Ricordiamo che una proposta simile fu clamorosamente rifiutata negli anni sessanta e settanta, per ragioni ideologiche, ma anche per gli interessi corporativi del personale docente che non occupava posizioni “apicali”. Infatti, se la proposta fosse stata accolta allora, l’espansione del sistema sarebbe avvenuta, in gran parte, attraverso istituzioni “di serie B”, e solo in queste istituzioni avrebbero potuto far carriera molti degli assistenti e professori incaricati di allora, che invece riuscirono a far carriera in un sistema indifferenziato, dove ogni università si può autodefinire “di serie A”. A distanza di quaranta anni l’ipotesi “dualista” di due filiere distinte di istituzioni universitarie è ancora dibattuta su basi ideologiche. Ne è un segnale, ad esempio, l’esplicita adesione al nostro modello universitario non dualista, in cui l’integrazione tra ricerca e didattica è caratteristica fondante di ogni ateneo e di ogni carriera docente”, contenuta nel programma del centro-sinistra per le elezioni politiche del 2006 (pagg. 236-237).
In questo articolo vorrei affrontare il problema da un altro punto di vista. Vorrei chiedermi, prima di tutto, se l’ipotesi di una diversificazione tra le sedi universitarie è ancora possibile, a costi non irragionevoli, al di là dei pregiudizi ideologici o degli interessi corporativi. In secondo luogo se è possibile, in alternativa, diversificare l’offerta didattica, anche mantenendo un sistema “non dualista”. Prenderò in esame il caso degli studi di ingegneria (escludendo ingegneria civile ed architettura). La scelta di questo caso è suggerita da diverse considerazioni. Prima di tutto la laurea in ingegneria (se si esclude quella in ingegneria edile che conduce ad una professione regolata in sede europea) è tra le meno interessate al “valore legale” del titolo. Normalmente l’ingegnere industriale o informatico lavora in una azienda privata, libera di valutare secondo l’esperienza propria o di altre aziende il diploma di laurea. In secondo luogo gli studi di ingegneria sono forse quelli dove sarebbe più importante una diversificazione per livello di approfondimento, che distingua tra una minoranza di ingegneri con una solida preparazione scientifica, ed una maggioranza di ingegneri con una preparazione principalmente pratica, che li metta in grado di utilizzare strumenti tecnologici e/o di calcolo, senza avere necessariamente la padronanza dei principi scientifici alla base del loro funzionamento. Infine gli studi di ingegneria sono anche quelli dove è più difficile posporre agli anni della laurea specialistica (o magistrale) una formazione scientifica più approfondita.
Ci chiederemo dunque se è possibile identificare, almeno approssimativamente, una minoranza (in termini di dimensioni) di facoltà di ingegneria italiane, nelle quali dovrebbe concentrarsi la formazione degli ingegneri/scienziati, e nelle quali dovrebbe svolgersi la migliore ricerca scientifica in ingegneria industriale e dell’informazione. Cominciamo a dire che tra le facoltà di ingegneria “eccellenti”, nell’ingegneria industriale e dell’informazione, dovremmo prima di tutto inserire quella del Politecnico di Milano. Una ragione è che nella graduatoria del 2008 per “Engineering and Information Technology” stilata dal Times Educational Supplement il Politecnico di Milano risulta la prima università italiana e la dodicesima università europea. Precede, ad esempio, tutte le università di lingua tedesca, ad eccezione del Politecnico di Monaco. Ricordiamo che questa graduatoria per area (“subject ranking”) è basata sulle opinioni di esperti, cioè sulla reputazione internazionale. Il Politecnico di Milano vanta anche uno dei migliori dipartimenti di matematica italiani, che risulta secondo solo a quello dell’università di Roma Tor Vergata, nel punteggio ottenuto nella valutazione VTR 2001-03 a cura del CIVR. In termini descrittivi si può senz’altro sostenere che alcuni professori di prima fascia del dipartimento di matematica del Politecnico di Milano potrebbero ricoprire la stessa posizione in uno dei dieci migliori dipartimenti degli Stati Uniti e tutti i professori di prima fascia potrebbero ricoprire la stessa posizione in uno dei venticinque migliori dipartimenti di matematica degli Stati Uniti. Questa descrizione si applica ad alcuni, ma non a tutti i dipartimenti di matematica italiani. Tuttavia, il Politecnico di Milano ha laureato, nel 2007, 2.395 giovani, su un totale di 15.843 laureati in Italia nelle stesse discipline (mi riferisco per semplicità alla laurea triennale). Questo significa che il Politecnico di Milano laurea il 15% dei laureati italiani in ingegneria industriale e dell’informazione. Ma quanti dovrebbero essere gli ingegneri-scienziati, laureati in un’università di “serie A”? Per fare un confronto concreto, possiamo osservare che il sistema delle sedi “University of California”, che si distingue dalle “California State Universities” accoglie, in linea di principio, il 10% più preparato dei diplomati della scuola secondaria superiore. Non sarebbe quindi spropositato decidere che la formazione degli ingegneri “di élite” riguarda il 10-15 % dei laureati. In questo caso il Politecnico di Milano potrebbe, e forse dovrebbe, farsi carico interamente di questa formazione. Alle altre facoltà resterebbe il ruolo di “teaching universities”. Si tratta evidentemente di un’ipotesi inagibile, se non altro perché le valutazioni CIVR della ricerca scientifica nell’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione ci forniscono un quadro molto più articolato. In questa area il Politecnico di Milano consegue un punteggio di 0,80 che non supera quello di nove grandi e medie facoltà italiane: Trieste (0,83), Bologna (0,82), Brescia (0,82), Napoli II (0,82), Padova (0,81), Torino Politecnico (0,80), Napoli “Federico II” (0,80), Pavia (0,80), Udine (0,80). Queste facoltà, assieme, contano 5.460 laureati nel 2007 in Ingegneria industriale e dell’informazione. Escludo dal confronto le piccole strutture perché non ritengo affidabile una valutazione basata su meno di dieci prodotti, come ho argomentato in questo documento.
