La teoria del ciclo economico di Mises e Hayek ha almeno una cosa in comune con l’oro: sono entrambi anticiclici. Gli austriaci vengono dimenticati durante il boom, quando hanno qualche consiglio da dare, e riscoperti durante la recessione, quando è ormai troppo tardi per evitare guai. Il recente articolo del Wall Street Journal su Peter Boettke (George Mason University), conferma la maledizione di Cassandra, come anche l’interessante lavoro di Diamond e Rajan del 2009 sull’effetto perverso delle politiche monetarie sull’illiquidità degli investimenti, in cui si cita e in parte si recupera la teoria di Mises e Hayek in una nuova veste “finanziaria”.
Quanto esporrò non è la teoria originale di Mises e Hayek, ma lo stato attuale della teoria, con alcune aggiunte mie personali. La teoria si compone di due tesi principali. La prima tesi è che una politica monetaria persistentemente espansiva, modificando i tassi di interesse, modifichi il rapporto costi/benefici dei vari tipi di investimento, producendo un eccesso di capitale fisso, bisognoso di un continuo flusso di nuovi investimenti complementari (risparmi) per poter essere fruttuosamente impiegato: questo è il boom insostenibile, in quanto la produzione dapprima aumenta, per poi diminuire in un secondo momento, anche bruscamente.
Questa tesi si presta ad una serie di obiezioni. Ne elenco quattro: a tre rispondo nella prima appendice perché le risposte non sono né semplici né concise, mentre alla quarta obiezione dedicherò la seconda appendice, perché qui secondo me c'è ancora del lavoro da fare per ottenere una teoria ben fatta, e ci sono almeno due strade da percorrere per gli austriaci (che finora hanno scelto la più impervia, apparentemente senza grossi risultati).
Perché l’espansione monetaria non genera semplicemente inflazione? Perché beneficia gli investimenti di lungo termine e non ad esempio i consumi? Come si modifica la struttura produttiva durante il boom e durante la recessione? L’ultima obiezione - il problema ancora aperto - è: perché la politica monetaria è non-neutrale proprio nel modo richiesto dalla teoria? Perché gli imprenditori "sbagliano"? Si assume forse che siano degli allocchi? Quest'ultimo problema, chiamato "ratex critique" (critica delle aspettative razionali), tocca le fondamenta stesse del modo di considerare la non-neutralità monetaria, ed è il più complesso di tutti.
Per farsi un'idea - prima di leggere l'appendice I - di quale possa essere la risposta alle prime tre obiezioni, è forse sufficiente affermare - al momento senza scendere nei dettagli - che durante il boom i prezzi sono tenuti stabili da livelli di crescita economica insostenibili, che il boom è caratterizzato da un eccesso di capitale fisso (qui sia Mises che Hayek avrebbero protestato per la semplificazione), creato perché le politiche monetarie espansive persistenti hanno l'effetto di ridurre il costo del capitale (abbassando il tasso di interesse lungo tutta la curva dei rendimenti), e questo capitale fisso aggiuntivo, che aiuta a produrre di più nel breve termine, non sarà rinnovabile nel lungo termine per mancanza di sufficienti risparmi, cioè andrà a scontrarsi con un eccesso di consumo durante la recessione.
La seconda tesi tipica dell’economia austriaca è che un tale stato di cose non può durare, e che una crisi è quindi necessaria, cosa che comporta una serie di problemi quali la necessità di spostare risorse dai settori che sono cresciuti troppo, la perdita di capitale (fisico e umano) fisso inconvertibile, e potenzialmente la crisi degli intermediari finanziari (banche). In pratica, la recessione è la risposta del sistema economico a problemi preesistenti, e consiste in un doloroso processo di aggiustamento.
Da dove vengano i problemi della recessione, cioè l’insostenibilità della crescita che si ha nel boom, lo chiarirò nella prima appendice. Ma cosa succede esattamente nell'economia durante una recessione? Qui rimando nuovamente all'appendice I per i dettagli, ma, in poche parole, succede che sia gli investimenti che i consumi crollano, che si ha un panico bancario, e che una parte della dotazione di capitale si rivela inutilizzabile (come le gru delle imprese di costruzioni dopo la crisi del settore) e ciò comporta una compressione della frontiera delle possibilità produttive.
Sebbene la teoria della crisi in qualche modo spieghi parte della gravità delle recessioni, nessuno degli elementi considerati dalla teoria poteva però spiegare la Grande Depressione, e dopo la “General theory” la teoria finì nel dimenticatoio. Nessuno infatti aveva previsto le politiche di Hoover e Roosevelt, le cui conseguenze sono state solo di recente chiarite da Cole e Ohanian [1].
