Aron Ralston, il protagonista del film, ama girovagare per i canyon dello Utah e conosce quei posti, e tutte le loro pieghe, come le sue tasche. Per certi versi la familiarità ostentata con quei luoghi stride con la loro desolazione. Si tratta del resto di un paesaggio minerale fatto di rocce erose, ondulate al punto da rendere difficile cogliere la reale profondità fisica degli spazi, il tutto punteggiato di una vegetazione rada, bassa e contorta su di un terreno sabbioso.
Il film si introduce con una successione di immagini e musiche velocissime, quasi frastornanti: il profluvio di suoni e flash e l’abbondare di riprese in soggettiva provoca effetti ai limiti della nausea. In una stessa schermata le immagini si frammentano, e vediamo in contemporanea: masse di persone che si muovono, primi piani del protagonista, insegne luminose e poi ancora lo scenario percorso in macchina rifratto nello specchietto laterale dell'auto. Alla fine di tal vortice di suoni, immagini e velocità il deserto e il silenzio sembrano davvero il giusto rimedio. Notevole poi le inquadrature “dal punto di vista degli oggetti”: pensili, borracce e altri oggetti sono inquadrati “da dentro” quasi in preparazione all’attenzione che quegli oggetti e il loro funzionamento avranno nel proseguo del film.
Arrivato sul canyon, Aron incontra delle ragazze che si sono perse, ma anche questo è un incontro fugace, visto che dopo poco tempo trascorso con loro, riprende la camminata da solo.
Poco dopo accade l’incidente. Il giovane cade dentro una crepatura della roccia e nella caduta un masso gli incastra il braccio rendendo i suoi movimenti impossibili e condannandolo a rimanere intrappolato per 127 ore, come il titolo del film appunto.
È qui, nel fondo di questa “caverna” a cielo aperto che si svolge il resto del film, con il protagonista che cerca di ingegnarsi per rimuovere il masso. Ovviamente, le condizioni ambientali sono ostili e dunque il ragazzo dovrà affrontare la disidratazione, la fame e gli insetti e oltre al continuo susseguirsi del gelo notturno e del caldo diurno.
In condizioni tanto estreme e convinto a tratti di essere condannato a rimanere laggiù per sempre, Aron vede la sua vita scorrergli davanti come in un film. Ma a vederlo da là sotto non è così sicuro che soggetto e sceneggiatura di quello che e' accaduto sino ad ora siano ancora validi… e così con l’aiuto di una videocamera digitale che ha appresso, gira lui le scene mancanti del film vero, quelle che, si accorge solo ora, avrebbe voluto e dovuto girare per davvero. E così, mentre è incastrato nella roccia, lo vediamo intento in auto-riprese per filmare i suoi “vi voglio bene” e i suoi “avrei dovuto rispondere al telefono” che ora, con il peso della roccia sul braccio e il peso della solitudine e della disperazione sul resto del corpo, vorrebbe tanto rivolgere a genitori, amici e parenti.
Col passare delle ore la situazione si complica sempre più. I tentativi messi in atto per la rimozione del masso falliscono tutti, la fame e la sete si fanno di ora in ora più insopportabili e si accompagnano alle immagini di un altro film, quello malinconico e a tratti delirante dove la mente offuscata frulla ricordi, angosce e pensieri e salta dal desiderio di un Gatorade fresco al ricordo di compleanni, suonate di pianoforte e interni di famiglia che non si capisce bene se siano ricordi veri o inventati.
Nel vedere Aron viene in mente il mito della caverna. Anche Aron è incatenato, non si può muovere e anche lui vede, sulle pareti della caverna, la riproduzione falsata delle cose vere che stanno fuori e che vorrebbe raggiungere di nuovo. Ma a differenza che nel mito della caverna quelle immagini, seppure sfocate dalla fame e dalla sete, non sono la copia degenere delle cose “importanti e vere” alle quali dovrebbe tendere una volta liberatosi, ma sono esattamente quelle esperienze e quei ricordi (e la speranza di riviverli) che, per quanto prosaici possano apparire, lo motivano a resistere e liberarsi. Costi quel che costi.
Il film richiama una storia vera e, a giudicare dalla forza d’animo del protagonista, non mi stupisce che adesso giri il mondo a tenere corsi di autostima.
Danny Boyle è stato molto bravo. Il film si prestava al rischio di fare un racconto imperniato su un episodio raccapricciante. Considerando che la seconda parte del film ha location obbligata ha utilizzato l'epifania, le allucinazioni visive e uditive e il flashback in maniera molto intelligente per far deragliare spesso il racconto dal binario della realtà contingente e non renderlo monotono.