Il Tramonto dell'Occidente (Romano)

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Un libro che parla del tramonto dell'Impero Romano. A differenza del celebre libro di Spengler, il libro che recensisco parla di fatti e solo alla fine si concede una "morale".

Tecnicamente il libro è un libro di archeologia, ma esso è interessante per ragioni che esulano la trattazione delle vicende storiche che tratta.

Il tema trattato è la vexata quaestio del crollo dell'Impero Romano, anche se la questione è trattata non tanto con riferimento alle cause che portarono a quel crollo, bensì sono prese in esame le conseguenze materiali derivanti dal venire meno della civiltà romana. Il libro insomma vorrebbe rispondere alla domanda che segue: ma quando finisce il sistema militare e politico che consideriamo romano e si formano i regni barbarici, cosa succede alla vita materiale delle persone coinvolte in quel processo?

La risposta alla domanda è secca e, a quanto si legge, documentata. Le condizioni materiali di quanti vivevano sotto il controllo dell'impero romano nel periodo analizzato, solitamente chiamato "Tarda Antichità" e coincidenti con i secoli da IV al VII d.c., hanno subito un netto deterioramento: il controllo militare assicurato dai soldati romani venne meno, e con esso l'insieme degli scambi fitti di alimenti e oggetti di vasto consumo, come la ceramica; ma anche le tecniche edilizie romane (tetti in laterizi e pareti laterali in muratura) subirono un evidente declino, per lasciare spazio a tetti di paglia, specialmente nell'odierna Gran Bretagna, e costruzioni molto più rudimentali, realizzate con l'uso di legno. Anche la cultura, intesa come capacità diffusa di leggere e scrivere, sembra non sottrarsi al destino di inesorabile decadimento, almeno a giudicare dalla comparazione quantitativa fra i mezzi di scrittura (gli steli per scrivere) e scritture vere e proprie (come per esempio quelle di Pompei e del suo lupanare) rinvenuti in siti romani e ritrovamenti dello stesso tipo in siti "post-romani", che sono appunto quantitativamente molto inferiori.

L'autore insiste con forza e con notevole apporto di esempi pratici a sottolineare gli effetti materiali del crollo dell'Impero Romano in ragione del suo interesse a confutare una tesi che a suo dire gode di notevole popolarità presso i colleghi archeologi e storici, ovvero l'idea che l'Impero Romano e le sue strutture di potere politico, economico e militare si siano dissolte in un processo graduale e con effetti tutto sommato positivi, vista la fusione che si ebbe fra popolazioni non romane e popolazioni autoctone e la creazione di nuove entità politiche e culturali.

Le ragioni del trend storiografico che hanno portato ad un approccio edulcorato alla caduta dell'Impero Romano sono, secondo l'autore, molteplici ma tutte estranee ad una ricognizione archeologica documentata del periodo e frutto piuttosto di esigenze "politiche" o ideologiche.  Tali esigenze possono richiamarsi ad atteggiamento "europeista" che vede nella fine dell'Impero Romano il nascere di entità politiche nuove, grossolanamente corrispondenti agli attuali stati nazione dell'Europa Occidentale e comunque derivati da un processo di mescolamento e/o unificazione che troverà poi compimento superiore (nell'Unione Europea) nei secoli successivi; oppure può accadere che un atteggiamento stolidamente "multiculturalista" tenda a sottostimare la caduta del livello di prosperità materiale o culturale propria dell'Impero Romano per sottrarsi ad indelicati giudizi comparativi fra civiltà differenti, assegnando a ciascuna di esse, nello svolgersi delle vicende storiche, una "giustificazione e razionalità" conseguenti semplicemente il loro essere state momenti storici come altri.

Secondo l'autore del testo, approcci storiografici come quelli riportati possono giustificarsi solo se le civiltà sono considerate nel loro aspetto più "culturale", ovvero se allo studio archeologico si preferisce, per esempio, lo studio delle figure del primo monachesimo cristiano, della diffusione delle religioni o delle sette e si trascura invece il livello di vita materiale di base nel quale si dibatteva la popolazione comune. A questo proposito egli ricorda, come per l'età in questione si registri il prevalere di studi di tipo filosofici e religiosi più che archeologici in senso stretto. Insomma, se l'analisi della tarda antichità si concentra solo sulla figura di un rigido asceta che nel deserto egiziano persegue ostinatamente una fede preclusa ai più, o se lo snodo fra età romana ed età medioevale è tutto costretto nello studio di oscuri commentatori di filosofi classici, beh allora l'affresco storico del crollo dell'Impero Romano perde i connotati del collasso economico e sociale e diviene la fucina epocale dove nel santo silenzio di chiostri o chiesette campestri si prepara il futuro trionfo del medioevo, della modernità, dell'Europa odierna e così via...