È quindi necessario aggiungere una terza tesi: che oltre ai necessari e costosi cambiamenti strutturali, ci siano dei fenomeni di accelerazione che intensificano la crisi, ad esempio dovuti al crollo degli aggregati creditizi (come sosteneva l’austriaco Richard Strigl nel 1937), cosa che rende la teoria austriaca simile all’attuale letteratura sul credit channel, e alla teoria di Irving Fisher delle depressioni [2]. La principale differenza è che contrastare i fenomeni di accelerazione della crisi tende, per gli austriaci, a perpetuarne le vere cause, ad esempio attraverso il "loan evergreening", cioè la perpetuazione di investimenti da liquidare [3]. Per le teorie del credit channel, invece, in genere l'intervento è praticamente un pasto gratis, senza conseguenze di lungo termine.
Chiarito di cosa stiamo parlando, chiediamoci: la teoria austriaca serve, magari opportunamente aggiornata, a spiegare la genesi e l’evoluzione dell’attuale crisi? Per rispondere, ripercorriamo la storia che ha portato all'attuale situazione, partendo dal 1987, anno in cui, per la prima volta dopo la disinflazione di Paul Volcker, i mercati cominciarono a rendersi conto di poter contare sull'intervento della Federal Reserve di Alan Greenspan in caso di crisi. La "safety net monetaria" - per gli austriaci il moral hazard non è nato con i recenti bailout - si è poi successivamente attivata in diverse occasioni, con la recessione del 1990, la crisi di LTCM nel 1998, il Millennium Bug nel 2000, e l'Undici Settembre nel 2001. Proprio in questo periodo si cominciò a parlare di Greenspan Put [4], ma la Fed continuò imperterrita a socializzare rischi e costi (per approfondire questo punto fondamentale, si veda l'appendice II). Arrivati al 2007, però, la Fed si ritrovò senza più munizioni, e sono cominciati i guai veri. Questa “narrativa” giustifica la prima tesi: un lungo boom, prodotto dalle autorità monetarie, intervallato da tentativi di aggiustamento abortiti “manu monetari”: nel frattempo, i problemi strutturali sono aumentati, rendendo la necessaria recessione più grave.
In sostanza, la teoria del ciclo austriaca sostiene che le politiche di stabilizzazione creino un trade-off tra la stabilità del breve termine (cioè finché l’economia può permettersi il boom e la politica monetaria è efficace) e la stabilità di lungo termine (quando la Fed – o magari la BoJ – diventa impotente e l’economia ha accumulato tanti di quei problemi da bloccarsi, o collassare).
Sto parlando di moral hazard. Mises e Hayek conoscevano tale concetto? Mises scriveva nel 1928 [5] riferendosi alla politica monetaria inglese del XIX secolo:
“It was usually considered especially important to shield the banks which expanded circulation credit from the consequences of their conduct. One of the chief tasks of the central banks of issue was to jump into this breach. It was also considered the duty of those other banks who, thanks to foresight, had succeeded in preserving their solvency, even in the general crisis, to help fellow banks in difficulty.”
"Era normalmente considerato molto importante difendere le banche che espandevano il credito dalle conseguenze della loro condotta. Uno degli obiettivi principali delle banche centrali di emissione era intervenire [quando necessario]. Era anche considerato dovere delle banche che, per via della loro maggiore oculatezza, erano riuscite a rimanere solvibili, anche in tempo di crisi generale, aiutare le altre banche in difficoltà."
Nello stesso testo, Mises afferma che il fatto che il Peel Act (una legge del 1844 che impediva l’espansione di credito tramite banconote – ma non depositi) fosse sospeso ad ogni crisi lo rendeva incapace di prevenire l’espansione, visto che nessuno lo prendeva sul serio. Anche Hayek parlava esplicitamente dello stesso problema, scrivendo nel 1937:
“the fundamental dilemma of all central banking policy has hardly ever been really faced : the only effective means by which a central bank can control an expansion of the generally used media of circulation is by making it clear in advance that it will not provide the cash (in the narrower sense) which will be required in consequence of such expansion, but at the same time it is recognised as the paramount duty of a central bank to provide that cash once the expansion of bank deposits has actually occurred and the public begins to demand that they should be converted into notes or gold.”
"il fondamentale dilemma di tutte le politiche delle banche centrali è stato a malapena compreso: l'unico metodo efficace attraverso cui la banca centrale può controllare l'espansione dei mezzi monetari è rendere chiaro in anticipo che non fornirà liquidità quando richiesta come conseguenza di tale espansione, ma, allo stesso tempo, è stato riconosciuto come dovere fondamentale della banca centrale provvedere alla liquidità una volta che l'espansione dei depositi bancari è già avvenuta e il pubblico comincia a domandare la loro conversione in banconote, o oro."
