Il primo referendum riguarda l'abolizione del finanziamento pubblico all'editoria. In genere, si finanzia un settore produttivo quando esiste un bene collettivo che il mercato non riesce a fornire senza tali aiuti (anche in questo caso, non è detto che il finanziamento pubblico riesca a realizzare gli obiettivi originali, ma sorvoliamo).
Nel caso dell'editoria, l'idea diffusa è che il finanziamento pubblico, soprattutto verso certe testate minori, garantisca il pluralismo dell'informazione. Si ritiene cioé che esistano consistenti barriere all'entrata nel mercato editoriale (per esempio, la necessità di una tiratura minima per giustificare il costo di azionare le presse editoriali), e che tali barriere siano superabili solo con il finanziamento pubblico. La realtà è che le barriere all'entrata sono bassissime, e non solo perché oggi esiste internet; negli anni Settanta i gruppi extraparlamentari riuscivano a distribuire le loro idee deliranti usando i ciclostile, senza nessuna sovvenzione pubblica. Non solo, gran parte dei sovvenzionamenti all'editoria finanziano i giornali di partito. Sono letti da quattro gatti che non hanno nessun bisogno di essere sussidiati per leggere idee che gia' conoscono e condividono. Questi giornali vengono scritti e pubblicati da amici della casta stipendiati con i soldi di tutti (di tutti quelli che le tasse le pagano, voglio dire). Ma c'è di peggio: una buona fetta del finanziamento pubblico all'editoria (il 69%) avviene attraverso gli sconti postali, e viene elargita in gran parte ai maggiori editori. Per esempio, Mondadori, Il Sole 24 ore e Rcs si accaparrano da soli il 29% di questi sconti, che corrispondono ad un totale per questi tre editori di più di 50 milioni di euro. (cfr. un pagg 25 e seguenti di un interessante documento dell'antitrust segnalato tempo fa dal lettore altikkun).
Insomma, più che finanziare il pluralismo qui si elargiscono oboli ad alcuni amici, oltre che ai soliti potenti. E questo spiega il primo motivo dello scetticismo e disgusto con cui la stampa ufficiale sta trattando il V2-Day. Il secondo motivo è facilmente comprensibile leggendo il testo del secondo quesito proposto.
Il secondo referendumchiede l'abolizione dell'ordine dei giornalisti. Fra tutti gli ordini professionali, quello dei giornalisti è forse il più difficile da giustificare. La principale giustificazione "teorica" all'esistenza di un ordine professionale consiste nella funzione di certificazione, da parte dell'ordine della qualità del servizio o prodotto fornito. Tale funzione è maggiormente necessaria quanto più risulta difficile per i consumatori valutare la qualità del servizio acquistato. Per esempio, l'ordine dei medici ammette nei propri ranghi solamente dottori che ritiene qualificati, secondo criteri stabiliti internamente (titolo di studio, superamento dell'abilitazione, etc...), e questo serve a dare ai pazienti maggiore sicurezza sulla qualità delle cure ricevute, che, senza avere una laurea in medicina, è difficile da valutare.
Non mi è chiaro invece cosa dovrebbe certificare l'ordine dei giornalisti. La conoscenza dell'italiano? La capacità di raccogliere le fonti e di riportarle onestamente negli articoli dati alla stampa? Io credo che le qualità di scrittore e l'onestà intellettuale di un giornalista siano facilmente giudicabili da ciascun lettore attraverso la reputazione acquisita, nel tempo, valutando i suoi scritti ed il loro impatto. Abbiamo ormai imparato come diversi bloggers possano acquisire la reputazione di competenza e capacità informativa nel quasi totale anonimato, senza uno straccio di "certificazione". L'ordine dei giornalisti, come molti altri ordini professionali, serve più allo scopo di limitare l'entrata nel settore di potenziali scribacchini. Si noti che quando si riduce l'offerta di un prodotto, ne aumenta il prezzo: un costo per tutti (tranne che per i giornalisti).
Il pluralismo dell'informazione, dunque, non si ottiene elargendo sovvenzioni e limitando la possibilità di scrivere sui giornali a chi vuole farlo. Queste misure, oggetto delle proposte di abrogazione, sono l'esatto contrario del pluralismo, servendo a perpetuare l'oligopolio degli autori e l'oligopolio degli editori che da queste limitazioni al pluralismo trovano giovamento economico, a scapito della qualità e dell'economicità dell'informazione. Il pluralismo, piuttosto, si ottiene garantendo la concorrenza del settore. Questo l'oggetto del terzo referendum, che chiede l'abrogazione della legge Gasparri sulla concessione delle frequenze televisive. Questa legge di fatto avalla un duopolio televisivo (e cioé, ancora una volta, l'assenza di pluralismo), impedendo di fatto a chiunque di entrare efficacemente nel settore televisivo.
Non ho studiato bene la proposta, mi pare che l'intera abrogazione della legge creerebbe un vuoto legislativo che il governo dovrebbe immediatamente colmare, pena la totale anarchia delle frequenze; essendo il futuro presidente del consiglio direttamente coinvolto, ho seri dubbi sulla possibilità che qualcosa di buono possa risultare, qualsiasi sia l'esito del referendum, se venisse effettuato. Un serio riordinamento del settore televisivo dovrebbe affrontare la privatizzazione della RAI, che non credo sia facilmente realizzabile per via referendaria.
Comunque sia, tutte le tre proposte sono a mio parere condivisibili ed attuabili indipendentemente (e cioè anche se per qualche motivo la corte costituzionale dovesse bocciare uno dei referendum), e costituirebbero un passo in avanti. Si può argomentare sulla priorità data a questi puttosto che agli altri mille problemi che affliggono il nostro paese, ma non sulla validità dell'iniziativa.
Non ho simpatia per il Beppe Grillo "politico", perché spesso demagogico e troppo calato nella parte del vate. Ma se questi sono i referendum li condivido fino all'ultma virgola, e gli farò propaganda per come posso...
Piu' che vate direi che e' uno che sa farsi bene i suoi interessi.