E invece l'autore (che tra l'altro lamenta lo scarso interesse per lo studio della storia dell'economia) ci riporta tutti con i piedi per terra e ci racconta di come le ceramiche prodotte nella tarda antichità fossero di qualità infima ed esteticamente assai rozze (per chi vive a Roma tutto questo può essere facilmente verificabile visitando il museo dentro Palazzo Venezia: a seguire le teche e a confrontare la ceramica romana con quella medioevale sembra davvero che si torni indietro a condizioni di produzione preistoriche, come peraltro afferma espressamente l'autore del testo che recensisco. L'interesse per la ceramica, i cocci, è un continuo del libro, perché era un po' come la plastica di oggi: la sua presenza o assenza indicava cosa si poteva o non poteva fare in cucina, con le merci e così via); di come la diffusione dell'acqua nelle città si ritiri con i romani stessi; che nel tardo-antico la cultura e l'educazione diventano così rare che anche i re dei primi regni romano-germanici sono dei bifolchi illetterati in confronto al tipo di educazione media che un visitatore di Pompei poteva avere, visto l'enorme quantità di scritte occasionali che lì venivano lasciate.

Insomma, la lettura di questo libro ci ricorda cose assai utili. Innanzitutto, contro l'estetismo che ammorba certi modi di intendere il passato e le sue idealizzazioni, l'autore ci rammenta che certe civiltà fanno meglio di altre nel garantire standard di vita che poi possono venire meno e non essere rimpiazzati necessariamente da ordinamenti sociali assimilabili a quelli scomparsi; ci ricorda inoltre che una civiltà è collegata in maniera decisiva alla sicurezza militare che essa garantisce ai suoi cittadini e per converso anche a chi vive al di sotto di quell'equilibrio, pur non appartenendo ad essa politicamente.  Infine, l'autore ci ricorda che anche se sussiste una certa ritrosia a fare uso del termine civiltà in un accezione comparativa, assegnando così il termine a tutte le forme di organizzazione umana, ci sono civiltà che, dal punto di vista generale di quanti la vivono, fanno meglio, garantendo sicurezza e prosperità che non sono invece associabili a civiltà diverse.

Ci si può stupire dinnanzi a tante e diverse testimonianze del passato. In questo libro, invece di farci ammirare la sontuosità dei paramenti o delle ricchezze che solo pochissimi potevano avere, l'autore ha deciso di raccontarci la differenza tra l'Impero Romano e quanto è venuto subito dopo prendendo il punto di vista della gente comune...esattamente quella gente comune che viene immolata sull'altare della Storia quando si presume di poter inventare ex novo una nuova civiltà che annulli il peso dei condizionamenti materiali così ben descritti dall'autore.

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Commenti

Ci sono 66 commenti

Grazie della recensione Marco: leggero' il libro appena potro'.

Nel frattempo una domanda: Bryan ha esaminato il declino precedentemente alla caduta?

Per me la decadenza e' iniziata appunto con il dominatus (circa, da Diocleziano in poi), in cui si giustificano modi di governo simili a quelli delle signorie germaniche - e gia' c'erano forti infiltrazioni di popolazioni "barbare" nell'esercito all'epoca.

Non credo che si sia visto subito dai resti: le tecniche di produzione c'erano ancora, ma di fatto si comincio' ad asservire le risorse per mantenere l'esercito, legando le persone al luogo e al mestiere - visto che in un impero cristiano gli schiavi non erano ben visti.

E' una curiosita'.