Sul moral hazard tornerò nell'appendice II.
Tornando alla situazione attuale, l’economia americana consuma troppo, ha un deficit pubblico e un debito privato eccessivi, e deve gran parte degli investimenti domestici alla buona volontà degli investitori stranieri. Inoltre la struttura finanziaria è ancora in condizioni critiche, per via dell'eccesso di leva finanziaria e dell’intrinseca opacità di strumenti finanziari che hanno funzionato finché qualcuno ha provveduto alla loro liquidità. Ritroviamo qui la seconda tesi: i mercati necessitano di una pausa di riflessione, che oggi è chiamata “deleveraging”, e che Mises e Hayek chiamavano “liquidazione del malinvestment”. La differenza è che Mises e Hayek avevano in mente una crisi della struttura produttiva, e la crisi bancaria era solo la conseguenza secondaria di questa crisi (anche se verosimilmente è la componente che causa più danni in recessione).
(Breve nota metodologica: cosa significa "debito eccessivo"? Rispetto a cosa? La mancanza di una definizione operazionale di “malinvestment” - cioè di investimenti insostenibili nel lungo termine - limita l’applicabilità empirica della teoria di Mises e Hayek. Lo stesso vale per le bolle speculative: nessuno sa se esistono, e magari un rapido aumento delle quotazioni è fondato, o forse no. Operazionalizzare aiuterebbe a testare gli aspetti testabili della teoria, come ad esempio i movimenti della struttura produttiva nelle varie fasi del ciclo economico. I lavori a riguardo saranno una decina in tutto. Sicuramente si può fare di meglio.)
Oltre alla finanza, ci sono poi una serie di problemi a livello di produzione da tenere in considerazione, e che è troppo facile dimenticare quando si ragiona in maniera aggregata: la necessità di ristrutturare interi settori produttivi, la perdita di valore dei beni capitali (fisici e umani) in questi settori, etc. La teoria austriaca, basata sulle nozioni di eterogeneità, specificità e complementarità dei fattori di produzione, può microfondare ad esempio l’aumento del tasso naturale di disoccupazione che probabilmente è accaduto negli ultimi tre anni (rimando a questo post di O'Driscoll). Investigare queste questioni con un occhio all’eterogeneità e alla struttura produttiva è quindi importante, e i primi a farlo furono Mises e Hayek negli anni ’30. Oggi probabilmente non sono più soli.
Una delle conseguenze importanti della teoria è che la macroeconomia ha ben poco a che fare con la domanda aggregata: chi parla di domanda aggregata usa spesso un qualche modello semplificato in cui non c’è alcun motivo per una crisi salvo la rigidità dei prezzi, e poi ne deriva, come necessaria conseguenza, che l’inflazione aiuta. Ma se l’economia ha problemi strutturali, le politiche di domanda aggregata sono inutili: anzi, se queste politiche impediscono l’aggiustamento, sono dannose.
A questo punto occorre porsi una domanda fondamentale: le politiche monetarie anticicliche sono irrilevanti, necessarie, o dannose? Al giorno d’oggi, non esiste una teoria standard che consenta di giustificare la dannosità di lungo termine delle politiche anticicliche, mentre per l'irrilevanza abbiamo ad esempio le teorie del ciclo economico reale, e per la necessità quelle neo-keynesiane. La teoria austriaca può coprire questo buco, a patto che si riesca a microfondare la non-neutralità monetaria in maniera rigorosa (si veda l'appendice II), che è il più importante lavoro teorico che è ancora da fare.
Questa intuizione di base della teoria di Mises e Hayek è finora rimasta fuori dai modelli di equilibrio generale (DSGE) che sono alla base di tutte le altre teorie macroeconomiche: purtroppo, per una serie di motivi (di cui all'appendice II), la loro teoria non è facilmente integrabile in questa cornice teorica, e comunque finora di tentativi ce ne sono stati pochi. Se qualcuno tra i lettori arriverà in futuro ad un modello del genere (magari sul solco del paper di Diamond e Rajan di cui si è parlato), sappia che starà recuperando quanto dicevano Mises e Hayek negli anni ’30.
Appendice I - Dettagli della teoria e risposte ad alcune obiezioni
Alle prime tre obiezioni riportate nel testo ho risposto in un solo paragrafo, che temo fosse incomprensibile. Questa appendice sviluppa le argomentazioni accennate.
La prima obiezione tipica alla teoria austriaca è che l'espansione monetaria dovrebbe semplicemente generare inflazione: a riguardo ci sono tre possibili argomentazioni.
