Luigi: Sull'opportunità economica di adeguare certe pensioni posso essere daccordo, ma siamo proprio sicuri sicuri che sia cosa buona decidere che, per principio, lo stato può tranquillamente tornare sulle proprie promesse (implicite o esplicite) a mezzo di nuova legislazione? Ossia, che vi sia praticamente nulla che lo stato (meglio: la politica, ossia la combinazione di esecutivo e legislativo) non possa modificare, alterare o rinnegare una volta ottenuta la maggioranza costituzionalmente richiesta? No perché le implicazioni non sono proprio desiderabili, almeno in linea di principio.
Michele: A me sembra che la "politica" sia proprio questo, ossia l'esercizio continuo - sotto alcune regole, ragione per cui il problema forse sono le regole sotto cui la politica esercita il prorio ruolo - del potere di discrezionalità. Non trovo nulla di nuovo o di eccezionale, in via di principio, nel modificare legislativamente le pensioni in essere. Infatti, ogni volta che viene modificato il codice fiscale, cos'altro si fa se non tornare su promesse (implicite o esplicite) fatte in passato? Ogni volta che si stampa più (o meno) moneta, cosa si fa? Ogni volta che si modificano delle partite di bilancio, trasferendo risorse da una spesa ad un'altra, cosa si fa? Ogni volta che si sposta personale pubblico (all'estero, in Italia è impossibile) da un ministero ad un altro, da una regione ad un'altra, da una mansione ad un'altra e gli si cambia il profilo di carriera, cosa si fa? Ogni volta che, in passato, si modificarono, rendendole maggiormente generose, le regole del sistema pensionistico, che cosa si fece? Non violarono forse allora i "diritti acquisiti" di chi, con i propri contributi, quelle pensioni avrebbe dovuto finanziare, ossia delle generazioni future, fossero esse nate o non alla data della modificazione?
Luigi: Alcune delle cose che hai menzionato sono simili alle pensioni, altre meno, ma non vale la pena entrare nel dettaglio. Assumiamo che siano tutte come le pensioni, ovvero possano essere rappresentate con il seguente modello: 1. Al tempo T vi sono individui che devono prendere decisioni irrevocabili che hanno conseguenze al tempo T+1. 2. Il loro benessere al tempo T+1 è determinato da una decisione individuale e da una decisione politica. 3. C'è una qualche ragione per affermare che al tempo T gli individui siano coordinati su una specifica aspettativa, la promessa, riguardo la decisione politica futura (ad esempio, c'è una legge in essere). Nei tuoi esempi, la politica può fare quelle cose, fino a quando come comunità si riconosce allo stato il monopolio sulla "violenza", nel senso che può cambiare leggi (in generale, può cambiare idea) e imporre il rispetto con la forza. Ora, il fatto che lo stato possa rimangiarsi le promesse dopo che gli individui hanno affondato (sunk) le proprie decisioni è una cosa buona o da evitare? Beh, dipende, ma non ti devo insegnare io che forse non è sempre una cosa buona, no? Un esempio banale. Se invece delle pensioni stessimo discutendo di politica monetaria, sostituendo la corte costituzionale con la banca centrale, probabilmente diremmo che si, è buono avere un'autorità indipendente che limiti il potere discrezionale della politica. Quello che trovo sbagliato è far passare l'opportunità economica (OGGI, per tanti motivi, è meglio che lo stato si rimangi la promessa fatta) per un principio generale secondo il quale è SEMPRE meglio che lo stato abbia la possibilità di rimangiarsi le promesse, senza vincoli, con l'argomento che *tanto lo fa sempre*.
Michele: L'argomento mio non è che "lo stato" (usiamo questa abbreviazione al posto di "potere esecutivo&legislativo con il supporto della maggioranza costituzionalmente richiesta", che è un po' troppo lungo) sia giustificato nell'uso della discrezione al tempo T+1 sulla base del fatto che ha già usato la discrezione al tempo T, T-1, eccetera. Il mio argomento è che la politica altro non è che decisione discrezionale sotto i vincoli che la costituzione prevede. Mentre possiamo discutere (normativamente) di quali siano gli ambiti del mondo che dovrebbero essere, costituzionalmente, esclusi dall'intervento della politica (dello stato), una volta che concediamo allo stato il diritto di legislare nel campo X allora la discrezionalità, prima o poi, apparirà, qualsiasi sia X. Questo non perché sia "bene" o "male" essere discrezionali, ma perché è inevitabile. In altre parole, ed usando un'analogia che gli economisti capiscono al volo, "essere discrezionali" è imposto dalla tecnologia della politica, non è una scelta dovuta alle preferenze. L'unica maniera per escludere la discrezionalità è fare senza stato, allora la "politica" diventa solo esercizio di discrezionalità individuale, privata.