L'approccio del libro è condivisibile, indubbiamente, per la parte occidentale dell'Impero che si troverà in qualche modo a dover "ricominciare da capo". Ovviamente ogni zona ha una sua storia, per alcune la fine è traumatica e immediata, per altre la decadenza si trascina lungamente. Anche l'incontro-scontro con gli invasori è molto differenziato: i Franchi si inseriscono in un certo modo, i Goti in un altro, Alani e Unni restano entità più estranee ai territori conquistati.

@ Lugg: quella di Diocleziano mi sembra una svolta più "orientale" che fa somigliare la monarchia occidentale a quella sasanide. Il passaggio dallo schiavismo alla servitù della gleba mi pare abbia molte ragioni demografiche e relative al fatto che passata la stagione delle grandi conquiste viene meno la "materia prima", a mio parere il messaggio cristiano antischiavista avrà bisogno di molto più tempo per maturare nella coscienza europea.

 

@ Lugg: quella di Diocleziano mi sembra una svolta più "orientale" che fa somigliare la monarchia occidentale a quella sasanide.

 

Assolutamente, il dominatus e' orientaleggiante. Il punto e' che rendendo istituzionale il fatto che il capo era uno scelto tra pochi nobili, che l'esercito governava (e veniva pagato in terra, come si faceva con i reparti e le popolazioni germaniche, togliendola ai cittadini) e i comuni cittadini dovevano star zitti (perdita totale del potere reale dei comizi e assemblee come il senato) e produrre le stesse cose che producevano i padri rendeva piu' facile il passaggio a signorie basate sul potere militare. Non che prima non fosse possibile, solo che non era formalmente accettato.

L'abolizione dello schiavismo ha ragioni soprattutto di "corretta" gestione delle risorse: gia' da un bel po' prima gli schiavi andavano trattati "bene" perche' senza non si poteva coltivare, o costruire, in maniera economicamente accettabile. Comprare, e mantenere, uno schiavo era diventato sempre piu' costoso. Analoghe ragioni ha l'asservimento delle maestranze.

@Marco: Roma ha perso battaglie e territori importanti gia' tra il 300 e il 400, e con continue scorrerie in profondita' (gallie, danubio, italia, ecc.). A inizio 400 Roma abbandona Britannia e Dacia: prima pero' la decadenza si e' vista eccome.

Sono in parte d'accordo con Spike: la radice e' nella crisi del terzo secolo, a cui le riforme in senso teocratico/assolutistiche del quarto danno solo una risposta temporanea. L'erosione era comunque un fenomeno quasi strutturale dell'impero: Nerone fece una riforma monetaria bimetallica che resse, nonostante l'inflazione, fino appunto al terzo secolo.

Non sono invece d'accordo con l'erosione dei terreni agricoli: molte zone sono rimaste ampilamente sfruttate nei secoli, anche durante e dopo la caduta. Il problema in quel caso era tecnologico: meno gente a coltivare -> meno produzione, e maggiore parte usata per l'autoconsumo perche'

1. non si commerciava piu' come prima

2. meno sicurezza, quindi piu' necessita' di scorte

@Sandro: il problema tecnologico e' una cascata di fattori. Come Jared Diamond mostra nei suoi libri, per usare una tecnologia X devi avere

a. qualcuno che sa cosa fare

b. le materie prime per fare

c. uno scopo per farlo

Se costruisci case in muratura e laterizi, e' perche' sai fare mattoni, per cui ti serve l'argilla, e la calce, e sai fare i conti per tirarla su. Per tirar su una casa del genere ci metti un tempo X e una spesa Y.

Quando chi governa e' una elite separata dalla popolazione, che deve solo produrre e pagare tasse, ai contadini - che i soldi non li hanno e meta' del grano lo danno ai gabellieri - la casa in mattoni non serve, e non si fa. L'argilla poi non arriva perche' c'e' meno circolazione di merci, ed ecco qua che il mattonaio deve cambiare mestiere (o magari e' costretto a lavorare la terra per mangiare, quindi non ha piu' tempo di far mattoni).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In queste rarefatte discussioni che segui (a Marco Boninu) come viene ricevuta a teoria di Zomia?

zomia si trova qua. ci sono diversi passaggi divertenti:

 

The cultures that have emerged have tended to be fiercely nonhierarchical. The Wa, for example, limit ostentatious feast-throwing and forbid the wealthy from conducting sacrifices that might be seen as giving them chief-like status. The Kachin have a long tradition of killing chiefs who are seen as overreaching. The Lahu, of China’s Yunnan province, have no level of political organization above the hamlet.