Sommando i laureati di queste nove sedi a quelli del Politecnico di Milano si arriva a 7.855 laureati, quasi il 50% dei laureati italiani. Sarebbe tuttavia difficile, a questo punto, escludere dal novero delle “facoltà eccellenti” quella dell’Università “Sapienza” di Roma, che ha conseguito un punteggio solo di poco inferiore (0,79) ma che in compenso, nella classifica del Times Educational Supplement, nell’area della “Engineering and Information Technology”, occupa il secondo posto tra le università italiane ed il 23° posto tra le università europee. I laureati di Roma “Sapienza” sono 1.099. Aggiungendo questi laureati si raggiunge la cifra di 8.954 laureati, che costituisce il 56% dei laureati. Non c’è naturalmente nessuna ragione per fermarsi. Ad esempio Pisa ha conseguito nella valutazione del CIVR il punteggio 0,78, ed è ancora nella lista del Times Educatinal Supplement delle prime duecento sedi universitarie in Ingegneria (al quinto posto tra le italiane e al 45° posto tra quelle europee). Insomma, non è proprio chiaro dove dovremmo fermarci nella selezione delle sedi “eccellenti” per l’ingegneria. Tutte le grandi e medie facoltà di ingegneria italiane hanno comunque presentato prodotti giudicati eccellenti nell’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione.
Possiamo pensare di poter pervenire ad un sistema “dualista” partendo da questa realtà? E come? Certamente il “mercato” opera già una distinzione tra le diverse lauree in ingegneria. Come si è detto, infatti, il “valore legale” del titolo è scarsamente influente per le assunzioni dei laureati. Un altro strumento di diversificazione potrebbe essere quello di un finanziamento pubblico fortemente legato ad una valutazione della attività di ricerca, come è avvenuto in Gran Bretagna, attraverso i Research Assessment Exercises (RAE). Si deve però osservare che i RAE hanno dato fin dall’inizio risultati profondamente diversi da quelli ottenuti dal CIVR, che costituisce la loro versione italiana. Secondo la “Roberts review” 40 su 132 sedi universitarie hanno contribuito solo marginalmente all’attività di ricerca. Nel caso britannico l’esercizio di valutazione è servito, in gran parte, a confermare una distinzione già esistente. Come è noto, infatti, molte università britanniche non erano vere e proprie università prima del 1992, ma erano istituzioni parauniversitarie, denominate Polytechnics ai cui docenti non era richiesto di svolgere attività scientifica.
Certamente il legame tra RAE e finanziamento, oltre a confermare la distinzione tra vecchie università ed ex Polytechnics, ha dato luogo ad una forte concorrenza delle diverse sedi per reclutare personale docente di alto livello scientifico, in grado di assicurare, attraverso la qualità della ricerca, un maggiore finanziamento alla sede in cui avrebbe operato. Questo ha dato luogo ad una maggiore mobilità ed anche ad un aumento dei compensi dei docenti più attivi nella ricerca. Ma la situazione di partenza delle università britanniche era ben diversa da quella italiana, dal momento che prima del 1992 la metà dei “bachelor degree” (e, credo, una proporzione ben maggiore di quelli in ingegneria) era conferita da istituzioni parauniversitarie.