Luigi: Stai assumendo vincoli costituzionali dati, mentre io li vorrei scegliere. Continuando ad usare termini che gli economisti capiscono al volo, io la metterei così. La tecnologia determina il timing del gioco, l'insieme delle scelte a disposizione della politica (il feasible set) lo possiamo scegliere quando scriviamo la costituzione (noi costituente illuminato). D'altronde, per come lo percepisco io, che giurista non sono, un “diritto acquisito” non è altro che una decisione che viene tolta dal feasible set del legislatore. La logica, se vuoi economica, con cui si può giustificare un diritto acquisito è di risolvere il gigantesco problema di hold-up implicito nei punti 1-3 del mio messaggio sopra. Nota che in questo contesto il problema è aggravato dal fatto che la “politica” al tempo T+1 ha una funzione obiettivo diversa dalla “politica” al tempo T. Come in ogni buon problema economico c'è un trade-off, tra possibilità di impegnarsi e perdita di flessibilità che da questo ne deriva. Sai tanto quanto me che questo è il tema antico del "rules vs discretion" e che la risposta della teoria economica, su questo tema, è abbastanza chiara ed univoca.
Michele: Va benissimo, scegliamo i vincoli costituzionali. Anzitutto, però, riconosciamo che non v'è nulla di speciale nelle promesse pensionistiche: se io investo nella casa e trent'anni dopo mi cambi tassazione, l'effetto è drammatico lo stesso. Se accumulo e mi cambi le tasse di successione idem. Se investo nel comparto X perché il commercio internazionale è proibito e poi mi fai NAFTA o mi entri nella UE dieci o venti anni dopo, son amari comunque. Questi sono alcuni dei casi che, infatti, Kydland e Prescott (e tanti altri) avevano in mente nel discutere di rules vs discretion. Riconosciamo, in secondo luogo, che, nella stessa misura in cui il futuro è imprevedibile per l'agente economico privato, lo è anche per quella cosa che chiamiamo stato: le circostanze cambiano, le condizioni demografiche, ambientali, d'approvigionamento energetico, tecnologiche cambiano. Soprattutto, cambiano i rapporti di forza fra gruppi sociali. E la politica è, al 51% almeno, attività redistributiva. Quindi, nella misura in cui all'agente privato riconosciamo il diritto di rimangiarsi le sue promesse e di cambiare piani quando c'è lo "shock" (anzi, teoriziamo sia "efficiente" che lo faccia) la stessa logica implica che anche l'agente chiamato "stato" deve poter cambiare piani e rimangiarsi le prommesse fatte quando c'è lo "shock". Mi sembra importante riconoscere anzitutto questo fatto. Che l'esistenza di "shocks" e l'imprevedibilità del futuro introducano ambiguità - nel senso di permettere all'agente che chiede di modificare le regole esistenti di spacciare come "shock esogeno" quella che invece è una opportunistica scelta personale - vale sia nel caso dello stato che nel caso dei privati. La letteratura "contrattualistica" sul tema è gigantesca ed io ho sempre trovato sorprendente che, nelle applicazioni, essa tenda a concentrarsi sui contratti fra due agenti privati e quasi mai su quelli fra "stato" e "cittadino". Riconosciamo infine, in terzo luogo, che mai e da nessuna parte lo stato è benevolente ed agisce nell'interesse della "collettività". Qui, a mio avviso, sta il limite fatale della ricerca economica sul tema "rules vs discretion": interessante ma irrilevante, perché prigioniero di un'illusione, ossia che la politica non sia anzitutto conflitto redistributivo: lo è. Lo stato agisce, anzitutto, nell'interesse dei gruppi sociali che lo controllano e non è certo sua priorità cercare politiche che siano lungo la frontiera di Pareto. Non nego sarebbe desiderabile che così fosse, ma questa desiderabilità appartiene alla stessa categoria ontologica della "vita eterna" o dell'uomo "buono e generoso": fantasie desiderabili. Se vogliamo disegnare una costituzione che serva nel mondo reale, meglio farlo sotto questi tre vincoli che chiamerei: (1) discrezionalità immanente, (2) incertezza del futuro, (3) conflitto fra interessi.
