Merito ed efficienza sono valori costantemente richiamati dal ministro Gelmini per un rilancio dell’università. Dalle aspirazioni ai provvedimenti concreti c’è però un’attività complessa, cui partecipano una quantità di persone e su cui possono gravare molti condizionamenti. Conservare intatte le aspirazioni nei concreti provvedimenti non è dunque semplice né, tanto meno, scontato.
Perplessità e timori che, su questioni cruciali, si stiano perdendo le aspirazioni enunciate sorgono dall’ampio provvedimento di legge, più volte annunciato, sull’università. Pur nelle correzioni apportate in bozze successive, la strada imboccata non è la più promettente, per due motivi. In primo luogo perché è frutto di un'illusione: l’illusione che le regole possano essere risolutive, che da sole, cioè, possano risolvere i problemi. In secondo luogo, perché si continuano a subire i condizionamenti del basso livello della competizione politica nel paese e delle lobby che attraversano l’università, da cui ci si dovrebbe invece liberare. Sotto questo aspetto, è singolare che il provvedimento del Governo sia molto simile alla proposta di legge recentemente presentata dal PD. Purtroppo, si tratta di una sintonia dovuta soprattutto a compromessi e finte innovazioni.
Le perplessità sul progetto Gelmini si legano soprattutto a quattro aspetti.
La governance. Il progetto disegna un modello di governance che, senza contrappesi, accentra sul rettore un potere straordinario e affida al Consiglio di Amministrazione, accanto alla “approvazione della programmazione finanziaria”, la “programmazione strategica dell’ateneo”. Il CdA, il nuovo vero organo deliberante dell’ateneo, è non elettivo e rimane aperto il quesito: da chi ne sono scelti i membri? In una precedente stesura si prevedeva poi che il CdA fosse composto almeno per il 50 per cento da persone non appartenenti ai ruoli dell’università. Nella ultima bozza in circolazione si prevede che sia composto almeno per il 40 per cento da persone non appartenenti ai ruoli dell’ateneo. Questa attenuazione non muta lo scenario che si profila.
L’apertura del CdA a una quota maggioritaria, o assai consistente, di membri esterni all’università rappresenta nella situazione attuale un autentico salto nel buio. La collaborazione tra università e mondo produttivo, in particolare il settore imprenditoriale privato, è quasi tutta da costruire nel nostro paese, inclusa la costruzione di efficienti canali informativi sui fabbisogni di formazione da parte delle imprese. Non si può pensare di farla nascere con un colpo di bacchetta magica, applicato addirittura al governo generale di un ateneo. Nei fatti, questo colpo di bacchetta magica rischia di produrre ben altro. Attività ed elezione del rettore sono gli aspetti più esposti ad interferenze di natura politica, e tali certamente rimangono anche nell’ambito del nuovo progetto. L’apertura all’esterno del CdA amplia queste possibilità. Una ulteriore perdita di identità degli atenei, verso caratteristiche analoghe a quelle di ASL o aziende municipalizzate, non è esattamente ciò di cui la ricerca e la didattica universitaria hanno bisogno. Ridurre l’autogoverno in assenza di una partecipazione finanziaria esterna aggiuntiva ai finanziamenti pubblici, espone solo al rischio di accentuare interferenze e clientele politiche. Inutile aggiungere che il rischio è tanto maggiore quanto minore è la forza scientifica di un ateneo o delle sue componenti.
D’altro lato, la esplicita previsione che il rettore sia professore “in possesso di comprovata competenza ed esperienza di gestione” e che analogo requisito di “comprovate competenze in campo gestionale” debba essere soddisfatto da tutti i membri del CdA, sembra trascurare la circostanza che i non soddisfacenti esiti, finanziari e non, di molti atenei hanno radici strutturali assai più complesse di eventuali carenze tecniche di gestione. Su quelle radici sarebbe assai più utile direttamente agire. Di fatto poi, il potere del rettore è già oggi notevolissimo. Ne sono prova evidente le innumerevoli correzioni di statuto promosse in questi anni, appunto dai rettori, per rimanere in carica e i conseguenti, incontrastati successi elettorali. Accrescere un potere già notevole e liberarlo da vincoli, senza affrontare le radici strutturali del declino in atto, è manovra alquanto azzardata.