Ciò non ostante anche la Gran Bretagna ha dovuto affrontare difficoltà politiche. Ricordiamo infatti che i RAE britannici, pur basandosi, formalmente, sulle stesse procedure e gli stessi standard qualitativi, sono divisi per regione e amministrati da diversi organismi per l’Inghilterra, la Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord. La ripartizione del finanziamento universitario per queste regioni è decisa a priori, e i RAE servono per attribuire una percentuale di questo finanziamento (circa il 30%) alle università della stessa regione. In altre parole, ad esempio, le università della Scozia non competono direttamente con quelle dell’Inghilterra, per la porzione di finanziamento distribuita sulla base dei RAE.
In conclusione, in Italia, lasciando da parte le difficoltà politiche analoghe a quelle affrontate dalla Gran Bretagna, il costo di spostare, attraverso incentivi finanziari, tutti i docenti attivi nella ricerca in ingegneria industriale e dell’informazione, in una minoranza delle sedi, dove sarebbero pure concentrati gli studenti destinati ad una formazione più scientifica, appare proibitivo. E’ possibile una soluzione alternativa? E’ possibile cioè diversificare l’offerta didattica all’interno della stessa sede universitaria?
Io penso di sì. Ritengo anche che sia possibile mantenere un assetto del sistema in cui docenti diversamente impegnati nella ricerca e nella didattica svolgono la loro attività nella stessa sede, e che un sistema “non dualista” di questo tipo sia compatibile con incentivi che promuovano la qualità della ricerca amministrati sulla base di valutazioni simili a quelle dei RAE. Anche l’ipotesi di una diversificazione interna presenta difficoltà e costi. Inferiori però a mio parere a quelli associati ad una diversificazione delle sedi. Il primo passo per una diversificazione dell’insegnamento è la previsione di “placement test” che individuino le competenze iniziali degli studenti che vogliono iscriversi all’università. Per le facoltà scientifiche ed ingegneria, i test riguarderanno principalmente la competenza matematica e dovrebbero risultare in un’indicazione del livello dei corsi di base che lo studente dovrebbe iniziare a seguire. C’è già un lavoro preliminare curato dalla Unione Matematica Italiana che permette di individuare i percorsi didattici universitari necessari per raggiungere un certo livello di competenza.
Sul problema dei “placement test” in matematica, stanno lavorando (purtroppo ancora con scarsa interazione) le conferenze dei presidi delle facoltà di ingegneria e di scienze. Su un altro versante alcune università (ad esempio Sapienza Università di Roma) hanno varato programmi per offrire, su base volontaria, agli studenti che abbiano superato nei termini richiesti tutti gli esami del primo anno con una media superiore a 27, un’istruzione più approfondita, senza alcun riconoscimento formale. Queste iniziative potranno convergere fino ad arrivare alla previsione di una molteplicità di curricoli, formalmente equivalenti, che corrispondono, però, ad una formazione più o meno approfondita, anche se non ufficialmente certificata dal nome del diploma o dell’università che lo ha conferito. Le diverse competenze potranno forse risultare da un accurato esame, da parte di un esperto, del percorso didattico che ha portato al diploma (ad esempio per eventuali proseguimenti negli studi) ma certamente dovrebbero manifestarsi in pratica sulla base delle capacità effettivamente acquisite dal laureato.
Anche la distinzione tra docenti maggiormente impegnati nella didattica e docenti più impegnati nella ricerca non passa necessariamente per una distinzione tra sedi di serie A e sedi di serie B. E’ sufficiente a questo proposito innalzare formalmente per tutti gli obblighi didattici, in modo che corrispondano, ad esempio, agli obblighi standard di un professore di una delle California State Universities e prevedere “premi” alla ricerca sotto forma di esenzione parziale dagli obblighi didattici (limitata ad un numero prefissato di anni) per i docenti maggiormente impegnati nella ricerca.
Insomma una diversificazione dell’offerta didattica ed una incentivazione dell’attività di ricerca non sembrano dover necessariamente passare attraverso la diversificazione per livello degli studi delle sedi universitarie, come, storicamente, è avvenuto in altri paesi.