 

complessivamente, non sono nemmeno anarchici, che almeno quelli storici hanno scritto un bel po' (a zomia, visto che la scrittura la impiegavano i gabellieri, sono  analfabeti, sempre "fieramente"). un po' come cioran che diceva: "non sono nemmeno  nichilista, io non sono niente!"

la teoria di zomia consiste, credo, nel ritenere le loro peculiarità non come un vicolo cieco, una degenerazione, o comunque un regresso rispetto alle magnifiche sorti dell'umanità, ma come una libera scelta, dettata anche dalla geografia, e comunque rispettabilissima.

ma come fanno per le cure odontoiatriche? scendono a valle dagli odiati "socialisti"? :-)

 

Una domanda, Marco.

Il libro racconta con che rapidità e mediante quali meccanismi la tecnologia dell'impero romano finisce per essere persa? In altre parole: immagino che molta gente avesse imparato a costruire case in muratura e laterizi, e immagino anche che alla gente risultasse chiaro che queste case erano migliori di quelle con il tetto di paglia; cosa è successo, sono arrivati i barbari e hanno ammazzato tutti quelli che sapevano fare le case (o la ceramica) bene? Oppure hanno imposto di farle in modo diverso?

Più in generale, l'autore del libro discute cosa della cultura tecnologica romana è sopravissuto alle invasioni barbariche e cosa no, cercando di trovare una spiegazione (ossia perché certe cose sì e certe cose no)?

Sandro la tua domanda merita un libro in risposta, non le mie due righe, ma il problema non era solo di tecniche costruttive (nel tardo impero andranno molto di moda le villae fortificate, che non sono altro che dei castelli prima maniera, per cui, almeno quelli che costruivano villae poi si diedero ai castelli), ma di costi ed economia: l'impero accentrava tassazione e pianificava costruzioni, la frammentazione successiva (anche con sistemi di riscossione che impedivano il formarsi di capitali) rendeva praticamente impossibile costruire una strada da (esempio) Parigi a Marsiglia, ed anche la semplice manutenzione delle strade consolari divenne troppo onerosa, per cui non essendoci più chi pagava per certi lavori certi mestieri semplicemente sparirono. Non ricordo in quale recente secolo è stato posto il momento in cui la diffusione del benessere materiale delle persone ha raggiunto quello del medio impero romano: acqua corrente in tutte le case, fognature, sistema di raccolta dei rifiuti (i romani avevano anche quello), scambi commerciali su lunghe distanze. Per oltre 1000 anni, almeno, il benessere medio europeo è stato di gran lunga inferiore a quello dei romani...

Sandro,

la cose stanno piu' o meno come le racconta Marco (Esposito). La tecnologia non scompare dall'oggi al domani, ma vengono meno le circostanze economiche favorevoli all'uso dei frutti di quella.

Infatti, almeno per citare le tecniche di costruzione con malta, laterizi e coperture con tegole, l'autore del libro fa notare che nel sud del Mediterraneo (Egitto) e medio-oriente, si registra la costruzione di edifici con una complessita' di tipologie e con varieta' di materiali utilizzati che, seppure scomparsi nell'occidente romano, derivano da quella civilta'.

Il punto per l'autore e' che all'interno dell'impero romano si era prodotta una profonda divisione del lavoro, che portava a commerciare i prodotti di quella divisione lungo distanze enormi. Questo riguardava i materiali da costruzione, le tecniche e gli artigiani in grado di applicare quelle tecniche, i beni di larghissimo consumo come anfore e ceramiche, oltre naturalmente ai cibi. Nel momento in cui le arterie stradali che collegano parti dell'impero non sono piu' presidiate da militari, lo scambio si riduce, si riduce il gettito fiscale che da quello scambio proveniva e diventa sempre piu' difficile garantire la sicurezza e la manutenzione delle strutture che consentivano il commercio.

In Britannia (della quale l'autore conosce benissimo gli studi archeoologici di eta' post romana), il ricorso ai tetti in paglia era un frutto dell'impoverimento determinato dall'isolamento commerciale, piu' che da una improvvisa amnesia circa i metodi di costruzione in muratura. 

