Il libro (pubblicato da manifestolibri) ha sottotitolo "autonomia e soggettività politica a Porto Marghera 1960-1980" ed ha interesse molto storico.
Contiene la storia orale, o quasi, della nascita, vita, e morte del comitato operaio di Porto Marghera.
È dedicato alla memoria di Augusto Finzi, che da rifugiato politico (la sua famiglia fu rifugiata in Svizzera in seguito alle leggi razziali italiane) divenne un tecnico (la famosa aristocrazia operaia) a Porto Marghera ed un reale leader delle lotte in tutta la zona industriale che circonda la laguna di Venezia.
È la storia del più recente fenomeno di anarco-sindacalismo. Il comitato fu fieramente indipendente da partiti e sindacati (all'epoca: PSI, PCI, Psiup, Filtea, CISL, ACLI, e altri ancora.)
Fu implacabilmente un fenomeno di classe, in tutti i sensi del termine: venne dalla e fu della classe operaia che all'epoca esisteva e divenne un organismo di gran classe, la sua cultura fu una cultura raffinatissima che si scontrò con apparati sia industriali che politici antiquati e sclerotici.
Il volume contiene anche un video (non brutto) che marca bene il tempo. Nella prima intervista (filmata prima del suo decesso) Finzi richiama come la cultura che spinse le lotte fu quella che da' priorità alla persona prima che al processo industriale (non so se, per chi ricorda quei tempi, fosse questo il modo in cui le lotte d'avanguardia contro la nocività del lavoro venissero presentate e percepite.)
Il libro contiene anche due saggi (uno di Massimo Cacciari e uno di Antonio Negri) che rivedono le esperienze in luci assai diverse e con molto senno del poi.
Fu anche una grande utopia (a pagina 161 è riportato nella sua integralità il "Rifiuto del lavoro" del 1970, che è di gran lunga migliore delle corbellerie di G. Debord & Co. che tanto inchiostro fecero scorrere) e come le utopie vere fu una mistura instabile di ciò che non esiste e di ciò che è bene.
Il secondo paragrafo, magistrale ad avviso del sottoscritto, inizia e finisce con le parole:
Quello che dobbiamo prima di tutto dire è che è falso il luogo comune che i padroni sfruttino gli operai per arricchirsi.
[....]
Il capitale è insomma una potenza che si riproduce al di là della buona volontà dei singoli individui; il problema della sua eliminazione non sta quindi nella eliminazione della proprietà privata, ma nella distruzione stessa del rapporto di produzione, cioé nella distruzione della necessità di lavorare per vivere.
Adriano, questo paragrafo sara' magistrale ma e' anche utopico. La necessita' di "lavorare" per procurarsi del cibo, una casa, un vestito e' roba precapistalica, preistorica, pretutto.
Tu che hai letto il libro forse ci puoi spiegare il senso di questa affermazione, che forse mi sfugge.
Giulio, appunto.
Come forse ricordi le utopie (e More ne era cosciente) sono un ibrido tra cio' che non esiste (una specie di "paese di cuccagna" dove automobili si guidano da sole, il cibo e' manna dal cielo discesa, o le case si costruiscono come fenomeni geologici) e cio' che e' bene, i.e. cio' che viene desiderato.
Il "rifiuto del lavoro" e' di queste instabili misture. Se la cosa interessa, ci si puo' ritornare, anche su un fenomeno culturale che ebbe una qualche influenza.