Il valore legale del titolo di studio determina la certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di una preparazione professionale in conformità agli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale. La partecipazione a concorsi pubblici e l'accesso ai concorsi per l'iscrizione agli albi professionali richiede molto spesso il possesso di un titolo di studio rilasciato da una scuola o università riconosciuta nazionalmente. Spesso inoltre un valido titolo di studio viene richiesto da imprese private, anche nei casi in cui non ne hanno l'obbligo.
Quindi il valore legale ha tre effetti: (1) la necessità per un lavoratore in molti casi di possedere un titolo proveniente da una scuola "riconosciuta" per accedere a certi settori del mercato del lavoro; (2) la necessità (di fatto, non di diritto) per chiunque voglia istituire una scuola o università privata di ottenere la "certificazione" ministeriale, e quindi sottostare a certi direttive ministeriali. Infine, (3) la parificazione nei concorsi della qualità dei titoli di studio (rilasciati dalle scuole riconosciute), che contano tutti allo stesso modo; in generale la certificazione crea un appiattimento nella percezione della qualità dei vari titoli di studio anche nel settore privato. A mio parere nessuno di questi effetti costituisce un grosso problema.
I primi due problemi sono collegati, quindi li affronterò assieme. La necessità di un titolo di studio per praticare certe mansioni non è una prerogativa italiana. Per esempio, negli Stati Uniti, per accedere alla professione di avvocato, occorre superare il “bar exam”, una sorta di esame di iscrizione all’albo. In quasi tutti gli stati, l’iscrizione all’esame richiede il titolo di studio acquisito da una Law school accreditata dall’albo; esistono dozzine e dozzine di scuole accreditate, alcune ottime, altre mediocri. Quindi, il titolo di diplomato in legge ha valore legale. Sempre negli Stati Uniti, non si può praticare la professione medica senza aver prima acquisito un titolo da una Medical school. Quindi il titolo di dottore acquisito in una Medical School, ha valore legale. Infine, la parrucchiera di Lower Manhattan che mi taglia i capelli tiene accanto allo specchio un certificato ben incorniciato del dipartimento sanitario dello stato di New York che certifica il titolo conseguito; la certificazione è necessaria per praticare la professione di parrucchiera; quindi, il titolo di estetista conseguito in 6 mesi al community college di Brooklyn ha valore legale.
La differenza con il modello americano è che la certificazione dei curriculum in Italia viene fatta centralmente, mentre negli Stati Uniti viene fatta in certi casi a livello federale, in certi casi a livello statale o locale, in certi altri casi da associazioni professionali di natura privata ma di fatto a carattere pubblico. In sostanza non mi pare una gran differenza. È vero che per aprire una università privata in Italia occorre un'approvazione del ministero, e quindi, di fatto, adeguare i curriculum a certi requisiti stabiliti centralmente. Ma i requisiti sono minimi. Si ricordi che vale il principio della libertà accademica (che è buona cosa): i contenuti dei corsi sono stabiliti dal docente incaricato, non dal ministro. Per esempio, anche se la Bocconi, per mantenere il riconoscimento ministeriale, è tenuta ad insegnare diritto commerciale ai laureandi in Economia e Commercio, i contenuti del corso possono essere ben diversi da quelli dello stesso corso insegnato a Ca' Foscari.
Purtroppo è possibile che il ministero usi in modo troppo "liberale" la propria discrezionalità di certificazione, e certifichi università istituite da "amici" e neghi invece la certificazione ad università "non desiderate" anche se meritevoli. Quindi il problema non è la certificazione in sé, ma la qualità della certificazione. In molti casi meglio sarebbe se la certificazione fosse affidata al mercato, non solo perché il mercato ne migliora la qualità, ma anche perché nel caso delle università pubbliche l'ente certificante e quello certificato sono governati dalla stessa persona (un interessante caso di conflitto di interessi). Si noti infine che certificazione statale e valore legale non implicano l'un l'altro: la certificazione statale è possibile anche abolendo il valore legale, per esempio come "servizio" offerto al settore privato (come per esempio per l'approvazione dei farmaci). Ed è anche possibile mantenere il valore legale, prevedendo però che la certificazione venga effettuata da enti privati.
