Ho avuto modo di ascoltare l'argomento di questo libro già nel 1998 durante un seminario accademico alla Georgetown University, dove stavo concludendo il mio Ph.D. Il paper presentato allora mi colpì perché era la prima volta che sentivo un argomento economico, anziché etnico o storico, sulla dimensione di uno stato. Quel giorno a Georgetown Alberto Alesina presentò un draft del lavoro che venne poi pubblicato due anni dopo come "Economic Integration and Political Disintegration" nella rivista accademica American Economic Review. Assieme ai suoi coautori, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg, la ricerca venne approfondita risultando nella pubblicazione del libro "The Size of Nations" (MIT Press, 2003) che sorprendentemente non è ancora stato tradotto in italiano.
La tesi della ricerca è in apparenza azzardata, perché sostiene che la globalizzazione facilita la creazione di nuovi stati. Come mai un economista di fama internazionale si occupa di confini geografici anziché di deficit, disoccupazione o tassi d'interesse? Questo perché anche i confini politici, al contrario di mari e monti, sono il frutto di decisioni umane. Essendo scienza sociale, l'economia studia l'interazione tra persone e l'equilibrio a cui si converge tramite le diverse preferenze e scelte. Alcuni di questi equilibri, come ad esempio le quotazioni del Nasdaq, cambiano con velocità istantanea. Altri, come invece gli equilibri geopolitici, hanno la dinamica dei ghiacciai: sembrano immobili, ma tutto d'un tratto si possono osservare enormi spostamenti inaspettati, dovuti a graduali pressioni interne.
La tesi di Alesina e coautori incomincia ponendosi delle domande molto semplici. Perché nel periodo protezionistico ottocentesco e nella bellicosa prima metà del Novecento osserviamo imperi che fagocitano piccole realtà politiche preesistenti? E perché invece nel dopoguerra c'erano solo una settantina di stati nel mondo, e gradualmente con l'avanzare del commercio internazionale e della globalizzazione economica oggi ne abbiamo quasi duecento?
Questa intuizione su una correlazione tra apertura commerciale e moltiplicazione (e rimpicciolimento) degli stati trova conferma nelle analisi econometriche di Alesina e colleghi. Non solo esiste una causalità statistica tra apertura commerciale e la nascita di nuovi stati tipo la Repubblica Ceca e la Slovacchia, o i baltici Estonia, Lettonia e Lituania. Ma negli anni di apertura globale abbiamo in genere anche una miglior prestazione economica in paesi di dimensioni ridotte piuttosto che nei grandi stati come la Germania, la Francia e l'Italia.
Nell'ultimo numero di questo agosto, Newsweek presentava in copertina la lista dei migliori paesi al mondo, secondo diversi metri di misura che spaziavano dalla qualità della vita, all'educazione, alla sanità, fino al dinamismo economico. Con una formula ponderata basata sulle diverse categorie, e sulla consulenza di esperti tra cui il Nobel Joseph Stiglitz, Newsweek concludeva che i migliori paesi al mondo tendono ad essere piccoli. Della classifica di Newsweek, nove dei primi dieci sono considerati demograficamente piccoli: Finlandia, Svizzera, Svezia, Australia, Lussemburgo, Norvegia, Canada, Olanda, Giappone e Danimarca. Questa è stata forse una rivelazione per i lettori di Newsweek, ma non certamente per il mondo accademico a conoscenza della ricerca di Alesina e colleghi. Loro difatti, più di una decina di anni prima della divulgazione di Newsweek, già avevano sviluppato anche un modello teorico per spiegare il perché del successo economico dei piccoli stati.
Per cominciare, la dimensione ideale di uno stato non viene misurata in chilometri quadrati e nemmeno in popolazione. Esiste un grado di omogeneità culturale (a prescindere dalla composizione etnica) che rende i 30 milioni di abitanti della vastità canadese meno eterogenei dei 10 milioni di fiamminghi e valloni inguaiati nella ristretta pianura belga. Il modello di Alesina e colleghi assegna un costo politico a questa eterogeneità. Più distante è la media democratica rispetto la realtà del singolo cittadino, meno efficace sarà il servizio pubblico che questo riceverà. Fin qui l'approccio aggiunge poco di originale rispetto alla preesistente letteratura accademica: più grande ed eterogeneo uno stato, più distante sarà percepita la politica della capitale.
Esistono però anche dei vantaggi alle dimensioni di uno stato. In caso di guerra, più grande lo stato, più grande l'esercito e minore il rischio di venire invasi. Inoltre, in caso di protezionismo, i confini politici rappresentano anche dei confini commerciali e perciò un produttore preferirà far parte di un impero piuttosto che di una città-stato. Durante l'Ottocento e buona parte del Novecento, il mondo era dominato da una politica protezionistica e da minacce militari. Non a caso molte realtà politiche minori sparirono in questo periodo (pensiamo all'unificazione italiana, ma anche a quella tedesca) appunto perché al tempo era economicamente insostenibile essere piccoli e isolati. I pochi piccoli stati superstiti all'Ottocento erano situati sull'Atlantico e potevano contare sullo sfruttamento coloniale.
Questa non era ad esempio la situazione rinascimentale. Dato il periodo di inferiore tecnologia bellica e a relativamente minori ostacoli commerciali, città-stato come Venezia, Genova e Amsterdam avevano accumulato ricchezze equivalenti a quelle del Regno di Francia, ma garantendo un tenore di vita medio più elevato di quello del francese medio.
