Tecnicamente il libro è un libro di archeologia, ma esso è interessante per ragioni che esulano la trattazione delle vicende storiche che tratta.
Il tema trattato è la vexata quaestio del crollo dell'Impero Romano, anche se la questione è trattata non tanto con riferimento alle cause che portarono a quel crollo, bensì sono prese in esame le conseguenze materiali derivanti dal venire meno della civiltà romana. Il libro insomma vorrebbe rispondere alla domanda che segue: ma quando finisce il sistema militare e politico che consideriamo romano e si formano i regni barbarici, cosa succede alla vita materiale delle persone coinvolte in quel processo?
La risposta alla domanda è secca e, a quanto si legge, documentata. Le condizioni materiali di quanti vivevano sotto il controllo dell'impero romano nel periodo analizzato, solitamente chiamato "Tarda Antichità" e coincidenti con i secoli da IV al VII d.c., hanno subito un netto deterioramento: il controllo militare assicurato dai soldati romani venne meno, e con esso l'insieme degli scambi fitti di alimenti e oggetti di vasto consumo, come la ceramica; ma anche le tecniche edilizie romane (tetti in laterizi e pareti laterali in muratura) subirono un evidente declino, per lasciare spazio a tetti di paglia, specialmente nell'odierna Gran Bretagna, e costruzioni molto più rudimentali, realizzate con l'uso di legno. Anche la cultura, intesa come capacità diffusa di leggere e scrivere, sembra non sottrarsi al destino di inesorabile decadimento, almeno a giudicare dalla comparazione quantitativa fra i mezzi di scrittura (gli steli per scrivere) e scritture vere e proprie (come per esempio quelle di Pompei e del suo lupanare) rinvenuti in siti romani e ritrovamenti dello stesso tipo in siti "post-romani", che sono appunto quantitativamente molto inferiori.
L'autore insiste con forza e con notevole apporto di esempi pratici a sottolineare gli effetti materiali del crollo dell'Impero Romano in ragione del suo interesse a confutare una tesi che a suo dire gode di notevole popolarità presso i colleghi archeologi e storici, ovvero l'idea che l'Impero Romano e le sue strutture di potere politico, economico e militare si siano dissolte in un processo graduale e con effetti tutto sommato positivi, vista la fusione che si ebbe fra popolazioni non romane e popolazioni autoctone e la creazione di nuove entità politiche e culturali.
Le ragioni del trend storiografico che hanno portato ad un approccio edulcorato alla caduta dell'Impero Romano sono, secondo l'autore, molteplici ma tutte estranee ad una ricognizione archeologica documentata del periodo e frutto piuttosto di esigenze "politiche" o ideologiche. Tali esigenze possono richiamarsi ad atteggiamento "europeista" che vede nella fine dell'Impero Romano il nascere di entità politiche nuove, grossolanamente corrispondenti agli attuali stati nazione dell'Europa Occidentale e comunque derivati da un processo di mescolamento e/o unificazione che troverà poi compimento superiore (nell'Unione Europea) nei secoli successivi; oppure può accadere che un atteggiamento stolidamente "multiculturalista" tenda a sottostimare la caduta del livello di prosperità materiale o culturale propria dell'Impero Romano per sottrarsi ad indelicati giudizi comparativi fra civiltà differenti, assegnando a ciascuna di esse, nello svolgersi delle vicende storiche, una "giustificazione e razionalità" conseguenti semplicemente il loro essere state momenti storici come altri.
