Università di serie A e di serie B?

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Il numero dei giovani che, ogni anno, si iscrivono per la prima volta nelle università italiane ha superato, da qualche anno, il 50% dei diciannovenni (Tabelle 1.1 e 1.2 del Nono Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario, Dicembre 2008, del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, disponibile nel sito www.cnvsu.it). Una domanda di istruzione terziaria di queste dimensioni corrisponde necessariamente ad una popolazione studentesca molto diversificata in termini di preparazione iniziale, capacità, interesse allo studio, ambizioni e aspettative. Eppure l’università italiana risponde a questa domanda di istruzione con un’offerta didattica uniforme, o meglio, diversificata solo per facoltà o corso di studio e non per livello di approfondimento all’interno dello stesso corso. Si rischia in questo modo di abbassare per tutti il livello degli studi a quello che si adatta agli studenti meno preparati (come certamente avviene in molti corsi di laurea), o di respingere la maggioranza degli studenti che chiedono una formazione superiore, incrementando irragionevolmente i ritardi e gli abbandoni (Tabella 1.46 e Fig. 1.9, del citato rapporto del CNVSU.) E’ naturale che a questo punto sia riproposta da più parti, l’ipotesi di diversificare il sistema di istruzione superiore, per rispondere meglio ad una domanda di istruzione diversificata. Questa ipotesi prevedrebbe, ad esempio, università “di serie A” dove si svolgerebbe ricerca scientifica e dove sarebbero ammessi solo gli studenti più preparati e università di “serie B” dedicate prevalentemente all’insegnamento e dove entrerebbe la maggioranza degli studenti. Come giudicare questa ipotesi?

Ricordiamo che una proposta simile fu clamorosamente rifiutata negli anni sessanta e settanta, per ragioni ideologiche, ma anche per gli interessi corporativi del personale docente che non occupava posizioni “apicali”. Infatti, se la proposta fosse stata accolta allora, l’espansione del sistema sarebbe avvenuta, in gran parte, attraverso istituzioni “di serie B”, e solo in queste istituzioni avrebbero potuto far carriera molti degli assistenti e professori incaricati di allora, che invece riuscirono a far carriera in un sistema indifferenziato, dove ogni università si può autodefinire “di serie A”. A distanza di quaranta anni l’ipotesi “dualista” di due filiere distinte di istituzioni universitarie è ancora dibattuta su basi ideologiche. Ne è un segnale, ad esempio, l’esplicita adesione al nostro modello universitario non dualista, in cui l’integrazione tra ricerca e didattica è caratteristica fondante di ogni ateneo e di ogni carriera docente”, contenuta nel programma del centro-sinistra per le elezioni politiche del 2006 (pagg. 236-237).

In questo articolo vorrei affrontare il problema da un altro punto di vista. Vorrei chiedermi, prima di tutto, se l’ipotesi di una diversificazione tra le sedi universitarie è ancora possibile, a costi non irragionevoli, al di là dei pregiudizi ideologici o degli interessi corporativi. In secondo luogo se è possibile, in alternativa, diversificare l’offerta didattica, anche mantenendo un sistema “non dualista”. Prenderò in esame il caso degli studi di ingegneria (escludendo ingegneria civile ed architettura). La scelta di questo caso è suggerita da diverse considerazioni. Prima di tutto la laurea in ingegneria (se si esclude quella in ingegneria edile che conduce ad una professione regolata in sede europea) è tra le meno interessate al “valore legale” del titolo. Normalmente l’ingegnere industriale o informatico lavora in una azienda privata, libera di valutare secondo l’esperienza propria o di altre aziende il diploma di laurea. In secondo luogo gli studi di ingegneria sono forse quelli dove sarebbe più importante una diversificazione per livello di approfondimento, che distingua tra una minoranza di ingegneri con una solida preparazione scientifica, ed una maggioranza di ingegneri con una preparazione principalmente pratica, che li metta in grado di utilizzare strumenti tecnologici e/o di calcolo, senza avere necessariamente la padronanza dei principi scientifici alla base del loro funzionamento. Infine gli studi di ingegneria sono anche quelli dove è più difficile posporre agli anni della laurea specialistica (o magistrale) una formazione scientifica più approfondita.

Ci chiederemo dunque se è possibile identificare, almeno approssimativamente, una minoranza (in termini di dimensioni) di facoltà di ingegneria italiane, nelle quali dovrebbe concentrarsi la formazione degli ingegneri/scienziati, e nelle quali dovrebbe svolgersi la migliore ricerca scientifica in ingegneria industriale e dell’informazione. Cominciamo a dire che tra le facoltà di ingegneria “eccellenti”, nell’ingegneria industriale e dell’informazione, dovremmo prima di tutto inserire quella del Politecnico di Milano. Una ragione è che nella graduatoria del 2008 per “Engineering and Information Technology” stilata dal Times Educational Supplement il Politecnico di Milano risulta la prima università italiana e la dodicesima università europea. Precede, ad esempio, tutte le università di lingua tedesca, ad eccezione del Politecnico di Monaco. Ricordiamo che questa graduatoria per area (“subject ranking”) è basata sulle opinioni di esperti, cioè sulla reputazione internazionale. Il Politecnico di Milano vanta anche uno dei migliori dipartimenti di matematica italiani, che risulta secondo solo a quello dell’università di Roma Tor Vergata, nel punteggio ottenuto nella valutazione VTR 2001-03 a cura del CIVR. In termini descrittivi si può senz’altro sostenere che alcuni professori di prima fascia del dipartimento di matematica del Politecnico di Milano potrebbero ricoprire la stessa posizione in uno dei dieci migliori dipartimenti degli Stati Uniti e tutti i professori di prima fascia potrebbero ricoprire la stessa posizione in uno dei venticinque migliori dipartimenti di matematica degli Stati Uniti. Questa descrizione si applica ad alcuni, ma non a tutti i dipartimenti di matematica italiani. Tuttavia, il Politecnico di Milano ha laureato, nel 2007, 2.395 giovani, su un totale di 15.843 laureati in Italia nelle stesse discipline (mi riferisco per semplicità alla laurea triennale). Questo significa che il Politecnico di Milano laurea il 15% dei laureati italiani in ingegneria industriale e dell’informazione. Ma quanti dovrebbero essere gli ingegneri-scienziati, laureati in un’università di “serie A”? Per fare un confronto concreto, possiamo osservare che il sistema delle sedi “University of California”, che si distingue dalle “California State Universities” accoglie, in linea di principio, il 10% più preparato dei diplomati della scuola secondaria superiore. Non sarebbe quindi spropositato decidere che la formazione degli ingegneri “di élite” riguarda il 10-15 % dei laureati. In questo caso il Politecnico di Milano potrebbe, e forse dovrebbe, farsi carico interamente di questa formazione. Alle altre facoltà resterebbe il ruolo di “teaching universities”. Si tratta evidentemente di un’ipotesi inagibile, se non altro perché le valutazioni CIVR della ricerca scientifica nell’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione ci forniscono un quadro molto più articolato. In questa area il Politecnico di Milano consegue un punteggio di 0,80 che non supera quello di nove grandi e medie facoltà italiane: Trieste (0,83), Bologna (0,82), Brescia (0,82), Napoli II (0,82), Padova (0,81), Torino Politecnico (0,80), Napoli “Federico II” (0,80), Pavia (0,80), Udine (0,80). Queste facoltà, assieme, contano 5.460 laureati nel 2007 in Ingegneria industriale e dell’informazione. Escludo dal confronto le piccole strutture perché non ritengo affidabile una valutazione basata su meno di dieci prodotti, come ho argomentato in questo documento.