Luigi: I tuoi (1)-(3) me li compro subito, con una precisazione. La “misura in cui” riconosciamo al privato il diritto di cambiare idea non è necessariamente ampia, almeno se sono coinvolti interessi di terzi. Il motivo dell'esistenza dipromesse scritte in contratti formali, in cui si specifica ex-ante rispetto all'incertezza chi deve fare cosa in quale stato del mondo,delegando l'eventuale esecuzione forzata ad una parte terza - il giudice - invece che lasciar liberi gli agenti di prendere decisioni ex-post, è esattamente quello di consentire agli agenti di “legarsi le mani”. Il contratto è vincolante (e quindi rilevante) proprio quando ex-post gli agenti non farebbero quello che hanno promesso ex-ante. Nota anche che, in un'interpretazione diciamo estensiva, questo discorso vale pure quando il contratto è incompleto ma specifica i diritti residuali di decisione (e.g. la proprietà privata). Qui abbiamo un problema che io trovo interessante: dove sta l'analogo della "residualità" nel caso dello stato, chi è l'azionista di maggioranza che si prende i rischi residui oltre a, ovviamente, gli eventuali benefici superiori agli attesi? Nelle relazioni economiche governate dal diritto privato "capitalista" questa figura è chiara, è l'imprenditore o, appunto, il capitalista. Tale residualità, che è l'altra faccia dell'attività imprenditoriale, definisce quella che è probabilmente la sua maggiore utilità sociale. Negli schemi costituzionali degli stati contemporanei tale residualità è assente e questo, a mio avviso, causa seri problemi quando affrontiamo il tema dei diritti acquisiti. Non c'è alcuna entità che sia "responsabile ultimo" delle promesse fatte in passato che ora, cambiate le circostanze, si decide di violare. È anche vero che, per vari e ovvi motivi, impedire del tutto la rinegoziazione delle promesse non sarebbe ragionevole (non uso “efficiente” perché qui è un concetto scivoloso e complicato). Infatti, gli ordinamenti prevedono vari modi di organizzare il default (e.g. le procedure di bancarotta), che in via teorica potremmo ordinare con il relativo costo che l'ordinamento impone a chi vuole rimangiarsi una promessa. Credo sia ragionevole assumere che un mondo con contratti formali, con annesse procedure costose di default, è meglio di un mondo senza. Trasponendo, il costo idealeda far sopportare allo stato per rimangiarsi le promesse non è infinito, ma probabilmente non è neanche zero.
Fin qui l'analogia funziona più o meno bene, e continuerebbe a funzionare se lo stato fosse un agente (quali che siano le sue preferenze costanti nel tempo). Credo che la fondamentale differenza sia nel tuo punto (3). A differenza delle promesse tra privati, una promessa dello stato è un impegno che il gruppo sociale che lo controlla al tempo T prende per il gruppo sociale che lo controlla al tempo T+1. Mentre al tempo T+1 è ovvio che, sia per un individuo che per un gruppo sociale, vi è un incentivo a rinnegare le promesse costose, gli incentivi individuali e sociali sono drammaticamente differenti al tempo T, semplicemente perché un individuo si impegna contro se stesso, un gruppo sociale impegna le risorse di un altro gruppo sociale. Questo banalmente genera un incentivo ad impegnarsi troppo, e questo argomento è forse il più convincente a favore di maggiore discrezione e meno ridigità.
Michele: La tua analisi è chiarissima e completamente condivisibile. A me sembra che tu individui il punto chiave che rende il problema dei "diritti acquisiti" (pacta sunt servanda) irrisolvibile, almeno teoricamente, nell'ambito pubblico (ossia, quando una delle controparti è lo stato) mentre lo è (almeno teoricamente) in quello privato (quando entrambe le parti sono private ed esiste un arbitro esterno, lo stato appunto). Il punto chiave viene dal combinato disposto di due osservazioni tue: (i) non esiste, nell'ambito costituzionale, un analogo dell'imprenditore-capitalista che, nel fare promesse, se ne assume i rischi futuri oltre che il diritto agli eventuali benefici. In teoria questa figura potrebbe essere "la cittadinanza" che al tempo T approva certe leggi. Ma questo soggetto non esiste più (neanche nel caso in cui al tempo T la decisione sia stata unanime) al tempo T+1, che è quando la residualità andrebbe esercitata. Perdippiù è nella natura stessa della democrazia che le decisioni (sia a T che a T+1) vengano prese dalla maggioranza: non solo le due maggioranze son quasi sempre diverse ma esse sono, comunque, non identificabili di fatto a meno che non trasformiamo i parlamentari in "azionisti" responsabili in solido delle conseguenze economiche delle loro decisioni. Un'idea teoricamente attraente ma del tutto non implementabile. Peggio ancora: se la maggioranza a T+1 è completamente disgiunta da quella a T allora la prima ha un incentivo a "fregare" la seconda scaricando su di essa gli oneri delle promesse che fece al tempo T e che ora, al tempo T+1, la nuova maggioranza disattende. Ritorniamo, insomma, al problema eterno (che la teoria economica, fatte salve pochissime eccezioni continua ad ignorare) per cui la politica economica è anzitutto gestione del conflitto fra interessi. Insomma, torniamo al problema del potere e dell'arbitrio che i sistemi democratici hanno solo parzialmente attenuato: l'arbitrio discrezionale non è più appannaggio del solo "dux" ma della maggioranza. Ma sempre discrezione ed esercizio "arbitrario" del potere rimane. Hic sunt leones.