Secondo l'autore del testo, approcci storiografici come quelli riportati possono giustificarsi solo se le civiltà sono considerate nel loro aspetto più "culturale", ovvero se allo studio archeologico si preferisce, per esempio, lo studio delle figure del primo monachesimo cristiano, della diffusione delle religioni o delle sette e si trascura invece il livello di vita materiale di base nel quale si dibatteva la popolazione comune. A questo proposito egli ricorda, come per l'età in questione si registri il prevalere di studi di tipo filosofici e religiosi più che archeologici in senso stretto. Insomma, se l'analisi della tarda antichità si concentra solo sulla figura di un rigido asceta che nel deserto egiziano persegue ostinatamente una fede preclusa ai più, o se lo snodo fra età romana ed età medioevale è tutto costretto nello studio di oscuri commentatori di filosofi classici, beh allora l'affresco storico del crollo dell'Impero Romano perde i connotati del collasso economico e sociale e diviene la fucina epocale dove nel santo silenzio di chiostri o chiesette campestri si prepara il futuro trionfo del medioevo, della modernità, dell'Europa odierna e così via...
E invece l'autore (che tra l'altro lamenta lo scarso interesse per lo studio della storia dell'economia) ci riporta tutti con i piedi per terra e ci racconta di come le ceramiche prodotte nella tarda antichità fossero di qualità infima ed esteticamente assai rozze (per chi vive a Roma tutto questo può essere facilmente verificabile visitando il museo dentro Palazzo Venezia: a seguire le teche e a confrontare la ceramica romana con quella medioevale sembra davvero che si torni indietro a condizioni di produzione preistoriche, come peraltro afferma espressamente l'autore del testo che recensisco. L'interesse per la ceramica, i cocci, è un continuo del libro, perché era un po' come la plastica di oggi: la sua presenza o assenza indicava cosa si poteva o non poteva fare in cucina, con le merci e così via); di come la diffusione dell'acqua nelle città si ritiri con i romani stessi; che nel tardo-antico la cultura e l'educazione diventano così rare che anche i re dei primi regni romano-germanici sono dei bifolchi illetterati in confronto al tipo di educazione media che un visitatore di Pompei poteva avere, visto l'enorme quantità di scritte occasionali che lì venivano lasciate.
Insomma, la lettura di questo libro ci ricorda cose assai utili. Innanzitutto, contro l'estetismo che ammorba certi modi di intendere il passato e le sue idealizzazioni, l'autore ci rammenta che certe civiltà fanno meglio di altre nel garantire standard di vita che poi possono venire meno e non essere rimpiazzati necessariamente da ordinamenti sociali assimilabili a quelli scomparsi; ci ricorda inoltre che una civiltà è collegata in maniera decisiva alla sicurezza militare che essa garantisce ai suoi cittadini e per converso anche a chi vive al di sotto di quell'equilibrio, pur non appartenendo ad essa politicamente. Infine, l'autore ci ricorda che anche se sussiste una certa ritrosia a fare uso del termine civiltà in un accezione comparativa, assegnando così il termine a tutte le forme di organizzazione umana, ci sono civiltà che, dal punto di vista generale di quanti la vivono, fanno meglio, garantendo sicurezza e prosperità che non sono invece associabili a civiltà diverse.
Ci si può stupire dinnanzi a tante e diverse testimonianze del passato. In questo libro, invece di farci ammirare la sontuosità dei paramenti o delle ricchezze che solo pochissimi potevano avere, l'autore ha deciso di raccontarci la differenza tra l'Impero Romano e quanto è venuto subito dopo prendendo il punto di vista della gente comune...esattamente quella gente comune che viene immolata sull'altare della Storia quando si presume di poter inventare ex novo una nuova civiltà che annulli il peso dei condizionamenti materiali così ben descritti dall'autore.
Grazie della recensione Marco: leggero' il libro appena potro'.
Nel frattempo una domanda: Bryan ha esaminato il declino precedentemente alla caduta?
Per me la decadenza e' iniziata appunto con il dominatus (circa, da Diocleziano in poi), in cui si giustificano modi di governo simili a quelli delle signorie germaniche - e gia' c'erano forti infiltrazioni di popolazioni "barbare" nell'esercito all'epoca.
Non credo che si sia visto subito dai resti: le tecniche di produzione c'erano ancora, ma di fatto si comincio' ad asservire le risorse per mantenere l'esercito, legando le persone al luogo e al mestiere - visto che in un impero cristiano gli schiavi non erano ben visti.
E' una curiosita'.