La prima è che l'inflazione può essere coperta da guadagni di produttività. Negli anni '20, e negli ultimi venti anni, l'innovazione tecnologica ha tenuto i prezzi sotto controllo nonostante la politica monetaria. Lunghi periodi di innovazione tecnologica (o guadagni di efficienza, come la deregulation o la globalizzazione) possono nascondere gli effetti inflazionistici dell'espansione creditizia. Senza innovazione, il boom insostenibile durerebbe di meno, e farebbe meno danni, perché le banche centrali si spaventerebbero prima. La stabilità dei prezzi, in buona sostanza, non implica la stabilità economica: contro la stabilizzazione dei prezzi si espressero molto chiaramente sia Mises che Hayek, in diversi scritti.
La seconda risposta è che il boom genera un aumento delle transazioni, e una rivalutazione degli asset, che implica un aumento della domanda di moneta. Se la domanda di moneta è correlata positivamente col livello di attività economica, infatti, questo frena gli effetti inflazionistici impedendo a questa di fluire verso i mercati dei beni finali. Si noti del resto che il paniere "ISTAT" contiene quasi esclusivamente beni finali, mentre l'espansione creditizia genera sì inflazione, ma inizialmente degli asset finanziari. Qui il problema è che il livello dei prezzi dei beni finali è dato dai flussi monetari impiegati per comprarli, e non dal flusso monetario complessivo, comprese cioè le transazioni sui beni intermedi (per flusso intendo il prodotto dello stock di moneta e della sua velocità di circolazione).
La terza è legata al concetto di crescita insostenibile, e quindi gioca un ruolo fondamentale nell'analisi che segue. La politica monetaria espansiva genera un aumento insostenibile della produzione, che può durare qualche anno (per i dettagli, si veda la terza obiezione, sotto). In questa situazione il sistema economico produce più di quanto sia sostenibile nel lungo termine, perché la produzione di breve termine è stimolata a danno di quella di lungo termine. Questo contribuisce a ridurre l'inflazione, aumentando l'offerta di beni finali.
Qui è da sottolineare una cosa: durante il boom i risparmi diminuiscono, e sia i consumi che gli investimenti aumentano (qui Hayek non era d'accordo con Mises, almeno in alcuni lavori: negava che ci fosse il "sovraconsumo"). L’apparente contraddizione (Il vincolo di produzione Y = C + I che fine fa?) richiede di introdurre il concetto di crescita insostenibile, che spiegherò tra poco. Comunque, il sovraconsumo non è una condizione necessaria della teoria, è solo una conseguenza naturale dei bassi tassi, e delle rivalutazioni patrimoniali.
La seconda questione è perché la politica monetaria stimoli gli investimenti anziché i consumi. Il canale di trasmissione austriaco è il tasso di interesse reale, perché la politica monetaria genera un margine di profitto tra il tasso di rendimento sugli investimenti e il costo del capitale che le imprese pagano agli intermediari finanziari (i.e., il primo non si adegua istantaneamente al secondo come avverrebbe in equilibrio generale, altrimenti la moneta sarebbe neutrale).
Forse è abbastanza semplice concludere che in linea di principio uno sconto persistente sul tasso di interesse abbia forti effetti sui beni capitali durevoli, ma effetti secondari sul “capitale circolante”. Si noti che la persistenza dell’effetto richiede una politica monetaria espansiva nel lungo termine, in modo da distorcere tutta la curva dei rendimenti. Risulta difficile infatti credere che una diminuzione di breve durata del tasso a breve comporti forti profitti nell'investire in beni capitali durevoli, ma se l'effetto liquidità è persistente la cosa diventa meno misteriosa.
La terza obiezione standard è: cosa succede alla struttura dell'economia durante il boom e la recessione? Non esiste un modello formale di produzione “austriaca”, e ciò che ci si avvicina di più sono i “triangoli di Hayek”, un costrutto usato in “Prices and production”, ma di cui non sono un fan. Anche Huston McCullogh [6] ha fornito un buon esempio di struttura di produzione in cui un mismatch temporale tra risparmi e investimenti genera una perdita netta di produzione sia nel presente che nel futuro. Quel che è certo è che nulla della teoria austriaca si può ricavare assumendo funzioni di produzione come Cobb-Douglass.
Propongo un "mio" modello, che non si trova pubblicato da nessuna parte ma credo sia abbastanza fedele all’idea originale di Mises e Hayek: supponiamo che un’economia abbia beni capitali durevoli che durano N periodi, e che alla scadenza sono da ricostruire da capo. Il fondo di ammortamento per il capitale fisso lo chiamo fondo A: sono le risorse che si accumulano per N periodi e che ricostituiranno il bene capitale alla scadenza. Poi c’è il fondo che serve per usare il capitale fisso e produrre ogni anno beni di consumo, che chiamerò fondo B. Attenzione ai ruoli di questi due fondi (per fondo intendo le risorse necessarie a comprare forza lavoro, materie prime, semilavorati e altro "capitale circolante").