Per parte mia vi è una sola soluzione, che riconosco essere più teorica che pratica, ma almeno teoricamente mi sembra regga. Ossia quella dello "stato minimo" definito costituzionalmente: restringere al massimo, in ambito costituzionale, i terreni su cui la politica (lo stato) può legiferare (redistribuendo, di fatto, dalla maggioranza a T a quella a T+1) permette di ridurre al minimo quei rischi che abbiamo individuato nel nostro dialogo e che la discrezionalità del potere politico induce. Il caso del debito greco è un esempio da manuale: chi, in Grecia, è responsabile per le conseguenze odierne degli impegni di debito e spesa presi negli ultimi vent'anni dalle maggioranze politiche che hanno governato quel paese? Lo stato minimo dà una risposta di second best, sia chiaro: restringendo le aree in cui lo stato interviene come parte contraente (invece che come pura parte terza regolante, ossia come giudice almeno teoricamente imparziale di contratti fra privati) minimizza i danni della discrezionalità ma non li elimina mai del tutto. Questa mi sembra la morale teorica del nostro dialogo: in politica il first best non esiste ed il second best, pur teoricamente possibile, è praticamente molto ma molto difficile da implementare. Il potere forse logora chi non ce l'ha (prima) ma, prima o poi, logora un po' tutti.
P.S. Luigi&Michele: Ve ne sono svariate altre di morali teoriche di questo nostro dialogo ma le lasciamo ai lettori o a futuri articoli. Una vale la pena di notarla brevemente perché sollevata anche nel recente articolo di Gianfranco Savino qui su nFA. Ed è quella del ruolo delle istituzioni sovranazionali o internazionali nella gestione dei conflitti in cui almeno una delle due parti sia uno stato sovrano. Lasciamo ai lettori stabilire le relazioni che infatti sono palesi anche con gli altri temi che Savino ha sollevato nel suo post.
esistono, in effetti.
Finora gli interventi sulle pensioni sono stati letti come imposizioni di natura tributaria a carico di una particolare categoria di contribuenti, in violazione del principio di uguaglianza: credo sia inutile discutere dell'esattezza di questa lettura, se ne deve tenere conto.
Il discorso svolto nell'articolo parrebbe prospettare un intervento di tipo diverso, consistente nella ridefinizione dei trattamenti pensionistici. Se così fosse, andrebbe incontro ad un problema politico/giuridico enorme: si tratterebbe, invero, di una parziale espropriazione dei pensionati, forse giustificabile con ragioni di pubblica utilità quali quelle addotte in particolare da Michele.
Ma l'espropriazione richiede un indennizzo che dovrebbe pur sempre essere parametrato al valore del bene: nella specie, alla differenza tra i trattamenti in essere e quelli futuri, verosimilmente attualizzata nel momento in cui essa avviene. I pensionati percepirebbero una tantum quanto avrebbero percepito nella loro vita residua o, forse, una parte di tale importo: ma mi pare proprio che le casse dell'erario ne sarebbero compromesse.
Se le pensioni fossero pari alle contribuzioni versate capitalizzate e rateizzate mensilmente in base a criteri attuariali allora una loro decurtazione sarebbe un esproprio. Poiché invece il loro importo è stabilito dalla Legge e il legame con i contributi versati è piuttosto labile e irregolare né consegue che la Legge medesima può modificarne l' importo senza che qualcuno possa dirsi espropriato. Se la Legge dà, la Legge toglie. Oppure può solo dare ? Peccato che ciò sia impossibile...