Sommando i laureati di queste nove sedi a quelli del Politecnico di Milano si arriva a 7.855 laureati, quasi il 50% dei laureati italiani. Sarebbe tuttavia difficile, a questo punto, escludere dal novero delle “facoltà eccellenti” quella dell’Università “Sapienza” di Roma, che ha conseguito un punteggio solo di poco inferiore (0,79) ma che in compenso, nella classifica del Times Educational Supplement, nell’area della “Engineering and Information Technology”, occupa il secondo posto tra le università italiane ed il 23° posto tra le università europee. I laureati di Roma “Sapienza” sono 1.099. Aggiungendo questi laureati si raggiunge la cifra di 8.954 laureati, che costituisce il 56% dei laureati. Non c’è naturalmente nessuna ragione per fermarsi. Ad esempio Pisa ha conseguito nella valutazione del CIVR il punteggio 0,78, ed è ancora nella lista del Times Educatinal Supplement delle prime duecento sedi universitarie in Ingegneria (al quinto posto tra le italiane e al 45° posto tra quelle europee). Insomma, non è proprio chiaro dove dovremmo fermarci nella selezione delle sedi “eccellenti” per l’ingegneria. Tutte le grandi e medie facoltà di ingegneria italiane hanno comunque presentato prodotti giudicati eccellenti nell’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione.

Possiamo pensare di poter pervenire ad un sistema “dualista” partendo da questa realtà? E come? Certamente il “mercato” opera già una distinzione tra le diverse lauree in ingegneria. Come si è detto, infatti, il “valore legale” del titolo è scarsamente influente per le assunzioni dei laureati. Un altro strumento di diversificazione potrebbe essere quello di un finanziamento pubblico fortemente legato ad una valutazione della attività di ricerca, come è avvenuto in Gran Bretagna, attraverso i Research Assessment Exercises (RAE). Si deve però osservare che i RAE hanno dato fin dall’inizio risultati profondamente diversi da quelli ottenuti dal CIVR, che costituisce la loro versione italiana. Secondo la “Roberts review” 40 su 132 sedi universitarie hanno contribuito solo marginalmente all’attività di ricerca. Nel caso britannico l’esercizio di valutazione è servito, in gran parte, a confermare una distinzione già esistente. Come è noto, infatti, molte università britanniche non erano vere e proprie università prima del 1992, ma erano istituzioni parauniversitarie, denominate Polytechnics ai cui docenti non era richiesto di svolgere attività scientifica.

Certamente il legame tra RAE e finanziamento, oltre a confermare la distinzione tra vecchie università ed ex Polytechnics, ha dato luogo ad una forte concorrenza delle diverse sedi per reclutare personale docente di alto livello scientifico, in grado di assicurare, attraverso la qualità della ricerca, un maggiore finanziamento alla sede in cui avrebbe operato. Questo ha dato luogo ad una maggiore mobilità ed anche ad un aumento dei compensi dei docenti più attivi nella ricerca. Ma la situazione di partenza delle università britanniche era ben diversa da quella italiana, dal momento che prima del 1992 la metà dei “bachelor degree” (e, credo, una proporzione ben maggiore di quelli in ingegneria) era conferita da istituzioni parauniversitarie.

Ciò non ostante anche la Gran Bretagna ha dovuto affrontare difficoltà politiche. Ricordiamo infatti che i RAE britannici, pur basandosi, formalmente, sulle stesse procedure e gli stessi standard qualitativi, sono divisi per regione e amministrati da diversi organismi per l’Inghilterra, la Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord. La ripartizione del finanziamento universitario per queste regioni è decisa a priori, e i RAE servono per attribuire una percentuale di questo finanziamento (circa il 30%) alle università della stessa regione. In altre parole, ad esempio, le università della Scozia non competono direttamente con quelle dell’Inghilterra, per la porzione di finanziamento distribuita sulla base dei RAE.

In conclusione, in Italia, lasciando da parte le difficoltà politiche analoghe a quelle affrontate dalla Gran Bretagna, il costo di spostare, attraverso incentivi finanziari, tutti i docenti attivi nella ricerca in ingegneria industriale e dell’informazione, in una minoranza delle sedi, dove sarebbero pure concentrati gli studenti destinati ad una formazione più scientifica, appare proibitivo. E’ possibile una soluzione alternativa? E’ possibile cioè diversificare l’offerta didattica all’interno della stessa sede universitaria?

Io penso di sì. Ritengo anche che sia possibile mantenere un assetto del sistema in cui docenti diversamente impegnati nella ricerca e nella didattica svolgono la loro attività nella stessa sede, e che un sistema “non dualista” di questo tipo sia compatibile con incentivi che promuovano la qualità della ricerca amministrati sulla base di valutazioni simili a quelle dei RAE. Anche l’ipotesi di una diversificazione interna presenta difficoltà e costi. Inferiori però a mio parere a quelli associati ad una diversificazione delle sedi. Il primo passo per una diversificazione dell’insegnamento è la previsione di “placement test” che individuino le competenze iniziali degli studenti che vogliono iscriversi all’università. Per le facoltà scientifiche ed ingegneria, i test riguarderanno principalmente la competenza matematica e dovrebbero risultare in un’indicazione del livello dei corsi di base che lo studente dovrebbe iniziare a seguire. C’è già un lavoro preliminare curato dalla Unione Matematica Italiana che permette di individuare i percorsi didattici universitari necessari per raggiungere un certo livello di competenza.

Sul problema dei “placement test” in matematica, stanno lavorando (purtroppo ancora con scarsa interazione) le conferenze dei presidi delle facoltà di ingegneria e di scienze. Su un altro versante alcune università (ad esempio Sapienza Università di Roma) hanno varato programmi per offrire, su base volontaria, agli studenti che abbiano superato nei termini richiesti tutti gli esami del primo anno con una media superiore a 27, un’istruzione più approfondita, senza alcun riconoscimento formale. Queste iniziative potranno convergere fino ad arrivare alla previsione di una molteplicità di curricoli, formalmente equivalenti, che corrispondono, però, ad una formazione più o meno approfondita, anche se non ufficialmente certificata dal nome del diploma o dell’università che lo ha conferito. Le diverse competenze potranno forse risultare da un accurato esame, da parte di un esperto, del percorso didattico che ha portato al diploma (ad esempio per eventuali proseguimenti negli studi) ma certamente dovrebbero manifestarsi in pratica sulla base delle capacità effettivamente acquisite dal laureato.

Anche la distinzione tra docenti maggiormente impegnati nella didattica e docenti più impegnati nella ricerca non passa necessariamente per una distinzione tra sedi di serie A e sedi di serie B. E’ sufficiente a questo proposito innalzare formalmente per tutti gli obblighi didattici, in modo che corrispondano, ad esempio, agli obblighi standard di un professore di una delle California State Universities e prevedere “premi” alla ricerca sotto forma di esenzione parziale dagli obblighi didattici (limitata ad un numero prefissato di anni) per i docenti maggiormente impegnati nella ricerca.

Insomma una diversificazione dell’offerta didattica ed una incentivazione dell’attività di ricerca non sembrano dover necessariamente passare attraverso la diversificazione per livello degli studi delle sedi universitarie, come, storicamente, è avvenuto in altri paesi.

