La situazione potrebbe essere molto semplice: dei soggetti privati vendono delle quote societarie a un altro soggetto privato. Questo succede perché i primi valutano il valore delle loro quote inferiore al prezzo di vendita, mentre l’acquirente giudica a sua volta quel prezzo inferiore al vantaggio che ne trarrà.
Ovviamente non c’è bisogno di ipotizzare errori o malafede: quelle quote possono avere effettivamente un valore diverso nelle mani dei vecchi e dei nuovi proprietari. Questo può dipendere in generale da molte cose: capacità gestionale, orizzonti temporali di riferimento, accesso al credito e capacità di generare sinergie. Un senatore del PD ha definito il prezzo “vile”; mi chiedo cosa questo voglia dire, oltre ad associare impropriamente una categoria morale a uno scambio di quote societarie in cambio di denaro.
Qui occorre andare un po’ più nel dettaglio, andando a vedere chi sono i soggetti coinvolti: da un lato abbiamo una compagnia telefonica (Telefonica, appunto), mentre dall’altra abbiamo delle banche (Generali, Mediobanca e Intesa San Paolo). Dal momento che Telefonica e Telecom si stanno contendendo i mercati di Argentina e Brasile, dire che la prima guadagnerà dalla capacità di generare sinergie in questi due mercati mi sembra quantomeno un eufemismo.
Le banche invece trovano in questo accordo una via d’uscita da un ruolo non loro nel quale si sono infilate (chissà come mai, eh?), ma soprattutto risolvono un nodo relativo al debito di Telco (la holding che controlla Telecom e che è il vero oggetto della transazione) facendolo pagare a Telefonica. Non fa una piega: il debito è anche loro, ma i soldi con cui verrà ripagato saranno spagnoli, in cambio del controllo di una holding del quale non hanno poi in fondo tanto bisogno (non credo che tre banche abbiano un piano industriale per le telecomunicazioni). Nel dettaglio, parte di quel debito verrà pagato proprio con la liquidità che Telefonica avrà utilizzato per sottoscrivere l’aumento di capitale che le consegnerà la maggioranza di Telco.
Insomma, va tutto bene e non c’è proprio niente su cui fare i criticoni? No, ci sono molti punti da evidenziare, ma più che storcere il naso fanno venire l’amaro in bocca.
Innanzitutto Telefonica è riuscita ad avere un vantaggio incolmabile nei confronti di ogni possibile altro acquirente. Questo vantaggio non è stato ottenuto ieri, ma 6 anni fa, quando l’azienda spagnola è entrata in Telco, e deve moltissimo alla passione italiana per fare la grande impresa senza dover rendere conto a noiose autorità e soprattutto senza soldi propri. In particolare questa passione ha avuto due effetti determinanti: Telecom Italia con una holding controllante al di sotto del 30% e la ricerca di soldi senza troppe pretese di voci in capitolo.
Telefonica vede quindi l’anticamera alla sala dei bottoni del suo principale concorrente su due mercati molto promettenti e fa un’offerta che viene accettata, dal momento che permette a Telco di non cedere il controllo ad altre compagnie straniere (fra cui ATT) che si erano fatte avanti. Ci sono stati patti e rassicurazioni, ma la compagnia spagnola sapeva che la porta fra l’anticamera e la sala vera e propria non aveva scritto OPA sulla serratura.
Sono passati 6 anni ed ecco che quella porta viene aperta, e il sistema per non dare voce in capitolo agli altri soci Telecom sta funzionando. Questi ultimi sono infatti tagliati fuori dai giochi: non solo non c’è l’obbligo di un’offerta pubblica, non solo gli accordi non sfiorano neanche le quote Telecom, ma è anche difficile che si possa fare avanti qualcuno a contrastare l’offerta di Telefonica. In fondo Telco è roba privata, ma Telecom è una società quotata; il problema è che forse non esiste un soggetto in grado di guadagnare di più di Telefonica dal controllo di Telecom (grazie ad Argentina e Brasile) né di spendere così poco per ottenerlo. Telefonica sta firmando un assegno di 324 milioni di Euro (in realtà le cose sono più complesse, ma non cambiano l’ordine di grandezza), un altro concorrente che volesse oggi acquistare più azioni di Telecom rispetto a quel 22.39% controllato da Telefonica dovrebbe mettere in gioco un cifra superiore al miliardo e mezzo di Euro (e probabilmente vicina ai due miliardi); una bella differenza.