Sull'altra domanda, cosa sopravvisse della cultura romana, beh l'autore non si dilunga, anche perche' prende in esame un lasso di tempo relativamente breve.

Ps: su cosa rimane della cultura dell'antica Roma a livello divulgativo c'e' stato un bellissimo numero di NG di qualche anno fa...da quel che ricordo tecniche costruttive e burocrazia giuridica e teoria del diritto erano le cose piu' rimarchevoli.

Comunque se sei interessato agli studi sui barbari che arraffano tutto e distruggono ogni vestigia di civilta' e buongoverno, mantenendo come location Roma, ti invito a leggere questo reportage, che e' altrettanto affascinante.

Il libro lo comprerò sicuramente, poichè sono un appassionato di storia romana, ma questa spiegazione e demarcazione è già presente in Gibbon, d'altronde le statistiche disponibili su popolazione, raccolti e scambi commerciali successivi al 400 d.c. dimostrano la netta separazione fra "prima" e "dopo".

Grazie per aver segnalato un libro che acquisterò sicuramente, anche se mi fa profonda tristezza pensare alla fine di quell'Impero, causata da mali "politici", ma soprattutto religiosi, essendo il fanatismo cattolico una delle cause prime della caduta dell'impero, e il fatto che il "regno" non sia più di questa terra può aver causato l'abbandono di tante tecniche costruttive per opere destinate a durare secoli.

Vabbè, lasciamo stare, per quel che riguarda il quesito di Lugg ritengo che sia improprio parlare di declino da Diocleziano in poi: fino al 400d.c. l'impero era in grado di contenere e distruggere i barbari che premevano ai confini, e l'aquila romana era ancora temuta in tutto il mondo, no, la decadenza comincia con i valentiniani e i loro complotti di corte, estranei e indifferenti al mondo esterno.

Adrianopoli è di una ventina d'anni precedente. Li praticamente finisce l'Impero.

In realtà l'inizio della fine va fatto risalire alla crisi del terzo secolo.

Non concordo sul ruolo dei cattolici. Semplicemente l'impero era troppo vasto e consumava più risorse di quante ne produceva. L'ultima campagna in "attivo" fu la Dacia con le sue miniere d'oro.

Poi il costo dell'esercito e dell'appartato burocratico divenne sempre più alto, sempre più persone erano deputate a questi compiti e meno all'agricoltura (da qui la servitù della gleba), agricoltura che declinava rapidamente oltre che per mancanza di manodopera anche per l'esuarimento dei terreni agricoli troppo sfruttati in passato. Inflazione ed epidemie del III secolo posero le basi per la caduta successiva.

Marco,

sul punto che la tesi avanzata dall'autore sia nota non ci piove...lui cerca solo di riportarla all'attenzione dopo il prevalere di un mainstream di ricerca che intende sostenere posizioni giusto opposte  a quelle alle quali lui arriva utilizzando i dati degli scavi archeologici.

Nella parte finale  del testo sono elencati i motivi che a suo dire hanno condotto all'approccio che vede nella fine dell'impero romano un momento di graduale modificazione di equilibri politici ed economici stabilizzati...e non ti stupirai se ti dico che sono ragioni politiche.

A questo proposito nota come il giudizio sul ruolo dei germani sia stato pesantemente condizionato da come gli attuali eredi di quelli agivano nello spazio europeo. Prima della tempesta nazista, mentre la Germania diventava sempre piu' aggressiva, correvano veloci i paralleli tra l'imminente catastrofe che avrebbe distrutto l'Europa e il ruolo altrettanto negativo che avrebbero avuto i germani per la fine dell'impero romano...giusto per citare un esempio dell'autore...

Sempre pensato che i tetti in laterizio fossero segno di una cultura superiore... qui in AmeriKa praticamente non si trovano :-) sigh

 

Non si costruiscono più, vuoi dire. Trovarsi si trovano, anche se sempre meno.

Casa mia, e tutte quelle che la circondano, ce l'ha(nno). Ed hanno tutte un secolo circa, anche un pelo di più, infatti.

Mantenerlo costa cifre esorbitanti, però. Credo che questo ne spieghi l'abbandono.

Marco: grazie del consiglio, leggeremo. Se qualcuno ha riferimenti per rispondere alla domanda che pone Sandro, interessa assai anche a me.