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Commenti

Ci sono 49 commenti

L'unica cosa che mi sento di "comprare" senza grosse perplessità è quanto scrivi nel penultimo paragrafo a proposito dell'organizzazione del lavoro dei professori. In estrema sintesi, non credo che l'istituzione di un "doppio binario" possa prescindere da una qualche forma di "diversificazione per livello degli studi delle sedi universitarie" né da un esplicito riconoscimento a livello di diploma. Ancora: non vedo cosa ci sarebbe di male se professori validi (come produttività scientifica) rimanessero ad insegnare in sedi "periferiche": credo che le persone sappiano come gestirsi (e non penso che sarebbe una scelta così rara).  Alcune considerazioni:

1) Nel sistema che proponi, se capisco bene, una qualsiasi sede di una qualsiasi facoltà avrebbe la possibilità di istituire corsi "di serie A". Io penso sarebbe meglio tirare comunque una riga ad un certo punto della graduatoria. La "coabitazione", a quel punto, si svolgerebbe solo nelle sedi migliori e sarebbe utile a garantire che un numero abbastanza ampio di facoltà possano partecipare alla "serie A" del loro campo, ammorbidendo così il colpo. Il "liberi tutti" non giova a nessuno, non ferma le persone in cattiva fede; l'abbiamo già visto. L'alternativa, in teoria, sarebbe fissare requisiti chiari e selettivi, stringenti e facilmente verificabili, per poter istituire dei corsi di serie A (a livello ministeriale). Ma i motivi per diffidare di un simile scenario sono molti, senza contare che a quel punto servirebbe per forza un riconoscimento esplicito del valore di queste lauree "super".

2) Senza un riconoscimento esplicito del diverso valore delle lauree "di serie A", tutto il sistema perderebbe grandemente di efficacia. Non si può contare solo sulla motivazione delle persone e sulla nascita di "concorrenza virtuosa" all'interno della popolazione studentesca di alcune facoltà. Ancora: il sistema deve essere trasparente. In Italia, spesso, la scelta della facoltà non é fatta al termine di un serio percorso di riflessione e di analisi dello "investimento".  Non ci si può permettere che un ragazzo si accorga solo al secondo anno che scegliendo una facoltà "di serie B" ha perso delle opportunità significative. Le cose vanno dette e spiegate prima. Senza contare che introdurre disomogeneità e differenze "pesanti" potrebbe indurre le persone a pensare di più e scegliere meglio... [Test: se la differenza non è immediatamente comprensibile a mia nonna non serve :) ]
 
Concludendo: Per migliorare le cose in università è necessario un grande coraggio politico da parte del governo e di altri attori interessati. Puntare solo sulla buona volontà delle persone non mi sembra sufficiente.

 

Anche qui credo di non essermi spiegato bene. Non propongo l'istituzione "formale" di corsi di serie A. Né c'è bisogno di alcun riconoscimento "legale". Faccio un esempio che affonda nella mia lontanissima esperienza di docente dello MIT. Alcuni allievi del primo anno seguivano il corso di Calculus che aveva come libro di testo il libro di Thomas, altri seguivano un corso che usava come libro di testo "Calculus" di Apostol. I primi imparavano ad "usare" gli strumenti del calcolo infinitesimale, senza compenderne pienamente le basi, i secondi affrontavano sin dal primo anno i problemi del "rigore matematico". Questa diversa impostazione (che poteva avere conseguenze anche sulle possibili scelte di insegnamenti degli anni successivi) li preparava in modo diverso, ad esempio, ai fini del proseguimento degli studi o per una successiva attività di ricerca, anche in ambito ingegneristico. Ma era invisibile in termini di diploma formalmente conseguito.  La diversa preparazione poteva risultare da un'analisi del curriulum da parte di un esperto (ad esempio se dopo Calculus si segue Real Analysis è probabile che l'insegnamento di Calculus sia su basi rigorose). Ma in gran parte diventa visibile semplicemente perché chi ha seguito i corsi di serie A ne sa di più degli altri e questo saperne di più può essere (ad esempio ai fini dell'ammissione ad un dottorato) testimoniato da una "recommendation letter". Qualsiasi riconoscimento legale invece snaturerebbe la diversificazione: tutti gli studenti si affollerebbero per entrare nel "canale nobile", tutte le università avanzerebbero pretese di istituire questo canale nobile, ecc. ecc.  Ammetto che solo una sede con molti studenti potrebbe organizzare corsi "di serie A" (che io chiamerei corsi di approfondimento), ma anche una piccola sede potrebbe offrire all'occasionale studente molto bravo che sia disposto a lavorare di più dei percorsi di approfondimento, consistenti, ad esempio, in letture guidate (come succede nel "tutoring" delle università inglesi, o nei "reading courses" di quelle americane), oppure anche, per le scienze sperimentali, occasioni di partecipare alla ricerca di laboratorio. Seguire e insegnare insegnamenti più approfonditi deve essere costoso sia per lo studente che per il docente, si autoselezioneranno così gli studenti più interessati ad imparare e i docenti più interessati ad insegnare a studenti bravi. Beninteso io sono anche convinto che molti studenti potenzialmente bravissimi hanno bisogno inizialmente di corsi calibrati al loro livello di competenza. Sono molti anni che non insegno per un semestre in un'università americana, non credo però che vi siano scomparsi i corsi di "readig comprehension" o "college algebra and trigonometry" che noi nella nostra supponenza considereremmo adatti, al più, ad un liceo.

Nella mia (soggettiva) esperienza di studente universitario ho visto persone che si sono maturate con voti più che eccellente perdersi per strada durante l'università, persone che avevano voti galattici in tutti gli esami rivelarsi fallimenti completi nell'ambito della ricerca e persone con curriculum modesti ottenere risultati brillanti una volta messi in condizione di fare ricerca indipendente.

Un sistema essenzialmente a compartimenti stagni come proponi tu, dove i "bravi" vengono selezionati dai "meno bravi" tramite ripetute scremature ha indubbiamente dei grossi vantaggi di semplificazione ma ho il vago timore che taglierebbero le gambe a chi magari è meritevole ma si è trovato, nel corso dei suoi studi, davanti dei problemi che gli hanno impedito di avere voti "eccellenti".

Insomma, mentre da una parte rifiuti la possibilità di giudicare la ricerca tramite indicatori sintetici (IF, h-index ecc) ti sembra normale farlo quando si tratta di studenti e aspiranti ricercatori.

Allora proprio non mi sono spiegato. L'ultima cosa che propongo è un sistema a vicoli chiusi o compartimenti stagni. Dato per scontato che una diversificazione dell'offerta didattica è necessaria, il fatto che la diversificazione avvenga (ove possibile) all'interno della stessa sede, la rende certamente più reversibile. Sono un ammiratore del sistema della California, proprio perché lì riescono a rendere reversibile la diversificazione del livello di istruzione, nonostante la distinzione a priori tra università di serie A, di serie B, e di serie C (i community colleges): il 50% dei "graduates" in matematica di UCLA (serie AA) sono "transfer students" da sedi minori. In Inghilterra invece le scelte sono molto più irreversibili.

Vedo che allora quando il Rettore parlava di qualita' dell'insegnamento offerto dal Politecnico di Milano all'inaugurazione dell'anno accademico non aveva tutti i torti, il che mi fa piacere :)

A parte la battuta, alcune iniziative di formazione per studenti piu' meritevoli al Politecnico ci sono, anche se non ampiamente pubblicizzate.

Quella piu' interessante e' quella che viene chiamata "Alta Scuola Politecnica", nata in collaborazione con il Politecnico di Torino e che prevede una formazione aggiuntiva fortemente interdisciplinare, ma che si svolge solo durante gli ultimi due anni, quelli di Laurea Magistrale. ( www.asp-poli.it )

Altre opportunita' vengono offerte con i programmi che permettono di ottenere contemporaneamente alla Laurea Magistrale dal Politecnico anche un Master (ad esempio dalla UIC di Chicago), anche se non saprei se definirle come programmi per studenti "eccellenti" o solo programmi di approfondimento legati ad un tema specifico.

Quello che in effetti manca e' forse un corso di laurea triennale con piu' selezione all'ingresso e piu' orientato alla formazione di un futuro ricercatore.

