Il convegno, come ormai noto, era organizzato da Folder (Forum liberal-democratico per le riforme) con la partecipazione di alcuni redattori nFA come relatori sulle possibili riforme per tornare a crescere: mercato del lavoro, federalismo, e debito pubblico.
La partecipazione
La sala dell'hotel, proprio in Piazza Montecitorio, era piccola ma piena. L'esponente più in vista dell'IdV, partito cui il centro Folder è legato, era Antonio Borghesi, responsabile economico del partito. È intervenuto all'inizio dicendo che la Camera stava discutendo e votando un provvedimento antimafia per cui la partecipazione dei parlamentari sarebbe stata ridotta. Questo ha reso un po' più difficile da capire con chi si stava discutendo e il tipo di obiezioni che venivano sollevate alle nostre tesi. Almeno parte della sala era costituita da militanti e dirigenti del centrosinistra e dell'IdV ma non abbiamo capito quanto i sentimenti espressi nei vari interventi fossero o meno rappresentativi del punto di vista dei gruppi parlamentari. Se altri partecipanti hanno informazioni più dettagliate al riguardo sono invitati a metterle nei commenti. Per noi non fa differenza: si sa che nFA non ha partiti e che i partiti non hanno nFA.
Il prologo
Michele ha aperto le danze con una breve discussione sulle tre crisi che l'Italia sta attraversando, e dalle quali ogni riforma per la crescita deve partire:
- La prima e più importante è una crisi strutturale, tutta interna, che è in atto da circa quindici anni. Gli indicatori che la rilevano sono tanti, ma uno basta per tutti: in Italia la produttività non cresce in maniera significativa dalla metà degli anni 90 (si veda il primo grafico della relazione di Giulio, in fondo al post).
- La seconda e più recente è la crisi del debito pubblico, frutto soprattutto della "follia craxiana" degli anni 80 (si veda la relazione di Aldo, in fondo al post) e più recentemente della folle politica dei bassi tassi di interesse.
- La terza, infine, è una crisi industriale che deriva dalla redistribuzione della produzione mondiale a favore, in particolare, della Cina. Le ambizioni protezionistiche di Voltremont e compagni sono la risposta sbagliata a questa terza crisi.
La discussione
Stiamo recuperando le presentazioni in powerpoint dei discussants delle relazioni (un discussant, nel gergo accademico, è qualcuno che ha preparato un commento critico a una relazione), e le metteremo in fondo a questo post. Qui riportiamo alcune impressioni generali della discussione.
Parliamo prima della relazione di Sandro sul federalismo, anche se era collocata temporalmente in mezzo alle altre, perché ha fatto un po' storia a se e si è rivelata abbastanza tecnica. Giuseppe Pisauro, che faceva da discussant, ha inziato dicendo che se guardava solo ai titoli delle proposte lui era sostanzialmente d'accordo, ma scendendo nei dettagli si manifestavano diversi problemi. Essenzialmente, la questione è quella di sempre: è possibile reperire nelle regioni meridionali abbastanza risorse per finanziare i livelli essenziali dei servizi? Pisauro era abbastanza scettico. In ogni caso, crediamo che si possa dire che la discussione su questo tema era perlomeno su un binario di condivisione dello schema teorico di analisi e anche dei fatti stilizzati principali, pur con differenti valutazioni puntuali su alcuni aspetti (per fare un esempio, sulle potenzialità per i bilanci pubblici locali della dismissione di parte del patrimonio). Anche la proposta che ci pareva più indigeribile e che è stata rilanciata anche nella relazione su mercato del lavoro, ossia la riduzione del ruolo della contrattazione nazionale nel settore pubblico in favore della decentralizzazione a livello locale con conseguente diversificazione dei salari nei differenti enti locali, in realtà non è stata fatta oggetto di critiche. Non che questo significhi che questa proposta verrà seriamente discussa, ma almeno in quel foro non c'era ostilità preconcetta. È probabile comunque che il dibattito sul federalismo in sede politica prosegua sugli attuali disordinati binari, con scarsa attenzione al dibattito scientifico in materia.