Durante il boom c’è un picco della produzione di beni durevoli, che aumenta la dimensione del fondo A che sarà necessaria tra N periodi (badate bene: non subito), generando cioè una domanda futura di risparmi. Infine c’è un incremento del fondo B, perché i consumatori neooccupati, o con salari maggiorati, o con asset sopravvalutati, consumeranno di più, magari con spostamento di risorse a danno del fondo A. Quello che conta è che dopo N periodi ci sarà un picco della domanda di fondi per il rinnovo del capitale durevole in scadenza (Hayek lo spiega qui), ma ci sarà anche un elevato livello di consumo, e questo tiro alla fune tra le due domande incompatibili smetterà di spingere l’economia verso un livello di produzione insostenibilmente alto e diventerà un “binding constraint”: questo avviene però dopo N periodi, non subito.
Dopo N periodi, quando comincia la recessione, dapprima i consumi, troppo alti, vanno a togliere risorse al fondo di ammortamento del capitale fisso, il fondo A; nel frattempo, il capitale fisso, ormai troppo vecchio, diventa un collo di bottiglia per la produzione di beni finali, che non può più espandersi come prima e anzi probabilmente deve contrarsi; poi, parte di questo capitale fisso, in mancanza di investimenti e di fattori di produzione complementari (un aumento dei consumi sposta ad esempio i lavoratori verso il fondo B [7]), diventa submarginale, e smette di essere utilizzato, con conseguente disoccupazione; e le banche, che hanno un portafoglio di prestiti in rapido deterioramento, si vedono costrette a diminuire il livello di intermediazione (cosa che Hayek chiamava “deflazione secondaria”).
In questa teoria viene naturale che l’output gap sia anticiclico, ma ciò non è (necessariamente) un’inefficienza. Il capitale fisso creato nel boom è veramente submarginale, non è un problema di domanda aggregata come nei modelli neo-keynesiani.
Si deve anche notare che la crisi bancaria, in questo modello, è in larga parte endogena: nessuno shock esterno colpisce le banche, sono gli investimenti in essere che prima o poi si riveleranno fallimentari. La cosa è banale: se la struttura della produzione è insostenibile, prima o poi deve collassare, e le banche rimangono vittime del processo, e lo aggravano col “deleveraging”. Ovviamente possono esistere shock esogeni al capitale bancario con effetti macroeconomici: ma questa è la teoria del credit channel, non quella austriaca.
Non ci sono molti lavori “empirici” che abbiano investigato queste modificazioni strutturali, che ad occhio però mi sembrano compatibili con i “fatti stilizzati” dei cicli economici. La struttura della produzione nelle società capitalistiche è però così complessa che probabilmente si nascondono problemi del genere un po' ovunque: non è detto che ogni crisi segua esattamente il percorso precedentemente descritto. Ogni domanda di risparmi al tempo t+x, necessaria a completare gli investimenti iniziati al tempo t, quando si scontra con un eccesso di consumo al tempo t+x, produrrà una liquidazione degli investimenti, e quindi una crisi economica. Ogni specificazione della funzione di produzione con queste caratteristiche è sufficiente per avere un modello austriaco della struttura produttiva.
La teoria austriaca è agnostica sull'andamento del livello assoluto dei prezzi. Se le banche hanno problemi, può esserci deflazione; se continuano a pompare liquidità, prima o poi ci sarà inflazione. Mises e Hayek insistevano che l'inflazione (o meglio l'iperinflazione) fosse l'esito finale necessario del processo: dopo vent'anni di crisi giapponese credo si debba ammettere che problemi strutturali che inibiscono il processo di moltiplicazione della moneta possano durare molto a lungo.
Rimane da vedere perché la moneta è non-neutrale, e perché agisce sui tassi di interesse (reali) in maniera persistente. Se ciò accade, diventa relativamente semplice capire il perché dell'eccesso di investimenti in capitale fisso (il cui valore è interest-sensitive), il perché dell'eccesso di consumi (che aumentano col tasso di interesse e la ricchezza finanziaria), e quindi rimane da spiegare come mai tutto ciò accada a discapito del fondo di rinnovo del capitale fisso (che non è detto comunque che debba ridursi: l'aumento della quantità di capitale fisso rende necessario un fondo ben maggiore quando ci sarà la necessità di rinnovo).
Appendice II - Il lavoro teorico che andrebbe ancora fatto
Rimane da discutere il quarto problema: come fa la politica monetaria ad avere effetti persistenti sul tasso di interesse (reale)? Questo è un problema ancora oggi aperto.