Non saprei dire quanto abbia pesato, ma il ruolo del cattolicesimo credo sia stato indiscutibile a concorrere nel declino. Esso metteva in discussioni le fondamenta sociali, giuridiche ed economiche dell'impero così come si erano andate sviluppando. I libro mi suscita interesse per l'approccio che dalla recensione appare assai pragmatico  nella narrazione dei fatti concreti, minuti e quotidiani che si verificarono nel declino.

giusto di passaggio ma il cattolicesimo c'entra quanto il tantrismo tibetano.

chaimasi cristianesimo.

Un bell'articolo sulle cause del crollo dell'impero: burocratizzazione e inflazione  http://mises.org/daily/3663

 

@Sandro: un libro che affronta l'argomento della tua domanda è "La storia spezzata" di Aldo Schiavone. sicuramente ci fu una combinazione dei fattori: meno persone tecnicamente in grado di realizzare certe cose, meno persone che richiedevano quelle competenze. La specializzazione dei compiti e il commercio fa aumentare la ricchezza materiale complessiva, che tornando all'autoproduzione diminuisce (del resto oggi chi sarebbe capace di costruirsi da solo un computer o comunque il 99% delle cose che usiamo?).

Un aspetto interessante e peculiare dei Romani è che la maggior parte delle realizzazioni più significative avevano una fruizione pubblica e civile (anfiteatri, fori, basiliche, terme, acquedotti), questo marca una notevole differenza con le altre civilltà dove i monumenti erano più spesso legati ai sovrani o templi religiosi.

Riguardo all'imprescindibile Gibbon, non dimentichiamoci una sua grande lezione: tutti si chiedono come mai è caduto l'Impero (anche qui ce lo chiediamo) ma la vera domanda è come mai è durato così tanto? Infatti l'Impero Romano è il caso più unico che raro di un'egemonia plurisecolare, mentre tutti gli altri tentativi storici di tenere insieme tanti popoli diversi finiscono per frammentarsi molto più precocemente.

 

tutti si chiedono come mai è caduto l'Impero (anche qui ce lo chiediamo) ma la vera domanda è come mai è durato così tanto? Infatti l'Impero Romano è il caso più unico che raro di un'egemonia plurisecolare, mentre tutti gli altri tentativi storici di tenere insieme tanti popoli diversi finiscono per frammentarsi molto più precocemente.

 

Da quello che ricordo io, la risposta piu' convincente e' una combinazione di fattori:

- l'abilita' politica dei romani a legare a se', con statuti diversi, popolazioni e territori

- l'altra abilita' precipua dei romani, ovvero acquisire quello che gli serviva dalle altre popolazioni, che facilitava i commerci e le trattative (a me capo di una piccola tribu' non solo non conviene mettermi contro, ma conviene mettermi con i romani)

- la bassa popolazione iniziale di molti territori, che rendeva "facile" una conquista (bastavano "poche" battaglie) e l'assimiliazione o colonizzazione

Consideriamo poi che ci furono lunghi periodi in cui l'impero non fu propriamente unitario: imperium all'inizio indicava appunto il comando militare, quindi posti dove le legioni si potevano spostare senza chiedere permesso, tracciare strade (ottime anche per i commerci) e fondando piazzeforti che magari diventavano colonie.

Durante tutto l'arco dell'impero ci furono comunque separazioni temporanee (es. palmira, gallie) quasi sempre di origine militare: le legioni si ribellavano, proclamavano augusto qualcuno e andavano magari a combattere per insediarlo a Roma, mentre la popolazione ignorava - restando a godersi le strade e le costruzioni, che non conveniva a nessuno distruggere a meno di casi particolari.

comunqe sia il consiglio di nicea ha fissato il credo, e varie altre credenze. fu convocato dall'imperatore (non ho ben capito mai cosa facesse il papa all'epoca)

Il papa (pare) non ci fosse nemmeno, era un primus inter pares. Mi sembra fu papa Leone a teorizzare la supremazia del vescovo di Roma. Che crede di averla tutt'oggi.

