Che gli italiani si sentano spesso più sudditi che cittadini risponde al senso comune di chiunque abbia un minimo di confidenza con il nostro paese; è appunto con la definizione di suddito che si apre a raccolta di saggi brevi curata da Nicola Rossi per l'Istituto Bruno Leoni (grassetto nostro):
Sùddito agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. subdĭtus, part. pass. di
subdĕre «sottomettere, assoggettare», comp. di sub- e dare
«dare»]. – 1. agg., letter. Sottoposto a un’autorità sovrana: la
regina Cui questo regno è s. e devoto (Dante). 2. sost. a. Ogni
soggetto che si trova in condizione di dipendenza dalla sovranità
dello stato; in partic., e in antitesi a cittadino, il soggetto che
dipende dalla sovranità dello stato senza esserne membro: i s.
coloniali; gli apolidi sono s. dello stato che li ospita. Nell’uso
corrente indica anche chi è subordinato a uno stato organizzato
in monarchia assoluta, oppure il cittadino considerato non in
rapporto allo stato ma al monarca:
La sensazione viene meticolosamente confermata man mano che, nel corso del libro, il rapporto stato-invididuo viene esaminato nelle numerose sedi in cui si manifesta. Se il profilo fiscale, come è facilmente immaginabile, la fa da padrone fin dall'introduzione, non mancano altri interessanti punti di vista meno usuali, come l'ottica dell'investitore estero, testimoniata da Fabio Scacciavillani, il voltafaccia sulle energie rinnovabili, raccontato da Carlo Stagnaro, il proliferare legislativo a scopo autoassolutorio illustrato da Pietro Ichino. L'apice dello squilibrio si raggiunge con il concetto di ''abuso di diritto'', spiegato da Franco Debenedetti. Quest'ultimo concetto, come spiega Debenedetti nel suo saggio, è stato introdotto non per via legislativa ma mediante una sentenza della Corte di Cassazione. L'idea è semplicemente che i contribuenti devono evitare quegli atti ''che si traducono in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale''. In sostanza, l'amministrazione fiscale può perseguire un contribuente anche se nessuna legge è stata formalmente infranta, se ritiene che certe operazioni siano state compiute unicamente per massimizzare il risparmio fiscale.
Da qualsiasi angolo lo si guardi, il rapporto appare sempre squilibrato, improntato a regole che sarebbero inaccettabili in un contratto tra pari e questo squilibrio si presenta come una chiave di lettura particolarmente efficace per inquadrare praticamente tutte le disfuzioni del nostro paese, dalla pressione fiscale insostenibile che i sudditi sono costretti a sopportare, alla scarsa produttività di un apparato statale che può permettersi impunemente un atteggiamento autoreferenziale e slegato dalle logiche di mercato, alla selva di regole distorsive ed eccezioni interminabili.
Al lettore di nfA la lettura risulterà per molti versi familiare, visto che molti dei temi trattati sono stati e sono ancora oggi affrontati di frequente su questo sito. La principale differenza di approccio consiste nel fatto che mentre su questo blog l'accento è in prevalenza sul profilo economico,il volume curato da Rossi pone maggiore attenzione agli aspetti politico-giuridici, sebbene, come è facile immaginare, i due punti di vista costituiscono molto spesso due facce della stessa medaglia.
Ma vediamo perché diciamo che il libro finisce per dare al tempo stesso di più e di meno di quello che promette.
Perché dia di meno è presto detto. Nessuno, ma proprio nessuno, può sperare di definire un'agenda politica per i prossimi 50 anni. Fate per un momento mente locale su cosa era l'Italia 50 anni fa, nel 1962. Era un paese in cui si poteva finire in galera se si parlava di contraccezione. Era un paese in cui il divorzio era illegale. Era un paese in cui l'analfabetismo era ancora un problema diffuso, e non solo per le generazioni più anziane. Last but not least, era un paese in cui l'Inter non aveva ancora vinto una Coppa dei campioni (non c'entra nulla, ma certe cose vanno ricordate). Insomma, era una paese radicalmente differente da quello attuale e sull'orlo di enormi cambiamenti (particolarmente rapidi per l'Inter). Se qualcuno avesse provato a scrivere un programma per i diritti civili 50 anni fa dubitiamo fortemente che molti temi che tanto agitano il dibattito corrente, dal matrimonio omosessuale al trattamento delle cellule staminali, avrebbero ricevuto la minima attenzione. Non sappiamo di cosa si discuterà nel 2062, e il più vecchio di noi due teme fortemente che non riuscirà mai a saperlo, ma molto probabilmente sarà qualcosa che al momento non riusciamo neanche a immaginare. Poco male comunque. La promessa di un programma per i prossimi 50 anni è chiaramente esagerata ma il libro resta ottimo, e senz'altro aiuta a chiarire la prospettiva e definire un programma almeno per le prossime due legislature. Non c'è bisogno di più.
La ragione per cui invece il libro da più di quello che promette è un pelino più sofisticata. Il libro fornisce non solo un programma ma anche una base di analisi che meglio aiuta a capire il rapporto tra Stato e cittadini a partire dall'unificazione del paese. Da questo punto di vista è veramente illuminante il primo capitolo, scritto da Giorgio Rebuffa, sullo scontro dottrinale che nei primi decenni dell'unificazione si svolse tra differenti scuole giuridiche, in particolare riguardo alle basi del diritto amministrativo. Il saggio rischia di generare scoramento: se le radici della asimmetria tra Stato e cittadino sono così profonde, se l'idea della supremazia della macchina amministrativa pubblica rispetto ai diritti degli individui è così intimamente connessa con la nostra cultura giuridica (se non con la nostra cultura tout court), cosa possiamo fare?
