La “novità” più commentata è stata la “graduatoria” delle sedi universitarie “virtuose” (con punteggio positivo) e delle sedi “viziose” (con punteggio negativo) associata alla distribuzione. Qualsiasi sfilza di numeri può essere ordinata dal numero più grande al più piccolo (da 10,69 a -3, in questo caso) e dar luogo ad una graduatoria. Per capirne il significato, bisogna però capire come sono calcolati i numeri, e che cosa possono fare le università per modificarli. I numeri hanno origine da un confronto tra il finanziamento che le sedi avrebbero avuto se l’intero ammontare fosse stato distribuito in proporzione alla distribuzione dell’anno scorso e quanto effettivamente ottengono nel 2009, dopo la distribuzione del 7% del totale del finanziamento sulla base dei criteri indicati dal Ministro. La differenza tra queste due cifre conteggiata come percentuale del finanziamento costituisce il “numero” associato alla singola sede universitarie, che dà luogo alla graduatoria.
Per fare un esempio concreto Sapienza Università di Roma ha avuto nel 2008 un finanziamento di quasi 582 milioni. Nel 2009, per effetto della “quota di riequilibrio” ne riceverà 570 circa, la differenza, negativa, è il 2,11% del finanziamento dell’anno scorso e proprio per questo alla Sapienza è associato il numero -2,11. Per contro il Politecnico di Milano ha avuto nel 2008 un finanziamento di 204 milioni; quest’anno, in virtù della “quota di riequilibrio” riceverà 10,6 milioni in più, che è appunto il 5,22% del finanziamento, e per questo al Politecnico di Milano è associato il numero 5,22 (il più alto dopo il 10 di Trento).
E’ chiaro che i numeri della graduatoria dipendono dai criteri di distribuzione della “quota di riequilibrio” e su questi criteri si sono concentrati commenti e critiche degli interessati. Tuttavia questi numeri dipendono in misura anche più forte dal finanziamento “storico” delle diverse sedi. Ci sono sedi che, a confronto di altre, risultano sovrafinanziate, rispetto a qualsiasi criterio che non sia il costo del personale. Prendiamo ancora una volta il caso della Sapienza. Nel 2008 il suo finanziamento arrivava all’8% del finanziamento totale di tutte le università statali. Ma il numero dei suoi laureati del 2006 è solo il 6,8% dei laureati italiani dello stesso anno. Se come criterio di distribuzione della “quota di riequilibrio” si adottasse quello del numero dei laureati, Sapienza avrebbe ancora un punteggio negativo. Lo stesso si può dire di molte altre sedi con “punteggio” negativo. Sono sedi sovrafinanziate che, a finanziamento costante del sistema universitario, sono destinate a perdere nell’applicazione di qualsiasi ragionevole criterio di distribuzione dei fondi che non sia basato sul costo del personale. Da che cosa dipende questo finanziamento storico “eccessivo”? La risposta è semplice: fino alla metà degli anni novanta il grosso del finanziamento delle università arrivava direttamente dal Tesoro che pagava gli stipendi e gli assegni fissi del personale di ruolo. Indipendentemente dal numero dei laureati o degli iscritti, o da altri parametri, lo Stato finanziava le università per quel che costava il personale di ruolo da esse impiegato.
Abbiamo quindi spostato il problema su un’altra domanda: perché “a parità di servizi erogati” alcune sedi impiegavano negli anni novanta più personale di ruolo? Scorrendo la lista delle università con punteggio negativo ci accorgiamo che in questa lista compaiono quasi tutte le università con un policlinico a gestione diretta e quasi tutte le università meridionali.
Per le prime possiamo tornare sull’espressione “a parità di servizi erogati”. Oltre all’insegnamento e alla ricerca le università con una facoltà di medicina svolgono anche il servizio di assistenza ospedaliera. Quelle con un policlinico a gestione diretta impegnano il proprio bilancio anche per gli stipendi ed assegni fissi di personale sanitario (infermieri, ausiliari, tecnici) che non svolge attività didattica. Le spese per questo personale, e per il servizio da loro svolto non sono in alcun modo conteggiate a fronte dei criteri “obiettivi” di finanziamento che riguardano solo didattica e ricerca. Restano in parte calcolate come “spesa storica”, ma, in questo senso determinano un finanziamento “eccessivo” rispetto ai parametri scelti per la “quota di riequilibrio” e contribuiscono alla posizione negativa nella “graduatoria” ministeriale. Paradossalmente per queste sedi l’unica possibilità di “risalire” la graduatoria è quella di ottenere (relativamente) meno fondi dal Ministero. Questo non mancherà di avvenire, sia pure lentamente, se si continuerà ad applicare con il dovuto rigore la legge del 1993. Il problema per queste sedi è quindi quello di trovare i fondi per finanziare un’attività, cioè l’attività assistenziale, che non viene riconosciuta meritevole di finanziamento sui fondi del Ministero dell’Istruzione. Sembra naturale che questa attività sia finanziata, coordinata e valutata a livello regionale e nel quadro del sistema sanitario nazionale. Perché questo avvenga è necessario innanzitutto che le spese per l’assistenza siano conteggiate separatamente. Esse dovrebbero comprendere almeno un terzo del costo del personale docente impiegato in attività assistenziali e l’intero costo del personale non docente che svolge attività assistenziali. Eppure i rettori delle università interessate (con qualche eccezione), pur contestando i criteri per la distribuzione della quota di riequilibrio, non muovono un passo in questa direzione, perché temono che sia compromessa la “autonomia” delle facoltà di medicina. Ma non dovrebbe essere anche il Ministero ad affrontare apertamente questo problema?