L’amaro in bocca resta per via del fatto che forse vendere prima il controllo avrebbe preservato il valore delle azioni, tutelando quindi gli investitori. Ma visto che la tutela di questi ultimi non mi sembra una priorità, in Italia, pensiamo invece agli utenti: quello che è successo è un male per loro? Telefonica sarà pure attratta dai mercati sudamericani, ma credo abbia perfettamente in mente il fatto che il mercato italiano contribuisce per più del 50% alla fatturato della compagnia. Ho forti dubbi nel credere che verrà smantellato e che rimarremo senza telefoni e senza internet. Ho anche forti dubbi che il nuovo corso porti a spontanei comportamenti virtuosi, ma hai visto mai che per motivi di immagine da ci possano essere dei provvedimenti antitrust da parte delle autorità competenti. Non che mi aspetti nulla di serio, ma piuttosto che niente...
Insomma, niente di drammatico: una compagnia privata passa di mano, per gli utenti forse non cambierà nulla, i soci di minoranza vengono per l'ennesima volta bypassati e il capitalismo italiano rimane vittima (?) dei meccanismi che ha messo in piedi per poter far fare a qualche persona il capitano d’industria con i soldi altrui.
Le reazioni però sono, come sempre, indignate. Appaiono gli appelli all’”Italianità”, come se io consumatore avessi un qualche beneficio dal fatto di pagare un servizio a un Italiano piuttosto che a uno Straniero™. Seguendo questa logica, dovrei fare pressione al mio vicino perché venda la sua macchina usata a qualcuno della zona e non a uno di fuori: semplicemente non capisco con che diritto potrei farlo e neanche a quale scopo. Logica fallace, quindi, e retorica desueta, sulla quale non vorrei fermarmi più di tanto.
Al limite, quello che è veramente interessante è vedere come signori che in passato hanno fatto dell’”Italianità” una battaglia di principio (Alitalia vi ricorda qualcosa?) questo giro se ne stiano zitti e buoni… e viceversa! Che siano queste preferenze rivelate la prova che forse non c’è effettivamente una logica fallace né una nostaglia degli stati nazionali di fine ottocento, ma solo una difesa di piccoli interessi privati di soggetti vicini a qualche clan o area di appartenenza?
Ma torniamo alle reazioni, che mi offrono un ultimo spunto di riflessione: in questi casi si usa spesso l’immagine dei gioielli di famiglia che vengono (s)venduti. La ritengo una metafora gravemente fuorviante ma che restituisce bene la percezione italiana dell’economia: un “gioiello”, ovvero un oggetto statico che ha un valore intrinseco, tuttalpiù con un prezzo variabile con le condizioni di mercato. Al gioiello certamente non sono associabili meriti o demeriti gestionali (al limite, lo si può lucidare). Una società non è mai così: è un oggetto dinamico, in continua evoluzione, il cui valore dipende fortemente dalla capacità di generare o meno flussi di cassa. Di conseguenza il suo valore non può prescindere da chi la gestisce.
Dipingere una società come un gioiello azzera la percezione del valore del management (cosa vorrebbe dire a questo punto “gestire male”?), evocando in più immagini di squallore associate alla sua vendita: chi è che potrebbe mai fare una cosa simile? L’immagine che viene in mente è quella di un nobile decaduto che vende quello che gli è rimasto in cambio di pochi spicci con cui possa vivere ancora qualche giorno nell’illusione che nulla sia cambiato.
Vorrei dire che non è vero, che vendere una società può essere un modo per ottenere risorse per fare altro, un insieme di cose sporche su cui buttare fatica per far nascere qualcosa di buono per il futuro (ricordate i versi di De André sui diamanti e il letame?). Però è un’immagine terribilmente azzeccata, questo nobile decaduto che non si accorge che il suo mondo è diverso da quello che crede.
Molti si lamentano per il motivo secondo cui una società pubblica o statale debba essere venduta o privatizzata. Chiedono sempre che venga gestita meglio, ma mai provare a spiegare come possa essere gestita meglio dallo Stato. Il modo c'è, ma pare sia "immorale".
Rimango sorpreso quando invece si parla di italianità a proposito di un'azienda privata che ha sede in Italia. Consideravano il male il privato italiano concorrente dello Stato, e ora che vende ad uno straniero (parola che non ha più senso in questo mondo) parlano di nazionalismo? Continuo a pensare che in Italia ci siano troppe cose senza senso a partire dall'opinione pubblica, o forse è stata talmente forte la propaganda passata ultradecennale che ormai invertire la rotta sembra un'impresa impossibile.
EDIT
Vegas dice bene quando "non si può avere paura degli stranieri e chiedere contemporaneamente soldi stranieri". Solito problema psicologico italiano: chiediamo investimenti esteri e contemporaneamente facciamo di tutto per avere credibilità zero.