Inoltre, limitare a due il numero dei mandati rettorali (incidentalmente, otto anni di governo non son pochi) potrebbe favorire molto poco una fisiologica alternanza nella governance. Qui non sembra azzardato ipotizzare che il potere (privo di contrappesi) del rettore in carica potrebbe condizionare la successiva elezione, e la nuova prevista figura del direttore generale, nominato dal CdA su proposta del Rettore con contratto quadriennale, potrebbe ben essere funzionale alla continuità dei gruppi di potere. Le interferenze di natura burocratico-amministrativa nella guida generale di un ateneo non sembrano meno pericolose delle interferenze politiche. Vale qui infine sottolineare che il direttore generale in un università privata (se a questo modello il disegno di legge si ispira) opera in tutt’altro contesto ed è dunque tutt’altra figura.
Il reclutamento. Il progetto prevede una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta. La effettiva immissione in ruolo nelle singole sedi è effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo.
Io sono molto critica nei confronti di questo schema. Non so se lo schema ha la funzione di fissare una disciplina transitoria rispetto a un futuro, completo affidamento della selezione alle singole sedi. Personalmente ritengo che questo sia ciò che occorre oggi approntare: semplicemente, una disciplina transitoria. In una tale fase transitoria, siano le sedi a bandire nuovi posti, inserendo senz’altro nel bando una sorta di esatta fotografia della fisionomia scientifica che si vuole acquisire. Ma sul posto bandito, nella mia opinione, deve ancora pronunciarsi nella fase transitoria una vera commissione nazionale, possibilmente con innesti internazionali.
La lista aperta dello schema Gelmini (in realtà, una vecchia idea dell’attuale opposizione) lascia intatto il problema degli idonei e della loro collocazione. Il progetto di legge sembra affrontarlo in un modo singolare: l’abilitazione nazionale è basata sulla “valutazione dei titoli e delle pubblicazioni, alla luce di parametri stabiliti per ogni ruolo e area da apposito decreto del ministero.” L’ultima stesura attenua un po’, riferendosi più genericamente a “criteri predeterminati con decreto di natura non regolamentare del Ministro, sentiti il CUN e l’ANVUR”. Si spera forse che la severità dei criteri sia in grado di contenere il numero degli abilitati? Comunque sia, hanno senso criteri del ministro per consentire la partecipazione a concorsi o per stabilire le condizioni per l’abilitazione? No! E la sola idea della lenta e faticosa contrattazione che accompagnerà fatalmente la stesura dei decreti è desolante.
C’è infine un aspetto alquanto curioso. Il progetto di legge prevede che l’abilitazione sia “titolo legittimante la partecipazione ai concorsi per l’accesso alla dirigenza pubblica”. E’ difficile pensare che una tale previsione si unisca di fatto a criteri del ministro molto stringenti.
In definitiva, nulla di nuovo sotto il sole, direi.
I settori scientifico-disciplinari. Il progetto di legge si prefigge di sfoltire l’attuale ramificazione dei settori scientifico-disciplinari, imponendo che ciascun settore comprenda almeno 50 professori ordinari o straordinari. Il vero nodo non è ristrutturare i settori, ma annullare il presidio che i settori esercitano sulle strutture universitarie (sui percorsi didattici, sulla selezione della docenza), il che è quanto dire annullare la base della struttura per corporazioni del nostro tessuto universitario.
Non è difficile supporre che la previsione delle reazioni delle potenti lobby che occupano l’università abbiano condotto il ministro, così come gli estensori del progetto PD, a porre l’obiettivo più limitato di una “rideterminazione” dei settori. Ma, scelta la strada della rideterminazione, quale sarà l’approdo finale a seguito di tutte le pressioni e le contrattazioni che si svilupperanno su questo punto del progetto di legge?