Un discorso a parte merita il caso delle sedi meridionali. Come tutte le amministrazioni le università del meridione hanno subito la pressione ad aumentare il personale amministrativo per far posto a meridionali impiegati al nord, che volevano “tornare a casa”. Finché gli stipendi e i contributi di questo personale erano pagati dal Tesoro, le università non avevano alcun interesse a contenere gli organici e non potevano che assentire al trasferimento del personale da una sede del nord. Si tratta di un fenomeno che colpisce tutta l’amministrazione pubblica del sud e che, tra l’altro, ne determina anche l’inefficienza. Non è qui il luogo per discutere possibili rimedi per le altre amministrazioni. Sta di fatto che per le università, il nuovo metodo di finanziamento adottato nel 1996 che assegna alle università il compito di pagare sui propri fondi il costo del personale, ha cambiato le carte in tavola. Le università meridionali sono costrette a conteggiare il personale per quel che costa e non come un bene gratuito pagato dall’amministrazione centrale. Anche per queste sedi, paradossalmente, la risalita della graduatoria può avvenire soltanto attraverso un ridimensionamento del finanziamento statale, un ridimensionamento che si è già verificato, in termini relativi, a partire dal 1995, e che dovrà necessariamente proseguire negli anni a venire. Per rispondere a questo ridimensionamento le sedi del meridione dovrebbero quindi avviare un processo di riduzione e riqualificazione del personale amministrativo e tecnico, uniformandosi agli standard delle università settentrionali.
Un caso paradigmatico è quello dell’Università della Basilicata, che sta in fondo alla graduatoria con un ponteggio di -2,9. Questa università ha avuto nel 2008 un finanziamento di 35,6 milioni. Nel 2009, per effetto della “quota di riequilibrio” riceverà un milione in meno, cioè il 2,9% in meno. Ma anche in questo caso il basso punteggio si spiega con il finanziamento che risulta “eccessivo” rispetto a qualsiasi ragionevole criterio che non sia il costo del personale. Ancora una volta possiamo prendere come criterio di finanziamento il numero di laureati. Nel 2008 il finanziamento della Basilicata arrivava quasi allo 0,5% del finanziamento totale di tutte le università statali. Ma il numero dei suoi laureati del 2006 è solo lo 0,3% dei laureati italiani dello stesso anno. Se come criterio di distribuzione della “quota di riequilibrio” si adottasse quello del numero dei laureati, Basilicata avrebbe quindi ancora un punteggio negativo.
Il caso della Basilicata è particolarmente interessante, perché non ha una facoltà di medicina, ma soprattutto perché l’eccesso di personale non docente (e programmi edilizi eccedenti le probabili dimensioni del corpo studentesco) era stato già rilevato dal suo nucleo di valutazione interna negli anni novanta. Infine perché dal 1996 al 2008, Basilicata ha già perso in termini reali (cioè tenuto conto dell’inflazione) 3 milioni di euro, che saliranno a 4 con la distribuzione del 2009. Nello stesso periodo non c’è stata una diminuzione del personale docente, che è rimasto sostanzialmente stabile. E’ quindi probabile che ci sia stato un blocco del “turn over” del personale amministrativo e tecnico.
L’università della Basilicata, lentamente ma sicuramente, sta abbandonando il suo ruolo di “fornitore di impiego pubblico” in una zona economicamente depressa. La perdita di questo ruolo è la necessaria premessa per svolgere correttamente il ruolo proprio di un’università, che può essere anche la promozione dello sviluppo economico, ma solo attraverso le attività che le sono proprie: insegnamento e ricerca.
Non ho capito questa affermazione. Da cosa si deduce che c'è stato un "blocco del turn over del personale amministrativo e tecnico"? La mia è solo curiosità intellettuale, non sono lucano, non sapevo nemmeno che esistesse una Università della Basilicata..
Un'altra domanda: sulla base della spesa storica quale era l'Università più penalizzata ?
Esistono dei dati sui flussi di rientro nord-sud del personale universitario ?
I dati sui quali mi baso sono i seguenti: il FFO della Basilicata nel 1996 era quasi 30 milioni, nel 2008 era 35,6 milioni. Secondo l'ISTAT il coefficiente per cui si deve moltiplicare un euro del 96 per ottenere il corrispondente valore nel 2008 è 1,2916. Pertanto Basilicata ha subito una diminuzione di FFO in termini reali. Secondo il rapporto CNVSU del 2008 la basilicata ha visto aumentare dal 1998 al 2008 il personale docente di due unità (0,6%). Il costo del personale docente non è quindi diminuito anche perché sempre secondo il rapporto CVSU (Tabella A1.2) è aumentato il personale delle qualifiche più alte e più costose a fronte di una diminuzione dei ricercatori. Poiché l'andamento degli stipendi del personale pubblico ha almeno seguito l'inflazione, e poiché il FFO serve principalmente (al 90% circa) a coprire i costi del personale, e l'università non è fallita, devono essere diminuiti i costi del personale non docente. Io ipotizzo, ma non sono sicuro che ci sia stato un blocco delle assunzioni come suggerito negli anni novanta dal Nucleo di Valutazione dell'università stessa.
Nel 1995 credo che se non la più penalizzata una delle sedi più penalizzate fosse il politecnico di Milano (sede del nord, senza facoltà di medicina, alte tasse di iscrizione).
Non so cosa intendi per "flussi di rientro". Io sto scrivendo un articolo in collaborazione con un esperto del CNVSU sulle variazioni degli FFO dal 196 al 2008. Dai dati in nostro possesso risulta che nel 1996 le università statali delle regioni meridionali prendevano il 37% del totale FFO e nel 2008 sono passate al 40%. Spero di completare presto il nostro lavoro (con tavole e grafici). Sarà un problema trovare un luogo per la pubblicazione.