Ecco una lista, incompleta e certamente disordinata, delle domande che abbiamo provato a porci ed alle quali abbiamo dato risposte parziali ed incomplete, ma speriamo utili.
Chi sono costoro e cosa cercano? Esiste un obiettivo ed una strategia che spieghino la tattica di questi ultimi anni, fatta di violenza indiscriminata e senza precedenti?
Quali sono le “cause” di questa nuova ondata di violenza? Cause immediate e cause di più lungo periodo. In parole povere: esiste un perché o siamo solo di fronte, come alcuni sostengono, al rivelarsi dell’anima “oscura” di una religione?
Come vogliamo leggere ISIS ora ed Al-Qaeda prima? E come leggere quello che, probabilmente, verrà in loro luogo, dovessero (chi?) militarmente annientare ISIS nei prossimi mesi? Siamo nel mezzo dello “scontro fra civilizzazioni/religioni” (cristiana vs musulmana) che svariati profetizzano da decenni? Sono invece questi degli “atti di guerra” d’una potenza o entità ben identificabile, a cui occorre rispondere con atti di guerra equipollenti? Quali, concretamente? O forse si tratta “solo” di terrorismo sporadico, più pericoloso quantitativamente ma non qualitativamente differente da, per rimanere in Italia, quello da noi sperimentato negli anni ‘70 e primi anni ‘80? Altre ipotesi?
Come si “risponde” a questi atti? Che fare ed a quale fine? Meglio, quali devono essere i fini ultimi di una reazione “nostra” (dove anche “nostra” va definita adeguatamente: chi siamo “noi”?) e come dovrebbe essere condotta tale reazione?
Sandro. Non so rispondere esattamente alle domande su ‘’chi sono’’ e ‘’cosa vogliono’’, ma provo a dire qualcosa, così magari mi chiarisco le idee con il vostro aiuto. In prima battuta ISIS (chiamiamolo così per comodità) è una banda armata che cerca di controllare una parte di territorio nel Medio Oriente, la più ampia possibile, in modo simile ad altre bande armate. Sembra essere caratterizzata dal fanatismo dei suoi membri, che non solo sono disposti a rischiare le proprie vite per raggiungere i propri obiettivi ma sembrano cercare attivamente la propria morte, e da una crudeltà poco comune anche nelle zone di guerra, che si manifesta ad esempio nell’attacco indiscriminato ai civili e nel trattamento particolarmente crudele dei prigionieri e dei nemici. Da quel che mi è dato capire il terrorismo verso i russi e verso i francesi sembra essere dettato dalla logica di molti altri gruppi terroristi: alzare il prezzo per il nemico di partecipare alla guerra. Russia e Francia (quest’ultima insieme ad altre potenze europee) hanno partecipato a operazioni militari in Medio Oriente che possono essere pericolose per l’espansione militare di ISIS. Dato che dubito ISIS abbia le capacità militari per contrastare direttamente tali operazioni, è possibile che abbiano scelto la via per loro meno costosa di far pagare un prezzo alto ai nemici mediante atti di terrorismo sul loro territorio o verso i loro cittadini. Da questo punto di vista la strategia non è né particolarmente nuova né particolarmente più sanguinaria di simili atti precedenti (per esempio la strage di Beslan). Inoltre ISIS punta a indebolire economicamente gli stati arabi con regimi secolari o semplicemente stabili, che rappresentano un ostacolo alla sua espansione. L’attentato sulla spiaggia tunisina dell’anno scorso e la bomba nell’aereo partito da Sharm fanno parte di questa strategia; l’attacco di Beirut probabilmente fa anche esso parte della medesima strategia perché destabilizzare il Libano e terrorizzare gli shiiti è utile a ISIS.
Le domande più difficili sono quelle sul ‘’che fare’’ (a parte le cose ovvie, ossia da un lato indagare nel modo più efficace possibile sui potenziali terroristi per prevenire e dall’altro trovare e punire gli assassini). Io confesso un mio grosso limite, la storia dello ‘’scontro di civilizzazioni’’ non l’ho mai ben capita, La vera domanda è quale politica dobbiamo tenere verso i paesi del Medio Oriente. Al riguardo io ho solo dubbi.
Michele. Anche io - come voi, ma al contrario di molti commentaristi italiani - ho più dubbi che certezze. I dubbi più pesanti riguardano il cosa fare ora. Quindi provo a prenderla da lontano, perché credo che una prospettiva storica possa essere utile a comprendere un fenomeno che non ha nulla di episodico e che temo ci accompagnerà ancora per parecchio tempo.