Insomma, anche su questo nodo cruciale della vita universitaria non si profila una vera svolta.
I ricercatori. Il progetto accantona definitivamente la messa a esaurimento del ruolo di ricercatore e la sostituzione di tale ruolo con contratti temporanei di ingresso, provvedimenti entrambi contenuti nella legge Moratti del 2005. Quali che siano i motivi di questa scelta, di fatto si continua a non cogliere l’esigenza di un rilancio e di una velocizzazione della carriera universitaria. Oggi la competitività della carriera universitaria italiana è forse al suo minimo storico, ed è molto difficile pensare a una svolta su questo terreno senza un disegno più efficiente della fase di ingresso.
Pur nel riconoscimento di alcuni elementi positivi, il mio giudizio complessivo sul progetto è negativo. Non ne condivido l’impostazione, fondata al contempo su regole rigide (e tantissime) e sulle concessioni (all’opposizione, alle lobby, ai rettori, agli attuali ricercatori, etc). L’agenda del che fare dovrebbe essere ispirata da un filosofia molto diversa e dovrebbe avere contenuti molto diversi. Nuove regole dovrebbero porsi il solo obiettivo di creare buone condizioni di contesto e le scelte dei campi di intervento dovrebbero essere analogamente mirate a creare migliori condizioni di contesto e sollecitare usi virtuosi dell’autonomia universitaria. Valutazione della ricerca e finanziamenti, valore legale dei titoli di studio, la struttura per corporazioni dell’università sono i campi strategici su cui occorrerebbe intervenire. Il nuovo governo non ha ancora fatto nulla di concreto in questi ambiti. Certo la concreta ingegneria di interventi nella direzione di un legame significativo tra finanziamenti e valutazione, della abolizione del valore legale dei titoli, del superamento della struttura per corporazioni non è affatto semplice, ma questi sono gli ambiti di intervento più promettenti per imprimere una svolta al sistema e su questi occorrerebbe, in via prioritaria, impegnarsi.
Qualche quesito e qualche parola conclusiva sul tempo perso e sulla rilevanza degli ambiti indicati. La valutazione: perché, nelle more della definizione di una agenzia di valutazione, non si prosegue l’esercizio CIVR, fermo al triennio 2001-03? Quante risorse lo stato progetta di dedicare alla valutazione, a quali modalità di attuazione si sta pensando, e come garantire che i fondi di premialità si distribuiscano alle unità che ne hanno effettivamente determinato l’ottenimento?
Il valore legale dei titoli di studio è un privilegio privo di giustificazioni, una formale equiparazione di laureati che consente come unico elemento distintivo il voto di laurea. Sono convinta che l’abolizione darebbe una scossa straordinaria a tutti gli attori della scena universitaria. Ma vale anche sottolineare l’assurdità in punto di principio di un tale privilegio. Perché non vi fosse privilegio nel valore legale occorrerebbe che le competenze dei laureati e i voti di laurea fossero riconducibili esclusivamente alle caratteristiche personali dei laureati, e in nessuna misura alla bontà dello specifico corso di studio seguito né agli standard di valutazione in esso adottati. Esiste qualcuno così sciocco da ritenere realistico un tale scenario?
Infine, come superare la struttura per corporazioni? Quali azioni scegliere per neutralizzare le corporazioni o spegnerne la forza? E’ un problema enorme, tanto enorme che mi fermo qui, non prima però di manifestare qualche dubbio sulla capacità o volontà del variegato contesto ministeriale di affrontare il punto.
Peraltro già ora può accadere che, ove fosse statutariamente prevista, si riveli inefficace la limitazione dei mandati rettorali a due, per complessivi otto anni.
Pare sia sufficiente modificare lo statuto, che saggiamente limitava a due i mandati rettorali (e “otto anni di governo non son pochi”), introducendo una postilla ad personam per prorogare il secondo mandato rettorale a chi eventualmente (quante volte sarà ricorsa o ricorrerà tale eventualità?) ricopra altra carica istituzionale (per esempio la presidenza della crui) il cui mantenimento esiga la contemporanea conduzione di un mandato rettorale.