 

Anche a me sembra irrealistico e sbagliato pensare ad una separazione delle universita' o meglio dei dipartimenti universitari italiani in due gironi disgiunti di classe A e B.  In California c'e' qualcosa del genere nel settore accademico statale, ma il successo del sistema accademico USA non e' dovuto al fatto che ci siano campionati di serie A e B per le universita' statali, ma piuttosto al fatto che ogni Universita' e' diversa dalle altre, viene valutata e compete con tutte le altre, e puo' migliorare o peggiorare a seconda delle sue scelte e delle due politiche. Personalmente sono convinto che le Universities of California (statali di serie A) siano ottime universita' solo e unicamente perche' devono competere con le altre universita' d'elite nel medesimo paese (da Stanford a Harvard) e non certo perche' lo stato della California le ha definite di serie A.

Nel contesto italiano piuttosto che separare le universita' in due gironi distinti, sarebbe molto meglio valutare e far competere gli atenei e soprattutto i dipartimenti, e anche i singoli docenti, differenziando in misura adeguata fondi di ricerca e (moderatamente) stipendi.  Per quanto riguarda gli studenti, ritengo che un punto ineludibile sia quello di una selezione seria.  Negli USA ci sono test seri di ammissione per tutte le migliori universita', anche le statali Universities of California.

In secondo luogo, secondo me le universita' dovrebbero rilasciare oltre al diploma un riassunto del curriculum dello studente inclusivo di risultati del test di ammissione, degli esami principali del corso, e soprattutto dei tempi di completamento degli obblighi didattici e della tesi. Nello stesso documento un "bollino" dovrebbe certificare quali studenti hanno rispettato alcuni obblighi particolarmente stringenti, prendendo ad es. quelli della Scuola Normale (almeno 24 in ogni esame, media almeno del 27, esami superati tutti entro l'anno accademico del corso). Altri "bollini" potrebbero certificare che lo studente ha superato con successo un piano di studi particolarmente impegnativo suggerito dall'universita' come adatto alla ricerca.

Senza bisogno di definire atenei di serie A e B con decreto di Stato, il valore dei titoli rilasciati dovrebbe in seguito dipendere anche dalle informazioni accessorie e dalla reputazione, costruita nel tempo e variabile, dell'Ateneo che lo ha rilasciato.

 

Per l'ammissione e la conferma nel successivo anno ai corsi "di eccellenza" (odio questa parola e li chiamo "di approfondimento") dell'università Sapienza di Roma si è proprio scelto lo standard della Scuola Normale Superiore: tutti gli esami entro ottobre, media di almeno 27, nessun voto inferiore a 24. Nella mia proposta originaria tutti gli esami dovevano essere stati completati entro il 31 luglio. Lo standard della Normale è utilizzato anche per il rinnovo delle "borse di merito" dell'Istituto Nazionale di Alta Matematica.

...cosa può ragionevolmente consigliare un genitore (io) alla propria figlia prossima all'ingresso nel mondo universitario?

Dopo la lettura di tutti gli articoli e i commenti sull'università di oggi e quella possibile/desiderabile di domani sono un po' confuso.

Caro AFT, penso tu ti sia spiegato benissimo. Io sono ingegnere e professore, e sono d'accordissimo con l'assoluta inutilità di un riconoscimento legale.

Da sempre gli studenti della Normale e del Sant'Anna sono selezionati e si preparano su basi simili a quello che chiami "serie A". Studiano all'Università di Pisa insieme agli studenti regolari. In più devono dare degli esami interni. Devono avere certi requisiti (in corso, nessun voto inferiore al 24, media di almeno 27). La chiave è la selezione iniziale: a ingegneria al Sant'Anna prendiamo circa 10 studenti su circa 300 che partecipano al concorso di ingresso. La probabilità che siano persone molto in gamba è quindi abbastanza elevata.Ovviamenti tutti o quasi trovano la loro strada, molti all'estero.

E' possibile replicare questo modello anche in università statali? non ci vedo niente di sbagliato. Però, se non si danno incentivi particolari, non è detto che studenti pur bravi abbiano interesse a fare questi percorsi alternativi. Ad esempio, ignegneria a Pisa ha istituito i "percorsi di eccellenza", in cui gli studenti possono dare esami aggiuntivi (mi sembra fino a 6 crediti/anno) e gli viene riconosciuto un diploma aggiuntivo (senza valore legale). Tali corsi non hanno però avuto un gran successo. Molto dipende dall'obiettivo: oggettivamente, per un ingegnere la carriera accademica ha poche attrattive, specialmente in questo momento. Un percorso di eccellenza non sarebbe comunque valutato granché in un constesto lavorativo. I percorsi di eccellenza che funzionano per mia esperienza personale sono quelli che danno almeno uno sconto sulle tasse o una borsa di studio. basata sul merito e non sul reddito, come invece avviene ora in quasi tutta Italia.

Quindi, corsi di "serie A" e corsi "di serie B" possono convivere dentro la stessa Università, bisogna vedere se sono di successo. Io eviterei "tout court" di parlare di serie A e serie B: una quantizzazione a due valori è ridicola. Piuttosto, bisogna incoraggiare e magari portare avanti "classifiche" tra dipartimenti o facoltà, portare avanti il CIVR, portare avanti studi privati come quelli di Repubblica, ma fatti in maniera seria. Che le Università trovino il modo di farsi concorrenza, e ognuna trovare la loro strada, senza forzature ministeriali (come deportazioni di docenti da una sede all'altra!).

 

La proposta in realtà mi pare mossa essenzialmente dalla mal accettazione che finalmente il numero di studenti che studiano all'Università sia aumentato, avvicinadoci, pur ancora in difetto, alle medie dei paesi avanzati.

Questo è stato reso possibile, oltre che per una generale crescita di consapevolezza delle famiglie e dei giovani sull'importanza di studi superiori, anche per la riforma del 3+2.

Capisco, quindi, chi vede nell'istruzione superiore un modo per garantire elite, più che diffondere sapere a chi lo desidera.

Per questi motivi, ritendo la proposta piuttosto inutile e velatamente (ma neanche poi tanto) di restaurazione. In realtà la soluzione è semplice e sottomano: la difficoltà e la selezione dovrebbe semplicemnte essere applicata sui 3 livelli di istruzione Universitaria:

1. Laurea (BS) > accessibile a tutti

2. Laurea magistrale (Master) > specializzazione di alto livello

3. Dottorato (PHD) > eccellenza

con progressiva selezione in ingresso ma, soprattutto, nella specializzazione e difficoltà degli insegnamenti. Guarda caso proprio quello che succede negli USA (in particolare nelle USC).

Ovviamente ogni riforma dobrebbe partire dall'abolizione del titolo di studio, che in Italia rappresenta situazioni di disparità territoriali di preparazione così evidenti da renderle innegabili.

Infine, anche i prof dovrebbero essere valutati e selezionati per insegnare al livello per cui sono adatti (non penseranno mica tutti di insegnare nelle Università di serie A!)

 

Penso che un equivoco piuttosto evidente nella discussione nasca da un fatto che molti sottostimano: i "percorsi di serie A" richiedono una solidissima preparazione di base. Nel campo di ingegneria, quello che conosco meglio, questo significa tanta matematica, fisica, teoria dei sistemi, e così via. Questo tipo di preparazione andrebbe fatto nei primi 2 anni di studio, perché si tratta di materie di base che si fanno meglio nella prima parte del corso di studi per capire poi meglio la parte avanzata.

Il classico percorso di 5 anni a ingegneria era appunto strutturato così: una buonissima preparazione di base nei primi due anni: quasi esclusivamente matematica e fisica. Tra gli esami ricordo Analisi I e II, Fisica I e II, Meccanica razionale, Geometria, Calcolo Numerico, ecc. Insomma, per 2 anni di ingegneria neanche l'ombra. Nei tre anni successivi, gradualmente ci si spingeva verso esami specializzanti. L'ultimo anno era soltanto roba applicata, di quella che dovrebbe servirti nella professione.