L’inevitabilità di quanto accade non elimina il dovere di operare, comunque, per cercare di evitarlo il più possibile. L’inevitabilità è dovuta alle radici storiche dei fenomeni di cui siamo vittime. Radici che non si possono estirpare (rifare la storia è notoriamente impossibile) e con le cui ramificazioni dovremo lottare per molti anni a venire. Riassumo la tesi di questo mio primo intervento: io credo che, per una parte, quanto stiamo vivendo sia conseguenza della fallimentare politica coloniale e post-coloniale dell’occidente (Francia, Regno Unito e USA, anzitutto) nel Nord Africa e nel Medio Oriente e, per un’altra parte, sia causato delle convulsioni interne che una religione teocratica (quella musulmana, in questo caso) non può non attraversare alla ricerca di un equilibrio stabile fra appartenenza religiosa ed identità etnico-nazionale. Invito a riflettere sulle mille guerre di religione interne al cristianesimo che hanno caratterizzato per secoli la transizione a quella che consideriamo l’età contemporanea.
Chi insiste sul tema “guerra di civilizzazioni/religioni” (Cristianesimo vs Islam) e ne deduce la necessità di chiudere le frontiere, espellere i musulmani e colpire militarmente non tanto e non solo le forze terroriste ma il complesso dell’Islam, è sia pericoloso che in mala fede. Perché occulta i fatti: il grosso del massacro terroristico si compie in Medio Oriente: i “musulmani” ammazzati, o ben da Al-Qaeda o ben da ISIS o da altri gruppi terroristi minori, sono, ad occhio, 100 o 200 volte i “cristiani” ammazzati dai medesimi gruppi. Sandro ha già portato svariati esempi, inutile allungare la lista. Ricordiamoci che nelle zone controllate da ISIS, come prima in quelle controllate da Al-Qaeda, vengono ammazzati soprattutto i musulmani che non ottemperano le follie del regime militarmente dominante. Negli scontri interni fra fazioni palestinesi muoiono molti più palestinesi di quanti ne ammazzi Israele con le sue azioni punitive o di occupazione (senza andare indietro nel tempo, a Settembre Nero e tutto il resto, dare un’occhiata qua). Questo mi sembra un aspetto chiave che, purtroppo, i media occidentali (fatte salve poche eccezioni) continuamente ignorano, mal informando di conseguenza l’elettorato e favorendo scelte politiche e militari dominate da una visione di breve periodo. Ed è così da decenni: la prima guerra del Golfo avvenne perché Saddam voleva mangiarsi un altro paese arabo; in Egitto e nei vari paesi coinvolti dalle insurrezioni della cosiddetta “primavera araba” la violenza è interna al mondo musulmano, idem in Siria e così via. I Curdi sono, nella stragrande maggioranza, musulmani (sia sunniti che sciiti) eppure combattono da un secolo contro altri musulmani di differente etnia o identità tribale, Turchi ed “Iracheni”, dove la seconda è fra virgolette perché l’identità etnica qui è molto meno ben definita che nel caso turco.
Proviamo a riflettere: tutti gli attentati che hanno colpito gli USA e svariati paesi europei dal 2001 in avanti sono conseguenza o derivazione di una o più di queste lunghe guerre interne al mondo musulmano. Questo non era vero per gli attentati palestinesi degli anni ‘70, i quali furono causati dallo scontro fra un popolo orientale ed uno occidentale (perdonatemi l’orrenda approssimazione). Ma quel terrorismo palestinese oggi non c’è più e le vittime della violenza di Hamas sono, in gran parte, altri palestinesi.
In sostanza, come ben chiarisce anche questo articolo di Limes che ho scoperto dopo aver scritto la parte precedente, stiamo assistendo anzitutto ad una guerra interna al mondo arabo/musulmano. Ed anche l’attributo “musulmano” andrebbe qualificato: gli indonesiani o i pakistani potrebbero chiedere che diavolo abbiano a che fare loro con una tale guerra. Idem per i quasi 200 milioni di musulmani che vivono in India e le centinaia di milioni di altri musulmani che vivono altrove nel mondo. Per questo le urla su “Islam religione di morte” vanno combattute senza remissione alcuna. Sono affermazioni false sia sul piano storico che su quello analitico. Se prese sul serio porterebbero ad una tragedia immane: la dichiarazione di guerra del Cristianesimo all’Islamismo. Una ricetta per il suicidio collettivo.
Ma, allora, se di una guerra interna al mondo arabo si tratta e se non è vero che l’Islam, in e di per se, è religione di morte che necessariamente predica e genera atti di folle violenza come quelli di questi giorni, perché mai da quasi due decenni i cittadini occidentali sono, a turni alterni, oggetto di attacchi uno più efferato dell’altro? Se non è una guerra fra religioni, se tutto questo non sta avvenendo per cercare di destabilizzare l’occidente è “conquistarlo” in una qualche (indefinita) maniera, perché avviene? Cosa c’entriamo noi?
“Noi” siamo dentro sino al collo nello scontro che, a partire dal crollo dell’impero ottomano, sta avvenendo in quella regione che inizia ad est del Marocco per terminare in Iraq, estendendosi, lungo l’asse Nord/Sud, dalla penisola arabica sino alla Turchia, perché vi ci siamo infilati di nostro.