Su questo argomento gli austriaci hanno un approccio argomentativo (ne hanno più d’uno, ma tratterò il migliore) che non mi convince del tutto, e quindi ritengo che ci sia ancora del lavoro da fare per microfondare il meccanismo di trasmissione che va dalla politica monetaria alla struttura produttiva attraverso la curva dei rendimenti. Proporrò inoltre un percorso argomentativo alternativo più graduale e più compatibile con l'economia standard, che allo stato attuale non si trova però nella letteratura austriaca, salvo un paper del 2001 [8].
L’approccio austriaco tipico parte da una considerazione secondo me vera, e poi salta troppo presto alle conclusioni. La considerazione vera è che i modelli standard (quelli da libro di testo) di economia monetaria non sono adeguati per lo studio del loro soggetto: se si assumono mercati completi, prezzi flessibili, aspettative razionali, ed equilibrio walrasiano, di fatto si sta dicendo che la moneta è superflua, e che non c’è motivo per detenerla. Essendo superflua, è abbastanza naturale che sia anche neutrale o quasi. Insomma, questi modelli non aiutano a studiare come la moneta influenzi il processo economico, perché le loro stesse ipotesi escludono che la moneta serva a qualcosa (già solo giustificare l'esistenza della moneta richiede ipotesi ad hoc): questo problema è inerente alla teoria dell'equilibrio generale, a meno di non introdurre frizioni apposite (come nei modelli neo-keynesiani).
Per provare a dare un'idea della visione alternativa austriaca, ho scritto questo paragrafo, che è così conciso che forse genererà più confusione che informazione. Gli agenti economici austriaci non conoscono tutto ciò che serve per raggiungere l'equilibrio generale, ma si avvicinano all'equilibrio generale in maniera non-walrasiana, cioè effettuando scambi prima che i prezzi finali si siano formati (i.e., scambiando "at false prices"). Attraverso questo processo, si genera il sistema dei prezzi, che è la guida necessaria per prendere decisioni "informate", rendendo possibile il calcolo di profitti e perdite. C'è cioè un feedback tra l'attività imprenditoriale, che ingloba le nuove informazioni nel sistema dei prezzi, e quest'ultimo, che funge da guida per la prima. In questo modello in cui gli scambi sono parte del processo che dovrebbe portare all'equilibrio, e non sono successivi all'instaurazione di questo, e in cui la moneta ha un ruolo chiave nel permettere la coordinazione tra gli agenti (permettendo la formazione dei prezzi e il calcolo dei profitti), ovviamente gli shock monetari non possono essere neutrali, perché la moneta sarebbe tale solo se gli agenti fossero così razionali e onniscienti da poterne fare a meno, cosa che va contro l'ipotesi di partenza (qui c'è un breve testo di Mises sulla non-neutralità monetaria, che parte proprio da queste ipotesi). Un'altra conseguenza è che gli agenti non possono essere così razionali da formare aspettative razionali: hanno limitazioni cognitive che impediscono di comprendere la struttura di tutto il sistema economico in cui vivono, e devono limitarsi ad "algoritmi di massimizzazione" più euristici e locali. C'è una stickiness nelle aspettative e nell'apprendimento legata al fatto che di fronte ad un problema nuovo non si conosce subito "la soluzione ottima", ma la nuova informazione deve diffondersi nei vari mercati attraverso processi di arbitraggio che richiedono tempo. La caratteristica più peculiare della "visione" austriaca consiste nell'analisi della coordinazione microeconomica in presenza di limitazioni - cognitive e informative - che impediscono un equilibrio immediato, come invece supposto dai "neoclassici" (per inciso: tutti i marginalisti sono neoclassici, anche gli austriaci: non sono neoclassici solo i marxiani, gli sraffiani e i post-keynesiani, al giorno d'oggi).
Il problema è che questo argomento non è sufficiente a provare la tesi degli errori imprenditoriali orientati verso un eccesso di investimenti fissi. Se anche la moneta avesse un effetto maggiorato nel mondo reale rispetto ad un modello neoclassico standard, questo non è di per sé sufficiente a dimostrare che l’effetto vada nella direzione indicata dagli austriaci.
Inoltre, questa linea di argomentazione richiede di ricominciare da Adamo ed Eva, eliminando la teoria dell’equilibrio generale, sostituendola con una teoria del processo di mercato al di fuori dell’equilibrio, e costruendo sopra quest’ultima una teoria monetaria alternativa. Io trovo più illuminante la visione austriaca di quella "neoclassica", ma ritengo anche che alla teoria monetaria austriaca manchi ancora qualche pezzo. I lavori di Mises e Hayek degli anni ’30, come anche alcuni lavori successivi, come questo libro di O’Driscoll su Hayek, cercavano proprio di rifondare la teoria monetaria su una teoria microeconomica diversa da quella allora (e tuttora) imperante. La quantità di insights che ne è derivata sul processo di mercato è secondo me rilevante, ma una teoria sufficientemente dettagliata non fu partorita allora, e tuttora non esiste.