Purtroppo, questo tipo di approccio portava a una percentuale di abbandoni veramente elevata; portava a percorsi lunghissimi, in media superiori agli 8-9 anni, con coda lunghissima (gente che dopo 15 anni ancora non si era laureata). Inoltre, se qualcuno abbandonava dopo 3 anni, aveva studiato tanta matematica e fisica che di certo non da il pane.

Il 3+2 sembrava risolvere questo problema. Dopo 3 anni ti do una laurea, con delle competenze, e se vuoi puoi andare a lavorare. Se invece ti vuoi specializzare ulteriormente, fai la laurea specialistica, il +2. Sembrava l'uovo di Colombo.

Purtroppo, dividere a metà il corso vecchio non era possibile: dopo 2 anni le competenze specifiche erano poche. Bisognava quindi:

1) specializzare i primi 3 anni

2) rendere più di base i secondi 2 anni

Purtroppo, didatticamente questo approccio è uno schifo. La laurea triennale deve specializzarsi ma senza assumere conoscenze matematiche di base troppo approfondite, semplicemente perché non c'è tempo. Quindi i corsi si semplificano enormememte. E dopo 3 anni di studio, tornare all'analisi matematica avanzata è davvero più difficile. Inoltre, durante la laurea specialistica bisognerebbe avere il tempo di tornare sui corsi di specializzazione con i nuovi strumenti matematici acquisiti nel frattempo. Darebbe un'altra visione delle cose. Ma anche in questo caso non c'è più tempo.

Notate che, se un laureato italiano in ingegneria "classico" (5 anni) andava negli stati uniti, dall'altra parte si trovava delle persone con Master in Engineering e Computer Science con una preparazione di base notevolmente inferiore. Gli ingegneri italiani (e indiani, e cinesi) sfondavano negli USA anche perché in media il laureato USA ne sapeva di meno di matematica e fisica. Con il 3+2, a mio parere, la situazione nostra e USA si è praticamente allineata.

Per questo motivo, un corso "di eccellenza" ha bisogno di differenziarsi sin dal primo segmento, il +3. Colui che ha intenzione un giorno di fare il ricercatore (all'università o in azienda) dovrebbe seguire un corso che gli permetta di approfondire certi argomenti di base già nei primi anni. Ad esempio, Sant'Anna e Normale integrano i corsi dell'Università con corsi di base in matematica e fisica, per far recuperare ai nostri studenti quello che hanno perso con il 3+2. Come accennava AFT nel suo post, in molte università USA funziona già così, in parte.

Dire che la serie B è la laura triennale e la seria A la laurea specialistica e il dottorato, può funzionare in certi settori, di certo funziona male in ingegneria e in generale nelle materie scientifiche e tecnologiche.

Quanto all'accusa di "voler creare un'elite". Che accusa è? Chiaramente è interesse della società formare persone in gamba che sappiano fare i ricercatori, pubblici o privati. Vogliamo chiamarla "elite"? Va bene. Ma è una parte importante di ogni società avanzata, e dovrebbe essere interesse di tutti creare un elite di livello internazionale in italia.

Negli ultimi 15 anni, in cui in vario modo ho vissuto l'università (economia a Genova), ho maturato la convinzione che la riforma 3+2 sia sbagliata.
Il motivo principale risiede nella perdita di approfondimento dei singoli insegnamenti e nella minore difficoltà di superamento del relativo esame. Meno ore di studio richieste, molte agevolazioni di vario tipo: compitini, tesine ecc..., comportano una minore preparazione complessiva al termine del percorso di studio.

Secondo me si sarebbe dovuto fare in questo modo.

Prima di tutto le lauree quadriennali avrebbero dovuto essere portate a 5 anni.
Nella mia esperienza non ho conoscenza di studenti che abbiamo finito economia a Genova in 4 anni, pochi anche quelli che sono riusciti a laurearsi in 5 anni. Effettivamente vi erano cose assurde: esami come statistica I e matematica generale con percentuali di superamento intorno al 15-20% (e in certi appelli anche inferiori), anche esami secondari, come storia economica o economia dei trasporti, richiedevano un impegno severo per essere superati con un bel voto. Il paragone con quanto accade oggi è impietoso, di fatto gli esami richiedono un impegno che non arriva al 50% rispetto a quanto accadeva nel vecchio ordinamento (per conferma basta confrontare i manuali di oggi con quelli di 15 anni fa, od assistere a qualche sessione di esame).
Oltre a portare la laurea a 5 anni si sarebbe dovuto dare un valore diverso ai diplomi di laurea. Premesso che il vecchio diploma di laurea era nettamente più impegnativo rispetto alle laure triennali attuali, proprio per questo era poco differenziato rispetto alla laurea, coincidendo coi primi tre anni di quest'ultima, e quindi disincentivando gli studenti a scegliere il diploma (perchè fare 3 anni quando con ancora un anno ottendo un titolo di studio considerato migliore?). Si poteva rendere il diploma di laurea un ideale proseguimento della scuola superiore, in particolare quella tecnica, con insegnamenti mirati alla professionalizzazione (a taglio tecnico più che teorico). In questo modo la laurea avrebbe mantenuto il valore che secondo me merita. Ovviamente non mi riferisco al valore legale (che abolirei) ma al percorso formativo nel suo complesso.

L'università serve soprattutto a formare. Oggi come oggi la formazione è posticipata a dopo l'università, la laurea 3+2 non è sufficiente, è necessario proseguire gli studi facendo master, studiando per conto proprio, o affidandosi alla formazione in azienda (ben rara). Ma anche un master richiede delle basi solide, che la laurea 3+2 non da ecc...

Cari saluti a tutti.

Le fortune della California si devono più alla University of California che a Stanford o Caltech. È possibile riprodurre in Italia una offerta universitaria che ricalchi quella USA? Credo di no, non per mancanza di volontà politica (che comunque non ci sarebbe), ma per la totale diversità di condizioni di partenza. L’offerta universitaria americana è diversificata perché vi è stata sempre una domanda e una offerta molto variegata. Le famiglie ad alto reddito con antenati rintracciabili fino alla battaglia di Hastings  cercavano università che offrissero una “all-around education” (ad esempio università Ivy league o liberal arts colleges); Altre famiglie ponevano enfasi sui propri valori etici e religiosi (ad esempio, Flick University per gli afroamericani, Bob Jones University per fondamentalisti protestanti, Yeshiva University per americani ebrei etc.); e poi vi è una domanda popolare soddisfatta dalle università statali e locali (State Universities and Community colleges) con finalità di promozione sociale e sviluppo del territorio. Ma anche nell’offerta vi è una varietà notevole con università statali, locali, private, federali etc. A questo si aggiunge una carriera universitaria che distingue la laurea di base da quella professionale per diventare medici, avvocati, farmacisti o PhD in qualche ramo accademico. Forse un intreccio non voluto e solo parzialmente influenzato da specifiche politiche a livello nazionale e locale.

Ma questo sistema diversificato è desiderabile? E su quali segmenti dovrebbe focalizzarsi l’attenzione del policy-maker nostrano? In Italia il dibattito spesso si incentra sulla qualità della nostra ricerca, che al momento scarseggia. E quindi le soluzioni ipotizzate (sulla carta o nei fatti) sembrano indirizzarsi verso un fantomatico MIT italiano, e in generale a produrre più ricerca e di migliore qualità che poi non è chiaro chi debba finanziare o acquistare. Infatti, la ricerca negli USA è business (anche se sussidiato), che viene finanziato dallo stato, dal governo federale o dalle imprese private. Un’altra condizione che manca in Italia. Ma di cosa si ha bisogno? Di cosa vi è domanda?