Perfino legiferare in modo corretto sembra non produrre risultati. Il concetto di ''abuso del diritto'' di cui parla Debenedetti è infatti di origine giurisprudenziale. Si aggiunga il capitolo in cui Natale d'Amico racconta la triste storia dello statuto dei diritti del contribuente, una legge piena di buone intenzioni approvata una dozzina di anni fa (e a cui contribuì in modo determinante proprio d'Amico) e il quadro risulta ancora più deprimente.
Ma farsi prendere dallo scoramento sarebbe sbagliato. Il modo giusto di leggere il libro è quello di prendere coscienza di quanto lavoro ci sia da fare per riformare lo Stato italiano e di quanto profonde siano le sue storture. Ma il fatto che un lavoro sia immane non è una buona ragione per evitarlo. È al contrario una buona ragione per mettersi all'opera subito e in modo deciso, avendo la chiara nozione che molte delle incrostazioni e inefficienze contro cui si finirà per combattere hanno radici che non è esagerato definire secolari. Sta diventando di moda l'espressione ''rivoltare lo Stato come un calzino''. Questo libro aiuta a capire non solo perché questo va fatto ma anche perché è così difficile farlo. È quindi una chiamata alle armi per un rinnovamento profondo sia della macchina amministrativa sia della società italiana. Quanto tale chiamata sarà efficace lo vedremo nei prossimi anni.
Ragazzi, una cosa che proprio non capisco è perché questo lavoro andrebbe così necessariamente fatto.
Voi economisti siete bravissimi a (giustamente) evidenziare come gli imprenditori spesso inizino operazioni che non hanno senso, oppure si ostinino a tenere aperte aziende che non servono a nulla e nessuno, salvo rappresentare un enorme investimento emotivo per chi le ha faticosamente iniziate e sostenute per anni. Sappiamo tutti fino a che punto ci si può rovinare ipotecando case e quant'altro per ottenere qualche euro in più "per arrivare al collaudo di questo nuovo prodotto che stavolta sarà un successone e ci proietterà in utile...vedrete!"
Qualcuno ha voglia di spiegarmi a chi serve davvero la Repubblica Italiana e perché sia così importante impegnarsi per farla esistere anche in futuro?
Purtroppo, con i tempi che corrono, viene da dire lo stesso del progetto Europeo, che nonostante le sue ottime potenzialità oggettive dal punto di vista delle politiche economiche e dell'apertura delle frontiere, è stato inficiato dalle scelte deleterie di burocrati non eletti, che più autoritari non se ne potrebbero immaginare.
Diciassette nazioni, divise da una moneta comune.
L'unica via praticabile ora è chiedere l'annessione alla Svizzera.
Giuseppe banalmente perchè ci abitiamo ma soprattutto perchè, al momento, non ci sono alternative.
Dobbiamo far funzionare sta cosa di cui siamo "sudditi" visto che secessioni o "rifondazioni" non sono al momento previste o prevedibili.
Anche volessimo batterci per esse nel frattempo vorrai dare una sistemata a dove abiti? O sei di quelli che quando lasciano l'appartamento lo sfasciano tutto ;-) ?
La cosa da non sottovalutare è che la mentalità che ci ha portati qui è ormai radicata in molti di noi. Se ripartissimo da zero adesso così come siamo temo che usciremo fuori con qualcosa di molto simile. Se non cambiamo noi non possiamo fare qualcosa di diverso. Non so se sono riuscito a spiegarmi (temo proprio di no).
PS ("Per Sandro" non "Post Scriptum")
Dopo aver saputo che Matri è un serio candidato alla sostituzione di Ibrahimovic, non me la sento di far le battute sull'Inter nonostante mi siano servite su un piatto d'argento. Ah maledetto BS; che serve essere vecchio e miliardario se non sprechi tutto ? Lo so non ho papers al supporto di questa teoria economica ma fidatevi
Il mercato del Milan sembra fatto per impedirmi di sprecare commenti su nfA....
Con Giuseppe abbiamo portato avanti la discussione partendo dalla domanda postata qui sopra.
In effetti io credo che si possa dire che lo stato italiano è un oggetto peggiore dalla somma delle sue parti.
Senza cedere i trasferimenti le regioni che producono potrebbero crescere più velocemente.
Senza ricevere i trasferimenti che le drogano, le regioni destinatarie dopo uno shock iniziale probabilmente inizierebbero un percorso di crescita sano (non che lo shock non sia indolore, ma anche smettere di drogarsi non lo è, poi uno sta meglio)
Vale la pena di salvare l'italia?
Io ho una visione spero non troppo paracula
L'italia così com 'è non merita salavataggio ed è inesorabilmente destinata al fallimento. Possiamo provare a differire il momento o rallentare il declino ma la via quella è.
Si può in alternativa provare a cambiare lo stato, a farne un posto dal quale sia meno conveniente andarsene e, perchè no, dove un giorno possa anche tornare chi è partito.
Un posto che serva a qualcosa ai suoi cittadini e che non sia un'accidente storico.
Non è impresa da poco, però io credo che valga ancora la pena di provarci
voi che ne pensate?