Si può provare quindi un approccio più graduale. A parte [8], questo approccio non si trova in letteratura, è quindi fondamentalmente una mia elucubrazione. Innanzitutto, basta introdurre una qualsiasi frizione per generare una maggiore non-neutralità: un modello con una qualche frizione finanziaria potrebbe quindi generare risultati simili al modello di Mises e Hayek senza dover tornare ad Adamo ed Eva. Qualsiasi frizione va bene: essendo tutte sostanzialmente ad hoc, più frizioni vanno bene più la teoria è robusta.
Qui gli austriaci hanno sempre posto l’accento sugli effetti redistributivi delle iniezioni di moneta: chi ottiene per primo la nuova moneta compra prima dell’inflazione, mentre gli altri comprano dopo. Siccome non tutti i prezzi aumentano subito e della stessa quantità, alcuni guadagneranno e altri perderanno. Siccome la coordinazione di mercato avviene attraverso gli scambi, e non prima di essi, la reazione allo shock richiede tempo e non può essere istantanea. Lo Stato guadagna a danno dei cittadini, e l’imprenditore a danno dei risparmiatori: questo è chiamato “effetto Cantillon”. L'esistenza di questo effetto è fuori discussione, altrimenti non esisterebbero i falsari, e lo Stato non si sarebbe mai interessato alla moneta: l'effetto esiste anche nella letteratura standard (i.e., il signoraggio), ma non è pervasivo come nell'approccio austriaco, dove la percolazione della nuova monea attraverso i vari mercati genera una lunga sequenza di profitti e perdite (gli effetti redistributivi non richiedono variazioni del livello dei prezzi, come nei modelli di credito con inflazione non anticipata: è sufficiente che cambino i prezzi relativi in modo da generare profitti e perdite fittizi).
Il trucco dovrebbe essere (uso il condizionale: sto descrivendo una teoria che non esiste ancora) che se la politica monetaria è redistributiva, allora gli agenti economici cercheranno di sfruttarla per ottenere profitti, e quindi si potrebbe dimostrare che espandere il credito ed investirlo è la strategia dominante per banche e imprese [8]. Che il moral hazard abbia di questi effetti è fuori discussione, il problema è microfondarlo in modo da "forzare" gli agenti ad adottare proprio la strategia che gli austriaci finora hanno imputato agli "errori imprenditoriali" indotti dalle politiche monetarie.
Per fare un esempio: se le imprese possono decidere tra un investimento rischioso A e un investimento sicuro B, il moral hazard renderà l'investimento A meno rischioso e quindi genererà profitti per chi investe in A; inoltre, l'aumento della produzione farà diminuire i prezzi finali, e aumentare quelli dei fattori di produzione, riducendo quindi i margini di profitto di B (sto immaginando che A e B siano due tecnologie che usano gli stessi input e producono lo stesso ouput, ma hanno diversi livelli di rischiosità). Insomma, con un po' di lavoro, forse, si può dimostrare che l'investimento B è dominante su A in condizioni normali, ma diventa dominato da A in condizioni di credito facile.
Una volta dimostrato che la politica monetaria ha (sufficienti) effetti redistributivi, e che agisce sui canali creditizi, il "moral hazard" (per gli austriaci "l'effetto Cantillon") può diventare il motore teorico della non-neutralità monetaria. Il boom avviene perché la banca centrale genera moral hazard, le politiche anticicliche funzionano perché il mercato si dimentica (generando endogenamente ulteriore credito) dei problemi grazie al moral hazard, e il gioco finisce quando la banca centrale cambia politica (magari per via di pressioni inflazionistiche), oppure quando non è più in grado di generare effetti redistributivi sufficientemente forti da perpetuare gli investimenti "erronei". In quest'ottica, gli investimenti non sarebbero più neanche erronei: il problema diventerebbe che gli incentivi individuali non sarebbero adeguati a generare risultati efficienti.
Credo di aver elencato le difficoltà di creare una teoria del genere, però a me non sembrano insormontabili: è difficile essere fedeli alla teoria originale, ma non dovrebbe essere difficile replicarne i risultati senza ripartire dalle microfondazioni. Alcuni temi della ricerca macroeconomica contemporanea mi sembrano convergere su temi austriaci: credo che i tempi siano pronti per tappare i buchi rimasti nella teoria e recuperare le lezioni di macroeconomia che sono andate perdute con la rivoluzione Keynesiana, e che oggi sono largamente assenti dal dibattito macroeconomico, e soprattutto dalle politiche delle banche centrali.