Facciamo il caso della medicina (ma anche ingegneria o contabilità). Sicuramente si ha bisogno di uno stock di medici preparati, la maggioranza, e solo di una minoranza di ricercatori di medicina. Ma i ricercatori sono poi quelli che devono fare anche i professori? Sembra corretto immaginare università che preparano medici più bravi e università destinate a medici meno bravi? Credo di no, almeno ex ante. Ma sicuramente una diversificazione tra medici-ricercatori e medici-medici è possibile, ma questo non richiede necessariamente una diversificazione dell’offerta di base, ma l’aggiunta di una formazione universitaria di specializzazione che però non può essere diffusa. È sotto questo profilo la distinzione tra A e B?

Più risorse sia  a università di base che a research universities? Ciò non è possibile e le risorse si sa sono scarse, ma in un mondo di “first things first” non è pacifico che la priorità debba andare all’eccellenza, intesa come una replica di MIT e Caltech. Forse è necessaria una maggiore attenzione alle università di serie B, ufficiali o meno, prima di definire grandi piani per quelle di serie A. Come per gli allenatori di calcio, si parte prima dalle serie inferiori, che dovrebbero essere più facili.

Giusto partire dalla parte "di serie B" dell'università italiana. Tutti i ritardi e molti abbandoni costituiscono uno spreco intollerabile di risorse umane e finanziarie. Gli insegnamenti devono essere indirizzati agli studenti reali, non a quelli immaginari provenienti da licei immaginari. Non esistono i bei tempi antichi. Non si impara nulla raddoppiando il tempo per conseguire una laurea con la strategia di memorizzare (senza capire) quanto serve a passare un esame alla volta, per poi dimenticare tutto prima di passare all'esame successivo. Penso però che per le facoltà di medicina si debba fare un discorso diverso. Ho scritto già qualcosa a questo riguardo. Si trova in: http://cnu.cineca.it/nazionale06/11054.pdf

 

Ripreso da Liberal di oggi.

RR

 

Diciamo che il sistema italiano è più egualitario, e permette di non-differenziare l'istruzione in anni che potrebbero essere critici per altre motivazioni. Parlo da tuttora studente del primo anno di specialistica; nonostante sia stato, da alcuni professori, incoraggiato per apparenti qualità di stampo accademico, la mia media durante la laurea triennale è stata tutt'altro che brillante, attorno al 26. La motivazione? Entrambi i miei genitori si sono fermati alla 3za media; è stato - per prima cosa - per me difficile convincerli che l'università non fosse un completo spreco di risorse, e la relativa indigenza familiare rende pressochè indispensabile che, nonostante io sia fortemente interessato al mio percorso di studi, lavori per potermi mantenere; circostanze che limitano la mia disponibilità di tempo da dedicare all'ambito accademico, sfortunatamente. 

Dunque, per motivi che potrebbero forse essere campanilisti e populisti, ma che ho spesso l'impressione non siano facilmente "toccabili con mano" dal popolo di noisefromamerika, per ora mi sentirei di non appoggiare una selettività più spinta, a meno che non sia congruamente integrata dalla presenza di borse di studio.

 

Dunque, per motivi che potrebbero forse essere campanilisti e populisti, ma che ho spesso l'impressione non siano facilmente "toccabili con mano" dal popolo di noisefromamerika, per ora mi sentirei di non appoggiare una selettività più spinta, a meno che non sia congruamente integrata dalla presenza di borse di studio.

 

Non ti capisco proprio: vuoi tirarti la zampa sui piedi? Vuoi farti del male? Non capisco.

Leggo la descrizione che dai di te stesso, e scopro che (perdippiù) studi economia a Venezia! Perfetto, trent'anni fa avevo appena iniziato a fare la stessissima cosa e nelle stessissime condizioni! Mio padre la terza media l'aveva fatta per corrispondenza, finché lavorava in fabbrica a Marghera ... Ti evito il libro cuore, ma credimi se ti dico che avrò fatto almeno dodici lavori diversi per mantenermi all'università, incluso il lavapiatti/uomo di fatica da Rosa Salva, il pasticciere di "sinistra" ...

So what? Per quanto riguarda l'apprendere ed il capire la mia estrazione sociale non ha fatto proprio alcuna differenza. Ciò che ha fatto differenza, negativa, era che la selezione all'interno dell'università non avveniva in base al merito, ma in base a ben altri fattori.

Ci fosse stata più selezione basata sul merito sarei stato contentissimo, ed avrei dovuto affrontare ben meno peripezie per trovare una borsa di studio che mi permettesse di venire negli USA. Per non parlare dell'università italiana dove, negli anni in cui ho avuto interesse a trovarci un posto, la selezione si faceva a base di simpatie, portaborsismo e, ovviamente, denaro di mamma/papà per stare a fare gli assistenti non pagati!

Ovvio che un sistema basato sul merito e sulla selezione meritocratica deve anche fornire borse di studio ai meritevoli, ma è dal primo che occorre iniziare (la selezione meritocratica) per rompere il tabù folle che persiste in Italia, non opporsi alla selezione meritocratica "perché non ci sono le borse". Le borse non ci sono comunque, e quelli come te devono farsi il culo doppio comunque: con la selezione meritocratica vedrebbero, almeno, riconosciuto pubblicamente il loro merito! Dovesse miracolosamente avviarsi una riforma meritocratica, stai tranquillo che le borse verrebbero.

Ascolta il consiglio del fratello più vecchio: l'egualitarismo fa male a quelli come te. Digli di smettere. Chiedi meritocrazia e selezione.

  L'idea di Figà-Talamanca - costituire nelle università percorsi differenziati - mi sembra eccellente. Verrebbe incontro ad una richiesta sempre più pressante e del tutto giustificata di riqualificare i corsi di laurea, senza pesanti interventi in una situazione ormai consolidata. L'idea di aumentare il numero dei laureati, perseguita dai nostri legislatori senza valutarne le necessarie implicazioni, ha portato ad abbassare il livello degli studi con un riflesso sulla qualità delle stesse università. L'incentivazione verso le università affinchè stabiliscano percorsi didattici differenziati andrebbe completata - pena una scarsa efficacia - istituendo un adeguato numero di borse di studio e di residenze per reclutare nel modo più ampio i "capaci e meritevoli".

in fondo il problema è solo questo: troppi laureati = troppa concorrenza.

 

Non molto tempo fa gli istituti tecnici industriali erano un serbatoio di tecnici per l'industria manifatturiera. La classe dirigente attuale e quella appena trascorsa si sono impegnate alla distruzione della scuola pubblica con il mito dell'uguaglianza e della giustizia sociale creando in realtà una scuola di classe, distruggendo il merito e la selezione. L'On.Berlinguer accusa gli insegnanti di un gentilismo di ritorno, ma nella famigerata scuola del dopoguerra, quello che personalmente ho frequentato, un figlio di impiegati o di operai (quale io sono) poteva, con sacrifici, raggiungere elevati livelli di istruzione e formazione. Oggi con questa università e questa scuola secondaria i migliori andranno all'estero a lavorare - ho un figlio ingegnere che sta in Francia - e agli altri se saranno fortunati e con la raccomandazione giusta uno stipendio da mille euro forse lo troveranno. Altro che università di serie A e serie B molte università dovrebbero essere chiuse perché offrono corsi che nulla hanno a che fare con la cultura, e rifondare la scuola di base perché oggi un insegnante di religione guadagna più di un professore di matematica.

oggi un insegnante di religione guadagna più di un professore di matematica

Trovo questa affermazione interessante. Sapresti per caso dove posso trovare i dati specifici sulle retribuzioni?

    in fondo il problema è solo questo: troppi laureati=troppa concorrenza

 Spero che a pensarla così siano in pochi: secondo EUROSTAT i laureati maschi in Italia (fascia dai 25 ai 64 anni) sono esattamente metà della media europea. Se si guarda alle donne, queste sono in percentuale, poco più di metà. Questo dato va attentamente considerato: da questo è partito il piagnisteo sugli abbandoni e la lunghezza anomala dei percorsi di studio. Un piagnisteo al quale è stata data una risposta frettolosa e grossolana (il cosidetto 3+2), ed ha contribuito al degrado dell'università. Non vi è alcun dubbio che le vecchie lauree avessero contenuti formativi ben più alti delle cosidette (da noi provinciali) "lauree" conseguite in altri Paesi. Con riferimento ai paesi anglosassoni, le nostre vecchie lauree (per intenderci, quelle conseguite prima del 1970) si collocavano non molto al disotto dei Ph.D., e non avevano nulla a che fare con i "bachelor degrees".