In una discussione come la seguente è d'obbligo segnalare "La fine del mondo antico" di Santo Mazzarino, probabilmente il più grande storico dell'antichità italiano del XX secolo. In questo stupendo e breve saggio Mazzarino ripercorre le varie teorie della fine del mondo antico, dalla "punizione divina" affermata da vari padri della chiesa alle problematiche economiche esposte da Weber e, in modo differente, Rostovtzeff. In ogni caso Mazzarino mette in evidenza come le teorie sulla la decadenza più paradigmatica riflettono, oltre l'indagine storica, molto le inquietudini di chi li formula.

per chi ha voglia di poesia, consiglio la lettura del "De Reditu" di Rutilio_Namaziano

Si tratta di un poema scritto nel 418 d.c. da un aristocratico pagano, intriso di memoria e nostalgia per la grandezza di Roma e che racconta un viaggio per mare da Roma alla Gallia (sua patria di origine).

I versi più famosi sono per l'inno a Roma 

"Fecisti patriam diversis gentibus unam; profuit iniustis te dominante capi; dumque offers victis proprii consortia iuris, Urbem fecisti, quod prius orbis erat."

 

Ma degne di nota sono le invettive contro i monaci cristiani

 

 

All'orizzonte del mare, si vede già la Capraia: isola squallida per uomini lucifugis. Con nome greco si dicono "monaci": vogliono vivere da soli. Senza testimoni. Temendo i colpi della sorte, rifiutano i doni della fortuna. S'era mai visto prima d'ora uno che, per paura D'essere infelice, si rende infelice da solo? Quale pazza furia gli sconvolge il cervello? Temendo il male rifiutano il bene. E, per i propri misfatti, si condannano da soli all'ergastolo. Valli a capire.


 

 

O anche quella contro gli ebrei, che sembra anticipare deliri ben peggiori

 

Sbarcati, Falesia ci accoglie stanchi dal viaggio. Diretti alla villa, vaghiamo per un boschetto. Lo stagno, racchiuso in uno specchio luminoso, lascia giocare nella sua onda generosa pesci vivaci nei vivai. Ma il nostro riposo è interrotto da un giudeo indisponente ministro del luogo (più inospitale di Antiphate.) bestia umana che si dissocia per il cibo. Urlando, ci accusa di aver spezzato cespugli, sconvolto alghe e, massima colpa, avere - pensate un po' - sfiorato l'acqua. Gli restituiamo gli insulti che si devono a chi osa falciarsi il prepuzio. Folle genia! coi frigidi sabati nel cuore E il cuore ancora più frigido della loro religione, condannano un giorno su sei a un ozio infame: quasi fosse il ritratto molle del loro dio sfinito.  E le altre loro fandonie e i deliri da schiavi, non le crederebbe neanche un bambino! Ah! Non avessero mai sottomesso la Giudea Le armi di Pompeo e l'autorità di Tito: inciso il bubbone, la peste ha dilagato meglio. E ora, è il popolo vinto che opprime il vincitore.

 

I versi più belli - a mio parere - sono questi, che ben inquadrano il sentimento di un mondo che sta finendo 

Non si possono più riconoscere / i monumenti dell'epoca trascorsa, / immensi spalti ha consumato il tempo vorace / restano solo tracce tra crolli e rovine di muri / giacciono tetti sepolti in vasti ruderi / non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino: / ecco che possono anche le città morire

 

 

In realta' a Rutilio gli Ebrei stavano antipatici non in quanto tali, ma come originatori del Cristianesimo, che vedeva come una delle forze che stavano disgregando l'Impero. Per la stessa ragione detestava Stilicone, definito matricida della civilta' romana (e come tale peggiore di Nerone, che si era limitato a uccidere la sua madre personale) per aver aperto le porte ai barbari con la sua politica di appeasement verso Alarico, e in genere per la sua politica di integrazione dei Goti sotto l'egida del Cristianesimo (vedi l'ordine di distruzione dei Libri Sibillini del 405). Del resto, al di la' delle nostalgie classiciste di Rutilio, questi erano cambiamenti difficili da resistere, dato che lo stesso esercito di Roma era ormai composto in larga parte da barbari, e l'unica alternativa reale all'integrazione dei Goti era l'obliterazione per mano loro.

L'ho letto anni fa, ottimo libro, raccomandabile, anche se usualmente è più utile al lettore anglo-germanico che a quello italiano.