Quando Adorno scrisse “La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie”, non aveva ancora fatto i conti con la poetica di Celan, con quel “ciò che è stato”, che segna la lacerazione della storia nel suo “prima” e nel suo “dopo” Auschwitz.
In un appunto trovato tra le carte di Celan si legge: “Nessuna poesia dopo Auschwitz: qual è la concezione della poesia posta sotto accusa? La presunzione di chi ha il coraggio, ipoteticamente-speculativamente, di considerare o raccontare Auschwitz dalla prospettiva dell’usignolo oppure del tordo”. Celan non accetta, non può accettare l’accusa di barbarie per aver parlato dell’orrore di Auschwitz, egli conosce bene il valore del monito, l’importanza dell’accusa, il nesso sottile che lega il sopravvissuto alla memoria dell’amato defunto (scriveva Osip Mandel’štam, poeta molto caro a Celan, “Nella distanza della separazione, i tratti di una persona a cui si vuole bene si sfumano. E allora cresce in noi il desiderio di dirle cose importanti che non abbiamo potuto dirle quando la sua figura era davanti ai nostri occhi, in tutta la sua concretezza”), tutta la poetica di Celan si dipana da quel nodo, da quel doloroso ricordo, da quell’esigenza di mantenere vivo lo strappo dai genitori, dalla madre, strappo che solo i versi possono perpetrare, mantenendo in vita il respiro con la dignità della memoria dell’orrore, e scriverà:
Madre, madre
Strappata dall’aria
Strappata dalla terra.
Giù
Su
trascinata.
Ai coltelli ti consegnano scrivendo,
con abile mano sciolta, da nibelunghi della sinistra, con
il pennarello, sui tavoli di teck, anti-
restaurativi, protocollari, precisi, in nome della inumanità da distribuire
di nuovo e giustamente,
da maestro tedesco,
un garbuglio, non
a – bisso ma (*)
a – dorno
scrivendo,
i reci-divi,
consegnano
te
ai
coltelli.
Tra il poeta e il filosofo da quel momento si avviò un intenso “botta e risposta”, testimoniato dal lavoro di ricerca e ricostruzione redatto da Paola Gnani, nel volume “Scrivere poesie dopo Auschwitz – Paul Celan e Theodor W. Adorno”, che seppure non portò ad un vero e proprio incontro tra i due uomini, senza dubbio segnò una svolta nel pensiero del filosofo riguardo la concezione dell’arte dopo Auschwitz, tanto che negli ultimi anni della sua vita, nella Dialettica negativa, Adorno ebbe a raddrizzare il tiro scrivendo: “Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia […] L’arte che non è più affatto possibile se non riflessa, cioè presa se non come un problema, deve da sé rinunciare alla serenità. E la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti, il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena”.
Non a caso, Ladislao Mittner definì Celan come “il più grande poeta emerso dalla tragedia della seconda guerra mondiale” attribuendo alla sua poesia l’intensità dolente “di un grandissimo requiem ideale sui dieci milioni di ebrei sterminati dai nazisti”.
La poesia di Celan come alcune tele di Chagall(**), intesse il dolore in una rete ermetica fatta di simboli ed immagini ché, evocando tanto la memoria del quotidiano quanto la simbologia religiosa della Torah, non ne banalizzi la rappresentazione cronachisticamente ma, scavando la parola fino a trovarne e restituirne il senso universale della sofferenza, scorticata nell’intimo e più profondo significato di ogni lemma, essa sia monito ed immagine fissa agli occhi per le generazioni future, come memoria di “ciò che è stato”: orrore, vergogna d’esistenza insita nella natura – essa barbara e bestiale – dell’uomo, perché “ciò che è successo” è e non sia, perché “ciò che è stato” è e potrebbe ancora essere, ripetendosi
… ma, forse, ne siamo già ciechi spettatori.
FUGA DI MORTE
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza.
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura e lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
I tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith.
*
SALMO
Nessuno ci impasta più di terra ed argilla,
nessuno alita sulla nostra polvere.
Nessuno.
Lodato sii tu, Nessuno.
per amor tuo vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.
Un nulla eravamo, siamo, rimar-
remo, fiorendo:
la rosa di
Nulla, di Nessuno.
Con
il pistillo anima chiara,
lo stame cielo diserto,
la corona rossa
della parola purpurea che cantammo
su, oh sul-
la spina.
Zona di neve, inalberata, fino all’ultimo,
nel vento ascendente, dinanzi
alle baite definestrate
per sempre:
sogni radenti spazzano
sullo striato ghiaccio;
sbozzare
le ombre di parole, accatastarle
attorno all’arpione
nel tonfano.