La pressione esercitata sulle università per aumentare la produzione dei laureati ha determinato un abbassamento del livello delle lauree, che si è manifestato prevalentemente ed all'inizio con l'istituzione di corsi di laurea di scarso spessore culturale e formativo, e successivamente istituzionalizzato con la riforma 3+2. Il tutto è avvenuto senza una attenta riflessione sulle finalità dei corsi di laurea: istituendo il 3+2 si è preteso, per ogni disciplina o settore, che il corso triennale fosse, al contempo, professionalizzante e propedeutico a studi più avanzati. L'opportunismo degli accademici nel realizzare la riforma ha fatto il resto, ed Il degrado dei corsi di laurea si è in questo modo istituzionalizzato.

  Avere dei corsi di laurea solo di basso livello comporta varie conseguenze: una delle più importanti è la cancellazione della mobilità sociale. Questa è principalmente basata sulla possibilità che le persone economicamente disagiate possano distinguersi negli studi. Di contro se gli studi non svolgono alcuna selezione, saranno le persone con un retroterra culturale od economico a diventare classe dirigente. Si innesca così un processo nel quale latita la meritocrazia, e si arriva a quel degrado al quale oggi assistiamo.  

  Cercare di innalzare il livello di tutti i corsi di laurea non sarebbe un rimedio: già oggi, stante la scarsa formazione che si riceve nelle scuole secondarie, il numero degli abbandoni è preoccupante. Permane tuttavia la necessità di aumentare il numero di quanti ricevono una istruzione superiore. La mancanza di istruzione in larghe fascie della popolazione costituisce un freno allo sviluppo: l'istruzione non è moneta da spendere solo nel ristretto ambito del lavoro, ma è un bene che migliora la qualità stessa della vita. Ogni decisione, anche nella sfera del privato, dipende dalla nostra formazione culturale, e l'obbiettivo di un paese che pretende di essere civile dovrebbe essere quello di allargare per tutti gli orizzonti della conoscenza.

 Ben vengano dunque i corsi di laurea di serie A e di serie B: i primi dedicati a coloro che accettano la sfida di competere negli studi e gli altri per quanti vogliono acquisire gli stumenti minimi della razionalità. Ed è bene per il paese che coloro che studiano siano i più numerosi possibile.

    

 

  

 

La pressione esercitata sulle università per aumentare la produzione dei laureati ha determinato un abbassamento del livello delle lauree, che si è manifestato prevalentemente ed all'inizio con l'istituzione di corsi di laurea di scarso spessore culturale e formativo, e successivamente istituzionalizzato con la riforma 3+2.

 

La riforma del 3+2 (che include il sistema dei crediti formativi) e' una riforma sostanzialmente corretta e opportuna, basata su una convergenza dei sistemi educativi di una moltitudine di Paesi europei e sull'esigenza di rendere piu' trasparente e facile il riconoscimento dei corsi frequentati in diversi corsi di laurea e anche Atenei sia nazionali che di Paesi diversi, esigenza essenziale per fornire agli studenti maggiori opportunita' e flessibilita' per la loro istruzione superiore.  Anche la previsione di un diploma intermedio piu' facile da ottenere rispetto alla laurea specialistica e' un elemento a mio parere positivo.

Il vero problema del sistema 3+2 e' che e' stato realizzato - seguendo il principio dell'autonomia degli Atenei - da docenti universitari che agiscono all'interno di un sistema di incentivi in parte inesistente e in parte sbagliato.  In assenza di realistiche valutationi esterne sui risultati didattici e di alcuna conseguenza sui propri stipendi, i docenti universitari hanno adattato la riforma del 3+2 non a vantaggio degli studenti o a vantaggio dell'appropriatezza e qualita' della loro istruzione, ma prevalentemente per i propri comodi, per esempio con eccessiva proliferazione di corsi di laurea specialistici e di corsi poco impegnativi e/o alla prova dei fatti poco richiesti.

 

Avere dei corsi di laurea solo di basso livello comporta varie conseguenze: una delle più importanti è la cancellazione della mobilità sociale. Questa è principalmente basata sulla possibilità che le persone economicamente disagiate possano distinguersi negli studi. Di contro se gli studi non svolgono alcuna selezione, saranno le persone con un retroterra culturale od economico a diventare classe dirigente. Si innesca così un processo nel quale latita la meritocrazia, e si arriva a quel degrado al quale oggi assistiamo.

 

Sottoscrivo in pieno.  Il degrado di oggi comunque non e' molto superiore al degrado del passato. L'Italia e' stata sempre refrattaria a riconoscere il merito rispetto ai legami di parentela, amicizia e fazione. In passato licei d'elite e universita', specie in alcune facolta', erano molto difficili e selettivi, ma non davano agli studenti senza elevato retroterra culturale ausili adeguati per riuscire, come avviene in altri paesi piu' progrediti, e inoltre le valutazioni, ieri come oggi, non erano proprio eque e proporzionali al merito, ma includevano aiutini proporzionali allo status sociale dello studente.  Sono questi ultimi elementi che hanno contribuito a screditare il concetto di meritocrazia in Italia.  Questo non scusa i 68ini e i loro pessimi colleghi di ieri e di oggi che non capiscono che la cura per i malanni dell'Italia feudale e corporativa non e' cancellare la meritocrazia ma realizzare meritocrazia corretta e non viziata.

 

Cercare di innalzare il livello di tutti i corsi di laurea non sarebbe un rimedio: già oggi, stante la scarsa formazione che si riceve nelle scuole secondarie, il numero degli abbandoni è preoccupante. Permane tuttavia la necessità di aumentare il numero di quanti ricevono una istruzione superiore.

 

Ma ovviamente i due obiettivi sono in contraddizione.  Il prodotto tra qualita' delle lauree e numero delle lauree e' piu' o meno un invariante proporzionale al livello dello sviluppo umano in Italia. Per migliorare io ritengo che sia necessario

  • mantenere / aumentare la frazione dei giovani che si iscrivono
  • comprendere meglio e curare il problema degli abbandoni
  • fornire istruzione con flessibilita' opportuna per consentire a chi ha merito e impegno particolare possa raggiungere livelli elevati, mentre chi ha merito e impegno dignitosi ma medi ottenga comunque un riconoscimento proporzionato all'istruzione acquisita: da questo punto di vista per es. il 3+2 e' opportuno perche' consente l'uscita dopo la prima laurea

 

 

Il vero problema del sistema 3+2 e' che e' stato realizzato - seguendo il principio dell'autonomia degli Atenei - da docenti universitari che agiscono all'interno di un sistema di incentivi in parte inesistente e in parte sbagliato.  In assenza di realistiche valutationi esterne sui risultati didattici e di alcuna conseguenza sui propri stipendi, i docenti universitari hanno adattato la riforma del 3+2 non a vantaggio degli studenti o a vantaggio dell'appropriatezza e qualita' della loro istruzione, ma prevalentemente per i propri comodi, per esempio con eccessiva proliferazione di corsi di laurea specialistici e di corsi poco impegnativi e/o alla prova dei fatti poco richiesti.