Credo che l'approccio graduale che ho descritto possa dar luogo a qualche risultato valido in tempi relativamente brevi, mentre l'approccio "massimalista" di ricominciare dalla critica all'equilibrio generale - per quanto convincente nelle premesse e affascinante nelle conseguenze (e io sono convinto che sia un approccio migliore di quello walrasiano nel comprendere certi fenomeni economici) - sia una strategia a più lungo termine. Entrambe sono fondamentali per il futuro delle teorie austriache o anche, semplicemente, per lo sviluppo della ricerca economica.
Riferimenti
[1] Su Hoover, “What, or who, started the Great Depression”, Lee Ohanian, Journal of monetary economics, 2009, e, su Roosevelt, “New Deal policies and the persistence of the Great Depression”, Lee Ohanian e Harold Cole, Journal of Political Economy, 2004.
[2] “The debt-deflation theory of great depressions”, Irving Fisher, Econometrica, 1933.
[3] "Unnatural selection: perverse incentives and the misallocation of credit in Japan", Joe Peek e Eric Rosengren, American Economic Review, 2005.
[4] “Moral hazard and the US stock market: analyzing the ‘Greenspan Put’”, Marcus Miller, Paul Weller e Lei Zhang, Economic Journal, 2002.
[5] “Monetary stabilization and cyclical policy”, Ludwig von Mises, 1928. Si trova nella raccolta “Causes of the economic crisis” [http://mises.org/books/causes.pdf]
[6] “Misintermediation and macroeconomic fluctuations”, Huston McCullogh, Journal of monetary economics, 1981.
[7] “The Ricardo effect”, Friedrich von Hayek, Economica, 1942.
[8] “Expectations in Austrian business cycle theory: an application’s of the prisoner’s dilemma”, Tony Carilli e Gregory Dempster, Review of Austrian Economics, 2001.
Molto interessante. Una domanda da ignorante. Se ho capito bene, la teoria addossa la "responsabilità" della crisi ai banchieri centrali, che creano troppa moneta, e contemporaneamente riduce la responsabilità delle banche che agiscono da puri intermediari per allocare la moneta generosamente creata (en passant, esattamente il contrario dell'intepretazione prevalente della crisi attuale). La domanda è: i banchieri centrali sono stupidi (non capiscono i danni futuri dell'espansione monetaria) e/o criminali (li capiscono ma preferiscono soddisfare le pulsioni più basse dell'opinione pubblica, magari per essere riconfermati nella carica) ovvero sono "costretti" ad espandere dalle aspettative dell'opinione pubblica? In altre parole, mi sembra che sia necessario anche microfondare il comportamento dei banchieri centrali, non solo degli agenti
Io ho smesso di stupirmi quando i politici fanno cose insensate.
Esistono le microfondazioni del comportamento dei politici: si chiama public choice. Non conosco bene la teoria, ma sostanzialmente dice cose assolutamente evidenti: i politici sono miopi, raccontano balle, nascondono i costi, privilegiano le lobby organizzate, e fanno disastri, se non sono vincolati da leggi e costituzioni rigide.
Siccome la Fed non è vincolata da nulla - ha pure il problema del dual mandate, che praticamente concede al suo capo un certo margine di discrezione extra rispetto a Trichet - l'analisi "costituzionale" credo sia del tutto applicabile.
Quello che non capisco della public choice è come si fa a credere che dei politici del genere possano autolimitarsi rispettando una costituzione.
Comunque, tornando alla macroeconomia, i motivi principali sono per me i seguenti:
1. Una teoria austriaca completa ancora non esiste, e anche se la reputo molto verosimile, non la conosce nessuno. Di conseguenza, non può influenzare le policy.
2. I politici sono sempre miopi: il mondo finirà dopo la prossima campagna elettorale. Le recessioni hanno costi immediati, dunque bisogna evitarle ad ogni costo.
3. Gli economisti danno troppa importanza alla stabilità dei prezzi. Se la leva finanziaria va a 100 a 1 ma i prezzi sono stabili, molti dicono che non ci sono problemi. E così è stato per la Great Moderation, e per gli anni '20.
4. La cosa sorprendente non è che nessuno si fila gli austriaci, è che per venti anni un tizio di nome Greenspan ha eliminato la coda sinistra dei rendimenti dai mercati finanziari, e nessuno si è spaventato per il fatto che in questo modo il sistema economico diventava del tipo "profitti privati / perdite pubbliche". I mercati finanziari USA funzionano con lo stesso principio della FIAT fino a qualche anno fa...