L'unica cosa che mi sento di "comprare" senza grosse perplessità è quanto scrivi nel penultimo paragrafo a proposito dell'organizzazione del lavoro dei professori. In estrema sintesi, non credo che l'istituzione di un "doppio binario" possa prescindere da una qualche forma di "diversificazione per livello degli studi delle sedi universitarie" né da un esplicito riconoscimento a livello di diploma. Ancora: non vedo cosa ci sarebbe di male se professori validi (come produttività scientifica) rimanessero ad insegnare in sedi "periferiche": credo che le persone sappiano come gestirsi (e non penso che sarebbe una scelta così rara). Alcune considerazioni:
1) Nel sistema che proponi, se capisco bene, una qualsiasi sede di una qualsiasi facoltà avrebbe la possibilità di istituire corsi "di serie A". Io penso sarebbe meglio tirare comunque una riga ad un certo punto della graduatoria. La "coabitazione", a quel punto, si svolgerebbe solo nelle sedi migliori e sarebbe utile a garantire che un numero abbastanza ampio di facoltà possano partecipare alla "serie A" del loro campo, ammorbidendo così il colpo. Il "liberi tutti" non giova a nessuno, non ferma le persone in cattiva fede; l'abbiamo già visto. L'alternativa, in teoria, sarebbe fissare requisiti chiari e selettivi, stringenti e facilmente verificabili, per poter istituire dei corsi di serie A (a livello ministeriale). Ma i motivi per diffidare di un simile scenario sono molti, senza contare che a quel punto servirebbe per forza un riconoscimento esplicito del valore di queste lauree "super".
2) Senza un riconoscimento esplicito del diverso valore delle lauree "di serie A", tutto il sistema perderebbe grandemente di efficacia. Non si può contare solo sulla motivazione delle persone e sulla nascita di "concorrenza virtuosa" all'interno della popolazione studentesca di alcune facoltà. Ancora: il sistema deve essere trasparente. In Italia, spesso, la scelta della facoltà non é fatta al termine di un serio percorso di riflessione e di analisi dello "investimento". Non ci si può permettere che un ragazzo si accorga solo al secondo anno che scegliendo una facoltà "di serie B" ha perso delle opportunità significative. Le cose vanno dette e spiegate prima. Senza contare che introdurre disomogeneità e differenze "pesanti" potrebbe indurre le persone a pensare di più e scegliere meglio... [Test: se la differenza non è immediatamente comprensibile a mia nonna non serve :) ]
Concludendo: Per migliorare le cose in università è necessario un grande coraggio politico da parte del governo e di altri attori interessati. Puntare solo sulla buona volontà delle persone non mi sembra sufficiente.
Anche qui credo di non essermi spiegato bene. Non propongo l'istituzione "formale" di corsi di serie A. Né c'è bisogno di alcun riconoscimento "legale". Faccio un esempio che affonda nella mia lontanissima esperienza di docente dello MIT. Alcuni allievi del primo anno seguivano il corso di Calculus che aveva come libro di testo il libro di Thomas, altri seguivano un corso che usava come libro di testo "Calculus" di Apostol. I primi imparavano ad "usare" gli strumenti del calcolo infinitesimale, senza compenderne pienamente le basi, i secondi affrontavano sin dal primo anno i problemi del "rigore matematico". Questa diversa impostazione (che poteva avere conseguenze anche sulle possibili scelte di insegnamenti degli anni successivi) li preparava in modo diverso, ad esempio, ai fini del proseguimento degli studi o per una successiva attività di ricerca, anche in ambito ingegneristico. Ma era invisibile in termini di diploma formalmente conseguito. La diversa preparazione poteva risultare da un'analisi del curriulum da parte di un esperto (ad esempio se dopo Calculus si segue Real Analysis è probabile che l'insegnamento di Calculus sia su basi rigorose). Ma in gran parte diventa visibile semplicemente perché chi ha seguito i corsi di serie A ne sa di più degli altri e questo saperne di più può essere (ad esempio ai fini dell'ammissione ad un dottorato) testimoniato da una "recommendation letter". Qualsiasi riconoscimento legale invece snaturerebbe la diversificazione: tutti gli studenti si affollerebbero per entrare nel "canale nobile", tutte le università avanzerebbero pretese di istituire questo canale nobile, ecc. ecc. Ammetto che solo una sede con molti studenti potrebbe organizzare corsi "di serie A" (che io chiamerei corsi di approfondimento), ma anche una piccola sede potrebbe offrire all'occasionale studente molto bravo che sia disposto a lavorare di più dei percorsi di approfondimento, consistenti, ad esempio, in letture guidate (come succede nel "tutoring" delle università inglesi, o nei "reading courses" di quelle americane), oppure anche, per le scienze sperimentali, occasioni di partecipare alla ricerca di laboratorio. Seguire e insegnare insegnamenti più approfonditi deve essere costoso sia per lo studente che per il docente, si autoselezioneranno così gli studenti più interessati ad imparare e i docenti più interessati ad insegnare a studenti bravi. Beninteso io sono anche convinto che molti studenti potenzialmente bravissimi hanno bisogno inizialmente di corsi calibrati al loro livello di competenza. Sono molti anni che non insegno per un semestre in un'università americana, non credo però che vi siano scomparsi i corsi di "readig comprehension" o "college algebra and trigonometry" che noi nella nostra supponenza considereremmo adatti, al più, ad un liceo.