Una certa ostilità (niente di grave, per carità, ma non troviamo parola migliore) si è invece manifestata nelle varie discussioni sulla pressione fiscale. Il tema è apparso non solo nella relazione di Aldo su tasse e debito pubblico, ma anche in quella di Giulio sul mercato del lavoro. Il lavoro di Andrea e Giulio in particolare segnalava l'alta tassazione del reddito da lavoro come uno degli ostacoli principali all'espansione della partecipazione alla forza lavoro e quindi dell'occupazione in Italia, più importante delle restrizioni normative derivanti dallo statuto dei lavoratori (questo è un fatto empirico: i dati non mostrano una concentrazione delle imprese intorno ai 15 dipendenti, numero a partire del quale si applica lo statuto, concentrazione che invece ci aspetteremmo se lo statuto dei lavoratori fosse molto importante). Il lavoro di Aldo suggeriva, tra gli altri, un punto molto semplice: gli effetti di riduzione della crescita dell'alto debito pubblico derivano principalmente dal fatto che il debito induce alta tassazione che distorce, riducendola, l'offerta sia di lavoro sia di capitale.
Sono affermazioni che pensavamo essere poco controverse. È difficile credere che la tassazione ai livelli italiani, in particolare del lavoro e in considerazione della scarsa contropartita in termini di servizi pubblici, abbia effetti trascurabili sulla partecipazione alla forza lavoro (che infatti in Italia è tra le più basse tra i paesi OCSE e sicuramente la più bassa tra le donne, vedi presentazione di Giulio allegata in fondo al post). Insomma, ci aspettavamo che l'obiezione alla proposta di tagliare le tasse fosse quella standard che non è possibile (o non si desidera) ridurre le spese, perché altrimenti si fa macelleria sociale, o qualcosa del genere.
Invece no, non era questo il sentimento almeno di una parte importante della platea. Un momento rivelatore è stato quando Aldo ha mostrato quattro punti delle sue tesi, chiedendo su quali non si fosse d'accordo. Il secondo punto era qualcosa del tipo ''l'alta tassazione scoraggia l'offerta di lavoro e capitale'' e a quel punto si è levato il boato di disapprovazione della sala. A quanto pare il mito delle tasse bellissime è vivo e ben presente nel centrosinistra italiano. Non è che si è coscienti che le tasse sono dannose ma bisogna tenerle alte perché è necessario finanziare spese indispensabili. No, è che proprio la tassazione dei redditi da lavoro e capitale viene vista come un non-problema, o se vogliamo solo come un problema distributivo. L'offerta di lavoro è rigida e quella di capitale pure, si possono tassare a go-go senza grossi effetti di efficienza. Modello superfisso più o meno puro, quindi. Ma forse è una conclusione affrettata, ripetiamo che facciamo fatica a valutare chi erano quelli che esprimevano queste reazioni.
Ci teniamo a sottolineare che il boato di disapprovazione fa sempre più rumore del pacato annuire di chi è d'accordo. Nella sala c'erano anche colleghi economisti della Banca d'Italia e del settore privato, nonché collaboratori di nFA, che sebbene non d'accordo su tutto concordavano sulle questioni con un fondamento tecnico -- o per preparazione professionale o per buon senso.
Un'altra discussione interessante e abbastanza rivelatrice si è svolta riguardo alla riforma del sistema dell'istruzione (uno dei punti indicati da Giulio per favorire una maggiore produttività degli occupati). Semplificando un po', l'obiezione che è arrivata dalla sala è stata del tipo ''il problema è che i nostri imprenditori sono poco istruiti e poco innovativi, quindi non apprezzano la forza lavoro istruita e qualificata''. A dir la verità non abbiamo controllato i dati comparati su questa cosa, ma prendiamola per buona. Questa è una obiezione molto interessante su vari livelli, perché è abbastanza sintomatica di come ragiona un pezzo importante del paese (o forse tutto il paese). Il punto, chiaramente, è che l'istruzione e la capacità innovativa degli imprenditori non discendono dal cielo sotto le specie di una colomba, ma dipendono esse stesse dal sistema dell'istruzione! Noi queste cose le chiamamo "endogene". E le cose endogene non puoi prenderle come date.
Colpisce questa vista corta che impedisce di ragionare su cosa è causa e cosa è effetto. La decisione di fare l'imprenditore è, appunto, endogena, o almeno dovrebbe esserlo. Se solo persone poco istruite decidono di diventare imprenditori, magari perché sono figli di imprenditori e non hanno tempo e voglia di studiare, una qualche ragione ci sarà: non è che per caso il cielo sceglie proprio gli ultimi della classe per aprire le fabbrichette. È su queste ragioni che bisogna intervenire. Ma questo punto, nei ragionamenti che abbiamo sentito nella sala, era assente.
