Questo mio scritto voleva essere una recensione di un piccolo ma istruttivo libretto letto alcuni mesi orsono. Siccome però le tesi sostenute dall'autore hanno un retroterra filosofico discusso in un altro bel libro, la recensione è diventata doppia.
Il primo testo, Scienza e Sentimento, è un libro terso e godibile nel quale uno specialista di agraria affronta alcuni dei dilemmi bio-gastronomici che da tempo ci attanagliano: "sarà poi vero che i pomodori di oggi, come i ragazzi delle medie del resto, non sono più quelli di una volta? Che il loro profumo di sole e d'estate, al quale tendevamo le pargolette mani, non è più così marcato e inconfondibile come una volta? Che il latte, anche quello non scremato, è oramai acquetta, rispetto a come lo conoscevamo prima?”
In genere, la risposta a simili interrogativi è positiva, dal momento che sembra davvero palese che i sapori di un tempo fossero migliori degli attuali e siano, comunque, irrimediabilmente perduti. Invece, Antonio Pascale argomenta in maniera limpida, anche se certo non molto accurata (ma del resto il libro è un pamphlet), che quelle domande sono solo quesiti retorici che in genere sono proposti solamente per confortare i propri pregiudizi antiscientifici. Il testo non segue uno sviluppo unitario, ma ogni capitolo costituisce un momento a sé, e anche se il filo conduttore è sempre il medesimo, le riflessioni dell'autore nascono dagli spunti più vari, siano essi notizie tratte dai giornali o commenti carpiti in maniera informale da conoscenti.
Detto questo, i termini della discussione intorno a cui si svolge il libro sono questi: a) non esiste una nozione di naturalità, in senso biologico, dinnanzi alla quale arrestare l'adozione di modificazioni genetiche delle colture, o all'uso di particolari tecniche di coltura o di allevamento degli animali perchè, b) anche i prodotti agricoli tipici in realtà sono frutto di un lavoro di selezione e manipolazione che ha condotto alla loro produzione e, ragionevolmente, porterà al loro abbandono (vedi il pomodoro Pachino, che è nato in Israele e non è dunque tipico della Sicilia Orientale come alcuni sembrano voler ostinatamente credere); e infine c) le modificazioni genetiche di alcune varietà animali e vegetali non solo rispondono a esigenze di natura commerciale, peraltro largamente assecondate dai consumatori, ma determinano un uso più responsabile e ottimale delle risorse disponibili (prati, foraggio e tecniche di allevamento maggiormente redditizie, nel caso del bestiame) e consentono l'accesso agli alimenti così prodotti ad un numero sempre maggiore di persone.
Proprio argomentando a favore delle tecniche di inseminazione artificiale delle vacche (non mucche! che è una terminologia da Heidi, ci avverte l'autore) al fine di ottenere esemplari capaci di rese migliori sia dal punto di vista del latte che della carne, Pascale ci richiama uno dei numerosi aneddotti autobiografici, forse il più curioso. Da giovane studente di agraria, intabarrato in guanti di lattice e grembiule, fu impegnato proprio in un atto di fecondazione artificiale (di una vacca) con tutti gli annessi e connessi del prelevamento (da un toro da monta) e infusione dello sperma che vi lascio il “gusto” di leggere da voi. Di tanto in tanto, l'autore lancia i suoi strali contro quelli che definisce umanisti puri, ovvero coloro i quali (pur digiuni di competenze di tipo scientifico) discettano di argomenti che non conoscono. Inoltre, costoro spostano il fuoco della discussione dall'accertamento empirico dei fatti, che dovrebbero acclarare la reale portata di quanto avversano, a un piano “etico” o genericamente normativo: per cui si discute di come sarebbe il mondo se tutti adottassero il comportamento che si ritiene al momento il più nobile, il più ecologista e così via. A questo proposito Pascale è giustamente sprezzante.
Dopo aver finito il libro di Pascale, mi sono però ricordato di un altro libro, scritto da un giovane studioso di filosofia italiano, che a mio giudizio rappresenta una risposta accettabile alla discussione sollevata in Scienza e Sentimento. Mi riferisco a “La Morale della Natura”, dove si passano in rassegna alcuni degli argomenti filosofici che sono tradizionalmente all'opera proprio nei luoghi comuni stigmatizzati da Pascale e che ricorrono nella discussione pubblica e politica intorno ai temi della bioetica e non solo. Insomma, contrariamente a quanto pensa Pascale, parte dell'opera di bonifica della discussione intorno ai temi che lui tratta passa anche dalla discussione filosofica seria intorno ai presupposti ideologici e culturali che sottostanno i luoghi comuni così perniciosi che lui giustamente condanna. Insomma, per dirla con Isaiah Berlin:
Il compito della filosofia, spesso difficile e doloroso, è districare e portare alla luce le categorie e i modelli nascosti in base ai quali gli esseri umani pensano [...]; rivelare ciò che in essi vi è di oscuro e contraddittorio; discernere quelle incompatibilità tra i modelli che impediscono la costruzione di modi più adeguati per organizzare, descrivere e spiegare l'esperienza.