Il libro di Alesina e Spolaore fa notare che oggi ci stiamo allontanando sempre di più dal protezionismo ottocentesco. Nell'era dell'Unione Europea non ha assolutamente senso per la Slovenia e la Slovacchia preoccuparsi di invasioni militari. Entrambi questi stati nati meno di vent'anni fa godono di una politica locale indipendente, e non succube di decisioni prese in capitali distanti per accontentare realtà più eterogenee. Ma allo stesso tempo la loro economia, le loro ditte, i loro imprenditori non sono svantaggiati rispetto ai corrispettivi italiani e tedeschi. Hanno tutti lo stesso accesso al mercato europeo. I loro ristretti confini politici non rappresentano dei confini commerciali, perché il loro mercato è il mondo intero, per un imprenditore estone come per un imprenditore francese. Come per darwinismo economico, il successo di uno snello stato confinante aumenta le pressioni identitarie all'interno di grandi contenitori politici formatisi nell'Ottocento.
Prendendo spunto da questo libro, queste sono le mie considerazioni. L'ascesa della Lega degli ultimi vent'anni non a caso combacia con un declino economico del reddito medio italiano rispetto alla media europea, in un continente popolato da una maggioranza di stati più piccoli ed efficienti dell'Italia. E non si tratta solo di vantaggi aritmetici di regioni ricche a scapito di regioni povere. Il recente rafforzamento di un "partito del Sud", sintomo di una polarizzazione geografica della politica, rispecchia un equivalente disagio da più latitudini verso la politica dei compromessi della capitale. L'esempio della più povera Slovacchia che dopo l'indipendenza cresce di più dei ricchi cugini cechi, e della periferica Cipro che grazie ad una indovinata politica indipendente cresce a ritmi impensabili nel Mezzogiorno, ci indica che il ghiacciaio può scricchiolare da più frangenti.
Guardando solo la teoria esposta da Alesina e i suoi coautori ormai già una dozzina di anni fa, non è immediato immaginare un nesso con la situazione politica ed economica di fiamminghi e valloni, di catalani o di siciliani. Da piccoli guardavamo alla mappa politica come se fosse statica tanto quanto quella geografica. Ora, grazie al lavoro di Alesina, Spolaore e Wacziarg abbiamo un tentativo di spiegare in termini economici le dinamiche di come anche i confini, pur se lentamente, si possono spostare nel tempo.
Sono colpito da questo passo nellapresentazione "In The Size of Nations, they argue that the optimal size of a country is determined by a cost-benefit trade-off between the benefits of size and the costs of heterogeneity."
Mi sa che implicitamente si assume la possibilità di sommare costi e benefici tra individui diversi e quindi che questi siano oggettivi. Sin dagli '30 grazie a Robbins questa operazione è stata dimostrata impossibile, illogica se non in situazione di equilibrio quando le aspettative di tutti gli operatori sono identiche. Anche Blaug riconosce che è oggi un patrimonio comune dell'economia.
Sarei mollto curioso di capire come fa il mainstream odierno a superare questa contradizione. O semplicemente al ignora?
La mia risposta non centra molto col libro, pero' in un ipotetico mondo potresti forse guardare solo ai costi e benefici del median voter, del re, del signorotto locale, a seconda della situazione. Pero' sarebbe un mondo molto ipotetico...
Phileas,
il problema fondamentale e' se abbia senso fare confronti interpersonali di utilita' (cioe' se ha senso fare affermazioni del tipo: Mr A preferisce x a y piu' di quanto Mr preferisce y a x). Non credo si possa dire che Robbins abbia 'dimostrato' nulla, semmai argomentato che certi confronti interpersonali di utilita' si fondano su 'giudizi di valore' e in questo senso non sono 'scientifici' (Jevons aveva una posizione simile e diceva che 'every mind is unscrutable to every other mind and no common denominator is possible' [piu' o meno, vado a memoria]).
Guarderei piuttosto al teorema di impossibilita' di Arrow, che puo' essere interpretato come una dimostrazione delle difficolta' in cui si incorre quando l'input per una decisione sociale sono soltanto gli ordinamenti di preferenza (senza confrontare le intensita' di quelle preferenze) degli individui coinvolti.
In molte situazioni si possono trarre utili conclusioni usando esclusivamente le preferenze, non comparabili, degli individui. Un mercato Walrasiano ideale e' Pareto efficiente e questa e' una cosa confortante da sapere. Poi c'e' un' enorme insieme di allocazioni Pareto efficienti, alcune delle quali 'perfectly disgusting' (come dice A. Sen), fra cui il policy maker deve scegliere. Qualche giorno fa Aldo e Giulio, che credo si possano definire due 'economisti mainstream moderni' per usare la tua espressione, si sono lanciati in confronti fra oggetti del tipo (3,3), (9,2) eccetera, dove i numeri rappresentano le utilita' di due individui. Se uno deve scegliere fra (9,2) a (3,3) e dice di preferire la prima allocazione, sta implicitamente giudicando che 1 unita' di utilita' per il secondo individuo conta meno di 6 unita' di utilita' per il primo (a quei livelli di utlita'). Si parlava anche di 'costi eccessivi' della distribuzione, implicitamente assumendo di poter confrontare l'intensita' dei costi con i potenziali guadagni dei messi meggio.
Quindi, per ripondere alla tua domanda, a dispetto di Jevons, Robbins e i positivisti, gli economisti moderni si nutrono di confronti interpersonali di utilita', ma vanno cauti su come applicarli. C'e' una vasta letteratura e se dovessi scegliere una guida per districarmici mi affiderei a malpassotu.
C'e' da dire poi che esiste una schiera di economisti applicati che se ne impipa altamente dei problemi concettuali inerenti alla cost-benefit analysis, somma tranquillamente guadagni monetari (e non utilita') etc.. Non ho letto il libro di Alesina et al., ma dubito che utilizzino cost-benefit in maniera cosi' ingenua, e se lo fanno non mi resta che dire 'o tempora, o mores'.