Questi discorsi li abbiamo già sentiti, nella giornata sull'istruzione alle giornate nFA 2009. Vari politici intervenuti fecero presente il problema della ''scarsa cultura della classe imprenditoriale'', che portava a rifiutare di assumere laureati e gente con il dottorato. Soluzione? Beh, visto che questi zotici di imprenditori non capiscono il vantaggio di assumere i titolari di un dottorato italiano, sussidiamo l'occupazione di chi ha il dottorato mediante opportuno abbassamento dei contributi sociali! L'idea che magari gli imprenditori, che dopotutto rischiano i propri soldi, abbiano fatto bene i loro conti non sfiorava nemmeno i nostri politici.
In questo c'è, è inutile far finta del contrario, un perdurante atteggiamento un po' snobistico verso chi si suda la pagnotta. Gli imprenditori avranno anche solo la terza media o il diploma di ragioneria, ma cosa autorizza a pensare che siano tonti nel gestire i propri affari? Almeno nei settori non protetti, quelli che sono veramente tonti scompaiono abbastanza rapidamente.
L'idea che magari l'elevata tassazione del settore ''ufficiale'' porti a una maggiore entrata nei settori sommersi, dove le capacità che si acquisiscono a scuola sono di scarso aiuto, nemmeno sembrava apparire in modo prominente. Aleggiava invece, sempre alle giornate nFA 2009, questa idea che burocrati ben istruiti, dall'alto dei loro scranni romani, potessero meglio spiegare agli ignari imprenditori italiani i settori in cui dirigere le proprie attività e il tipo di persone da assumere. Che dire? Onestamente speravamo che dopo decenni di Partecipazioni Statali, Casse del Mezzogiorno e varie altre furbate stataliste certe idee avessero cominciato a vacillare, almeno tra quelli che si trovano all'opposizione. Invece no.
Slides delle presentazioni e delle discussioni
(Aggiorneremo man mano che le recuperiamo...)
Mercato del lavoro:Relazione (Giulio Zanella) - Discussione (Franco Peracchi)
Federalismo:Relazione (Sandro Brusco) - Discussione (Giuseppe Pisauro)
Debito pubblico: Relazione (Aldo Rustichini) - Discussione (Francesco Lippi)
Mi spiegate perche' utilizzate questo termine? Dovete distinguerlo dalle liberal-dittature?
Posso capire l'utilizzo di "social-democratico" dato che lo scorso secolo ha visto i danni delle dittature socialiste. Allora e' comprensibile se si vuole lubrificare la supposta socialista sottolineando che e' scaturita da un percorso democratico.
Ma per delle idee liberali che senso ha aggiungerci un ulteriore termine? Dato che non esistono le dittature o le monarchie liberali e' superfluo come dire: liberal-democratico-umano (per non confondersi con i cugini liberal-democratici disumani).
I termini inutili in piu' danno sempre il presentimento di una fregatura come con il federalismo: federalismo fiscale, solidale, demaniale, idrico, solidale...
Non esistono monarchie liberali? ed io che pensavo di vivere in una di queste... mah...
Mah sai, i termini cambiano significato in diversi tempi e luoghi: per Lenin "socialdemocratici" significava "bolscevichi", e in Nord-America (US e Canada) "liberal" significa "socialdemocratico" mentre "liberale" si traduce "conservative", go figure).
Comunque nota che politiche economiche liberali non sono sempre e necessariamente associate alla democrazia o a metodi non-autoritari: Napoleone III era un liberoscambista, ma fece costruire a Haussmann dei bei viali larghi e dritti per potere usare meglio i cannoni nella repressione di moti popolari (il che n parte spiega perche' la Comune di Parigi fu sconfitta piu' rapidamente della rivoluzione del 1848). Analogamente, le politiche economiche di Pinochet erano impeccabilmente liberali, i suoi metodi di repressione certamente no. E osservazioni simili si possono fare anche sul PCC post-maoista.
Singapore mi sembra abbastanza vicino al concetto di liberal-dittatura :)
Io credo che debba essere interpretato nel senso che mentre la democrazia si caratterizza per la prevalenza della maggioranza, il liberalismo per la tutela delle minoranze, e non sempre questi due aspetti coincidono (es. il lupo, la lince e l'agnello che decidono a maggioranza cosa mangiare per cena).
Si traova qualcosa qui, scorrendo verso "Majoritarianism":
http://en.wikipedia.org/wiki/Liberal_democracy