Riassumendo, cosa si otterrebbe eliminando la necessità di possedere un titolo rilasciato da una scuola certificata? Commercialisti con bisturi e stetoscopio? Laureati in legge al tecnigrafo a progettare ponti e grattacieli? Geometri a difendere cause in tribunale? Questo non succede e non è possibile in nessun paese al mondo, salvo poche eccezioni. Anche se fosse possibile, l'aumento della concorrenza nel mercato delle professioni che ne risulterebbe sarebbe minimo. Anche ora nessuno vieta ad un’impresa edile di assumere un non laureato per effettuare i calcoli strutturali di un edificio (se lo ritiene competente in calcoli ingegneristici). Certamente, la “firma” del progetto deve essere poi effettuata da un ingegnere iscritto all’albo (che può essere invece un incapace). Similmente esistono certamente casi di persone che vanno a “curarsi” da ciarlatani, laureati o meno (ricordate Di Bella?). Inoltre, sembra anche che il titolo di studio conti sempre meno nelle ricerche di lavoro (si veda a riguardo questo articolo da Repubblica). Quindi, la rimozione del valore legale avrebbe effetto solo per i posti soggetti a concorso pubblico, che, è vero, non sono pochi, ma quale sarebbe il suo vero impatto? Io mi azzardo a dire che sarebbe minimo. Non credo che molti laureati in ingegneria aspirino a partecipare ai concorsi per giudice.
Sul terzo problema, la parificazione di tutte le università buone e mediocri nei concorsi, va detto che in senso stretto non è vero che esiste parificazione: esistono università certificate e università non certificate (che però spariscono dal mercato, quindi non si notano). Ma anche ignorando questo, va notato che il requisito del titolo di studio non è l'unico requisito richiesto, non solo nel settore privato ma anche in tutti i concorsi pubblici. Ci sono sempre altri test, esami, e titoli necessari a comprovare la qualità del candidato; presumibilmente, chi ha ricevuto una buona istruzione, farà meglio degli altri candidati. Esiste anche spesso una componente di valutazione discrezionale della commissine esaminatrice. Il problema dei concorsi pubblici non è che tutte le università sono parificate nei punteggi, ma l'assenza di meritocrazia ed incentivazione nella gestione della pubblica amministrazione. Per un dirigente della p.a. non fa nessuna differenza assumere il migliore degli iscritti a concorso o l'incapace figlio del cugino. E il migliore degli iscritti a concorso non è necessariamente laureato ad Harvard.
Credo si faccia molta confusione sul significato di valore legale. Con l'abolizione del valore legale molti intendono una serie di misure ad esso collegate, ma che con esso hanno poco a che fare. In quasi tutti i paesi del mondo esistono leggi che proibiscono l’esercizio di molte professioni senza un adeguato titolo di studio e una licenza. Parlare troppo del valore legale del titolo di studio significa dimenticare il vero problema del mondo accademico italiano, e cioè la mancanza di concorrenza fra atenei, ed il vero problema della pubblica amministrazione e delle professioni in genere: mancanza di incentivi, ordini professionali che limitano la concorrenza. Parliamo di questo, please.
Sono d'accordo: le rendite generate dal valore legale impallidiscono al confronto delle le rendite garantite dalla presente regolamentazione degli ordini professionali.
Pero' secondo me sottovaluti gli effetti del valore legale nella pubblica amministrazione, interpretandolo in modo riduttivo. Il vero problema delle forme di assunzione della pubblica amministrazione e' il tentativo di determinare per legge i criteri (con un contratto completo, direbbero gli economisti). Il valore legale (come lo interpreto io) livella verso il basso non perche' tutte le universita' certificate hanno lo stesso valore, ma perche' non permette altri termini di valutazione collegati alla qualita' dell'universita'; eccetto il test (che, converrai, e' misura estremamente imprecisa). Non solo, ma il voto di laurea ha anch'esso valore legale, suppongo, nei concorsi. Senza la possibilita' di aggiustare per qualita' dell'universita', questo ha naturalmente effetti perversi.
Anche qui, siamo d'accordo che la mancanza di concorrenza nella pubblica amministrazione e' la causa di tutti i mali. L'abolizione del valore legale e' condizione necessaria pero' perche' una qualche competizione sul mercato del lavoro nella pubblica amministrazione sia possibile, per quanto salari rigidi ne minimizzino gli effetti comunque.
Sullo spirito siamo d'accordo, ma il mio articolo cerca di spiegare che il problema non e' il valore legale. Nel caso da te sottolineato, il problema e' il criterio valutativo dei concorsi; si possono introdurre elementi discrezionali nei concorsi, valutazioni differenziate, addirittura si possono valutare diversamente le universita', mantenendo il valore legale (e cioe' la necessita' di un titolo di studio acquisito in un ente certificato). L'abolizione del valore legale non e' condizione ne' sufficiente ne' necessaria per produrre un miglioramento delle valutazioni dei concorsi.