_________________
Paul Anczel, meglio conosciuto con l’anagramma del cognome “Celan”, nasce nel 1920 a Czernowitz (da poco annessa alla Romania) da genitori ebreo-tedeschi. Nel ’38 si trasferì a Parigi per intraprendere gli studi presso la facoltà di Medicina, che presto abbandonerà per dedicarsi agli studi di letteratura romanza presso l’università di Czernowitz. L’anno successivo però ebbe inizio il tragico succedersi degli eventi luttuosi che videro il suo popol ed i soi cari sterminati dall’orrore nazista. I genitori di Paul furono deportati e solo lui riuscì a fuggire riparando a Bucarest dove, finita la guerra, iniziò a collaborare con due case editrici ed a pubblicare i suoi primi versi con lo pseudonimo di Paul Celan, successivamente si recò a Parigi, dove lavorò come insegnante e traduttore per riprendere e, dunque, mantenersi agli studi universitari. Nel ’50 divenne lettore di lingua e letteratura tedesca presso l’École Normale Superiéure, nel 1970 si uccise gettandosi nella Senna.
Note:
(*) l’ottima traduzione di Michele Ranchetti mette in evidenza il gioco di parole che polemicamente fa riferimento alla concezione poetica di Theodor Wiesengrund Adorno – traducendo quello che nell’originale tedesco è reso con “ab – gründig e ab – wiesen” in “a-bisso e a-dorno”.
(**) La simbologia di Chagall non prescinde dal dolore di un’epoca di persecuzione e dall’infamia della shoa, così saranno del periodo americano il “Cristo ebreo”, opera in cui ritrae un Cristo sulla Croce ricoperto da un tallit (tallet, mantello quadrangolare della tradizione ebraica che presenta un fiocco per ogni lato), che divenne icona di contestazione e rivendicazione del dolore di un intero popolo “crocefisso”. Sembianze Cristologiche verranno molto più tardi, nel 1975, attribuite anche al suo “Giobbe” dipinto nel quale ritroviamo la simbologia degli agnelli accostata ad un crocefisso anch’esso polemicamente presente nel quadro.
Riferimenti bibliografici:
Stefano Zampieri “Il flauto d’osso – Lager e letteratura” – casa ed. Giuntina
Scheda libro qui: http://www.giuntina.it/volumi.asp?VolumeId=287
Paola Gnani, nel volume “Scrivere poesie dopo Auschwitz – Paul Celan e Theodor W. Adorno” – casa ed. Giuntina
scheda del libro qui: http://www.giuntina.it/Schulim_Vogelmann_1/Scrivere_poesie_dopo_Auschwitz_472.html
Antologia della poesia tedesca – a cura di Roberto Fertonani e Elena Giobbio Crea – Ed. Mondadori
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi
mi chiedo se siano già nati degli essere umani modificati nelle strutture del dolore.se davvero non sia solo un problema di linguaggio,qualunque,fisico,letterale,grafo,sfregio,simbolico,altro.se non sia dunque solo un problema di analisi e forse le neurescienze ci daranno qualche risultato.se quindi è solo una questione di storia,di allocazione di risorse,di cicli,di strutture sociali che cambiano come regole di costrizione e che domani,riporteranno attenzione sull'uomo.io ricordo delle povere donne annegate e dei bagnanti che continuavano a giocare attorno a loro.una replicazione continua del dolore,in queste erra elettrica,infinita,porta a tutto questo?mi chiedo se il dolore sia anche un controllo sociale,sanzionabile e quindi anche "giusto" per definire una società.io devo causare dolore per crescere,anche producendolo ?certo,alienazione,separazioni,incidenti,ferite,malattie,sfiga,esistono,ma sono le lo trasposizioni sia interne che sociali che modificano il tutto.se dallo schiaffo che i padri davano ai figli che guardavano una impiccagione come monito si sia passati alla giustizia fai da te dentro e davanti alla wii.ossia che il dolore sia diventato da un lato gioco,o politica,o qualche artificio esterno e dell'altro ,solo linguaggio personale,intimo,interiore,cui nessuno può avere accesso.è così,anche se in quel compromesso creiamo tutto quello che vediamo,regole economiche,strade,ponti,case,luci,merci,spostamento di uomini,studi,onore e gloria,tv.io ti dico che ti amo,che ho dolore.guerre e destini sociali che si fondano sul mistero non traducibile.enigmi,che colore avrà mai dentro di se mentre mi guarda?il tuo bacio è materia rumorosa,replicabile,oppure singolare punto di luce?che tu lo creda o meno,se non esiste diversità esterna,è lo stesso.quegli ebrei sono oblio,visti in tv,replicati,ma il dolore non è il mio.ci sono tanti film più "dolorosi",no?la poesia credo sia naturale,come assorbire il cielo in una stanza.crea materia rumorosa di sogni,riti dalla polvere.esisterà,sempre,magari in certi videoclip che sono poesia pura.così come credo che la letteratura vera viva nei serial tv americani,oggi come oggi.le ore è letteratura,ma quel mentale tradotto in poesia è così distante dalle azioni reazioni replicabili di molti.