 

Può darsi che sia così, ma che sia questo il problema è tutto da dimostrare. Io ho effettivamente verificato un abbassamento della qualità e della quantità della preparazione dei laureati in ingegneria con il 3+2. In un commento precedente a questo post ho argomentato che il problema è dovuto secondo me al fatto che a questi ragazzi non si danno più le basi matematiche e fisiche di una volta: se uno in 3 anni deve essere ingegnere, deve fare corsi specialistici al posto di corsi di base. Nella specialistica poi, fa ancora corsi specialistici, e i corsi di base non li riprende più.

Che tale organizzazione della didattica sia dovuta esclusivamente a professori cattivi ed egoisti? Mah. Secondo me è un problema di fondo molto più difficile da risolvere, e da non sottovalutare affatto.

La riforma 3+2 è molto sensata, e va mantenuta. E va accompagnata con correzioni (come quelle proposte nel post) perché una parte (piccola, grande, a seconda di quanta gente sarà interessata) di studenti possa avere un grado di istruzione più approfondito.

Neanche io concordo con l'idea che la colpa della cattiva realizzazione del 3+2 sia da attribuire esclusivamente o quasi alla nequizia dei professori. Il veleno è nell'idea che i corsi triennali fossero allo stesso tempo "formativi" -prepatori a studi più avanzati - e "professionalizzanti". In molte discipline e settori professionali le due esigenze sono contradittorie. Per accontentare le due esigenze è venuto fuori il pasticcio, favorito da furbizie ed opportunismi. Se si vuole cercare di risanare, l'unica via è quella di progettare percorsi nei quali l'aspetto formativo sia decisamente privilegiato.

 

Io ho effettivamente verificato un abbassamento della qualità e della quantità della preparazione dei laureati in ingegneria con il 3+2. In un commento precedente a questo post ho argomentato che il problema è dovuto secondo me al fatto che a questi ragazzi non si danno più le basi matematiche e fisiche di una volta...

 

Tutto cio' e' inevitabile. Nel breve periodo se aumenti il numero dei diplomati (come la UE ha chiesto esplicitamente all'Italia dopo aver constatato i numeri deprimenti da paese in via di sviluppo di un decennio fa) la qualita' media non potra' non diminuire.  Stesso discorso per le lauree.  Quello che non deve succedere, quello che uno Stato serio dovrebbe cercare di misurare in maniera obiettiva e' che la frazione dei nuovi laureati corrispondente in numero ai laureati di 10 anni fa sia di qualita' uguale o superiore.

L'Italia e' storicamente un paese mediamente poco istruito, con una maggioranza semi-analfabeta e una minoranza ben istruita. Come di regola accade nei paesi arretrati, le differenze tra non istruiti e istruiti sono maggiori rispetto ai paesi piu' progrediti, e le elites frenano o comunque non facilitano l'espansione dell'istruzione superiore alle masse. La via verso il progresso deve favorire l'accesso all'istruzione superiore senza rimpianti per i bei tempi andati in cui i villani si limitavano a zappare senza perdere tempo sui libri.

 

L'idea di per se' sembra razionale pero' bisogna assolutamente trovare una denominazione diversa: chi vorrebbe giocare in serie B? Mi vengono subito in mente i cori da stadio: serie B, serie B,...

A parte gli scherzi, anche gli aspetti psicologici contano (io frequento un corso di serie B = io sono una persona di serie B). E poi con il livello qualitativo dell'offerta di lavoro italiana bisognerebbe forse istituire anche la serie C (la serie A servirebbe solo per preparare futuri emigranti, magari molto qualificati, ma pur sempre emigranti).

 

ciao

Alessandro

Ecco quello che pensa la CRUI della governance delle Università, in una bozza di qualche giorno fa.

RR

Sto iniziando a cercare una posizione di assistant professor in neurobiologia in Europa. Per curiosita', ho provato a cercare in Italia. Questo e' quello che si trova su Nature jobs (la maggiore fonte di annunci per lavori di tipo accademico/ricerca nel settore medico/biologico):

Ancora non credo ai miei occhi

 

 

Ma dai, questo deve essere un errore del dipartimento di HR dell'impresa. Anche se gli annunci su Nature fossero gratis è chiaro che non vai li a cercare spalaneve.

 

Giusto per fugare i timori di una scolarizzazione universitaria troppo diffusa...

www.repubblica.it/2009/01/sezioni/scuola_e_universita/servizi/universita-2009-1/iscrizioni-in-calo/iscrizioni-in-calo.html

 

Il tuo link e' imperfetto, a me funziona questo: repubblica.it - universita', iscrizioni-in-calo.

Il dato significativo non è il numero degli immatricolati, ma la proporzione di immatricolati sui diciannovenni residenti in Italia, o forse più precisamente la proporzione degli immatricolati sul numero dei diciannovenni che conseguono la maturità. Infatti il numero dei diciannovenni in Italia è in calo da diversi anni, e, in teoria, questo calo potrebbe spiegare il calo negli immatricolati. Tuttavia, per la prima volta nel 2007, è in calo anche la proporzione di immatricolati sui diciannovenni, come risulta dal più volte citato rapporto 2008 del CNVSU, reperibile a www.cnvsu.it . Si tratta di un fenomeno, per ora, contenuto, ma è certamente interessante l'inversione di tendenza, nonostante l'aumento (ancora) dei diciannovenni che conseguono la maturità. I dati del 2008 non sono ancora definitivi, perché il CNVSU considera "immatricolati" solo coloro che risultano iscritti a luglio, che cioè hanno pagato la seconda rata della tassa di iscrizione. Un confronto con i dati del 2007 sarà possibile solo nell'autunno prossimo.

"...Forse è anche per tutto questo che secondo i dati Ocse del settembre 2008 solo il 17% della popolazione italiana tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea (contro la media dei paesi Ocse del 33%) e solo il 45% degli iscritti arriva alla laurea, meno del Cile e del Messico e sotto la media Ocse del 69%?"

www.corriere.it/cronache/09_febbraio_11/paese_baroni_universita_gori_6a989304-f879-11dd-9277-00144f02aabc.shtml

mi segnalano questa iniziativa

w3.disg.uniroma1.it/unira/index.php

ciao,

Francesco

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Trasformiamo l'Università!

 

Un paese moderno non può fare a meno di un efficace sistema di istruzione superiore. Il nostro non lo è soprattutto per responsabilità politiche, ma anche per non secondarie responsabilità accademiche. Esiste tuttavia una componente significativa nell'Università che ha sostenuto ad un livello dignitoso ricerca e didattica e che deve essere ascoltata per riformare l'Università.

Noi vogliamo darle voce.

Universitas Futura auspica per l'Università una riorganizzazione strutturale con un piano complessivo di lungo termine, avendo chiari gli obiettivi finali:

 

1. Autonomia, con livello mimino di burocrazia, ai Dipartimenti nel reclutamento, nella ricerca e nella didattica.

2. Valutazione ex-post come meccanismo dichiarato a priori per determinare i finanziamenti alle strutture ed ai singoli.

3. Livelli salariali secondo standards europei ai giovani strutturati e non strutturati.

4. Allineamento ai paesi avanzati della percentuale di PIL dedicata alla ricerca.

 

Oggi crediamo, anzi siamo obbligati a credere, che in tutti gli schieramenti politici, di governo ed opposizione, vi siano persone che comprendono queste istanze; a loro rivolgiamo un appello, offrendo un documento programmatico con delle linee guida per quei cambiamenti dovuti da tempo.

Invitiamo ricercatori e professori ad aderire al documento (pdf ) di Universitas Futura entro il 16 marzo 2009.

Riguardo l'iniziativa Universitas Futura, ho partecipato alle discussioni che hanno portato all'elaborazione del documento, questa e' la mia bozza personale di documento dove ho raccolto le mie proposte.