Pare sia sufficiente orchestrare sapientemente una campagna propagandistica che spacci come necessariamente e inderogabilmente funzionale alla salvaguardia dell’ateneo interessato, del sistema accademico italiano nel suo complesso e del diritto allo studio (acciderbolina!) l’attribuzione di poteri straordinari (e assolutamente ingiustificabili, secondo la mia povera opinione) a un “singolo d’eccezione”; quando il buon senso, quello stesso che aveva ispirato la norma statutaria della limitazione, suggerirebbe che non si possa caricare sulle spalle di un solo mortale il gravoso fardello della salvazione dell’intero sistema universitario italiano (mi riferisco alle pompose dichiarazioni del beneficiario stesso del provvedimento, oltre che dei suoi accoliti).
Non di novelli padri della patria ed eroi ha bisogno l’Italia, ma piuttosto di un risanamento radicale.
Una legge ad personam stimola una polemica particolare; sono comunque, secondo me, entrambe, sintomatiche di un quadro generale e di una mentalità diffusa e radicata.
Considerazione generale: chi si vota alla conservazione del potere è portato a conculcare i principi.
All’evidenziazione, che accompagna l’enunciazione dell’aberrante e distorcente legittimazione di un’abilitazione scientifica accademica ai fini della partecipazione ad un concorso per l’accesso ad un ruolo dirigenziale pubblico non accademico, della perniciosità degli effetti sull’università, si potrebbe aggiungere la considerazione della iniquità intrinseca di tale legittimazione, nonché della potenziale perniciosità dei suoi effetti sulla dirigenza pubblica.
Posto che gli idonei all’esercizio della professione di avvocato o di medico o di ingegnere ecc non possono far valere la loro abilitazione laddove essa non sia espressamente e motivatamente richiesta (ha pregio esclusivamente se si tratta di un ruolo da avvocato, da medico, da ingegnere), sfugge per quale motivo l’abilitazione ad un ruolo universitario debba poter essere fatta valere altrove. Perché? Nell’interesse di chi? Naturalmente sono interrogative retoriche.
Forse se l’università si occupasse meno del collocamento coatto dei propri figli (e se fosse una madre troppo prolifica?) al proprio interno e all’esterno di sé, e della conservazione dei propri privilegi, cioè se brigasse meno, la società tutta ne trarrebbe giovamento.
E poi 'sti accademici possono piantarla di ragionare come se i non accademici fossero aspiranti accademici mancati. Si possono mettere nella testa una buona volta che quello che è il centro del loro universo potrebbe non figurare, neppure in posizione marginale, nell'universo di qualcun altro. Magari mettendo il naso fuori dalla eburnea turris verificherebbero la fallacia della loro convinzione (ispirante disposizioni tentacolari che non stanno né in cielo né in terra), secondo la quale il meglio sta nelle università, e fuori non è che fuffa.
@redazione
la home page è quasi completamente scomparsa in internet explorer 8; mentre è perfettamente visibile in google chrome
Grazie, sistemato. Non ce ne eravamo accorti xché non usiamo IE.
Al senato italiano siedono 35 docenti universitari http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Statistiche/Composizione/SenatoriPerProfessione.html, mentre alla camera solo 39 docenti universitari http://www.camera.it/docesta/307/21149/documentotesto.asp?tiposezione=C&sezione=1&tabella=C.1.4#inizio. Una media del 7,8% ca su 945 parlamentari. Un termine di paragone potrebbe essere il Senato+Congresso USA, dove i docenti universitari sono pari a 0 (zero) su circa 535 tra senatori e congressmen http://assets.opencrs.com/rpts/R40086_20081231.pdf. Per la cronaca negli USA siedono solo 23 con phd, molti avvocati e una sparuta rappresentanza di medici.