Crollato, anche per mano nostra, l’impero ottomano, Francia ed Inghilterra con la collaborazione di altri paesi occidentali se ne spartirono i territori, tenendosene alcuni e destinandone altri ai loro vassalli del tempo. Ci inventammo paesi che non avevano alcun fondamento etnico o religioso (la Libia, per dire, o la Siria) assegnando ad ognuno un reggente gradito alle potenze occidentali del tempo. Chi non volesse perder tempo sui libri puoi farsi un’idea di tutto questo guardandosi il film Lawrence of Arabia ...
Finché il dominio (post) coloniale, prima, e la guerra fredda, poi, fecero da tappo (attraverso un misto di repressione e corruzione che ognuno dei regimi a noi “amici” esercitava nel proprio paese) queste “nazioni” sembrarono funzionare, pur in assenza di democrazia e di effettivo sviluppo economico, culturale e politico. Saltato prima il tappo coloniale e poi quello della guerra fredda incominciò il casino che oggi ci coinvolge così pesantemente. Quand’è che Saddam fa la prima mossa che ci induce ad un coinvolgimento diretto, ossia l’invasione del Kuwait? Nel 1991, quando sparisce l’URSS.
Occorre essere consapevoli di questo fatto: l’occidente è parte in causa nel conflitto mediorientale perché ha deciso, un secolo fa circa, di decidere chi doveva comandare cosa, dove e come in quell’area. Ognuno, letteralmente, di quei regimi è figlio nostro. Compreso quello iraniano degli ayatollah che emerge come contro-reazione all’imposizione anglo-americana dei Palhavi al posto di Mossadeq nel 1953. Basta riflettere su questo esempio per capire che gli errori, in politica estera, si pagano per molti decenni: stiamo cercando (e non è detto funzioni) di aggiustare ora un errore fatto 62 anni fa! Una delle cose che gli occidentali sembrano incapaci di accettare ed invece dovranno è che, in una maniera o nell’altra, alcuni confini mediorentali devono essere ridefiniti perché non definiscono entità statali stabili fondate su una coesione nazionale, sia essa etnica e/o religiosa. E questo ci conduce al secondo degli elementi indicati nel mio sommario iniziale come cause storiche di quanto avviene, quello religioso.
Il cuius regio, eius religio, che giocò un ruolo chiave nel pacificare l’Europa cristiana quasi 6 secoli orsono, non vale solo per noi. Ricordiamoci che il Profeta Mohammed morì nell’anno 632 dell’era cristiana. A quel tempo la religione cristiana aveva già visto la sua dose di "eresie", lotte intestine e scismi piu' o meno sommersi. Al contrario della cristiana - la quale, dopo circa un millennio e passa di disastri d’ogni tipo, è arrivata a stabilizzare la relazione fra le sue varie “sette” in modo tale da evitare conflitti armati e da non interferire nella politica dei paesi coinvolti - la religione musulmana è ancora lungi dall’aver stabilizzato le relazioni fra le sue di sette. Non solo non riesce a separare lo stato dalla chiesa (cosa che i cristiani riuscirono a fare in quell’arco di tempo che va dall’anno 1000 al 1700 circa) ma continua ad avere al proprio interno ampie componenti “militarmente espansive”, ossia desiderose di esportare la mezzaluna con il mitra e la bomba nello stesso modo in cui, svariati secoli orsono, molte componenti interne al mondo cristiano intendevano esportare la croce con la spada e la lancia. L’analogia non è forse perfetta ma io la trovo difficile da rifiutare.
Perché mai questo “ritardo evolutivo” (che potrebbe essere dovuto solo ad una “tarda nascita”) della religione musulmana dovrebbe riguardare i paesi di cultura cristiana? Per tre banali ragioni. Anzitutto perché, essendoci lasciati quei problemi alle nostre spalle ed avendo deciso di infilarci negli affari politici dei paesi dell’area ex-ottomanna, noi non possiamo accettare il loro modus operandi politico e loro non riescono ad accettare il nostro. In secondo luogo perché, a fronte del nostro declino demografico, quei paesi continuano a generare un surplus di popolazione che tende a migrare spontaneamente verso i nostri territori, esacerbando le frizioni culturali. In terzo luogo perché un conto è usare la spada per farsi valere in un mondo scarsamente popolato e ben altro conto è usare le armi moderne nel centro delle metropoli europee. Il carnage che ne risulta è infinitamente maggiore.
Dove portano queste osservazioni? Spero portino a comprendere che noi “cristiani” siamo finiti in mezzo a questa follia “islamica” perché siamo fisicamente e militarmente presenti nel Medio Oriente per nostra scelta, non perché sia invece in corso una Jihad dell’Islam alla conquista dell’occidente. Non siamo alle anti-crociate ma alla guerra dei trent’anni esportata in, per dire, Inghilterra, perché l’Inghilterra s’è messa in mezzo fra un principe tedesco e l’altro ed uno dei due intende vendicarsi direttamente sugli inglesi. È per queste ragioni che le assurdità sull’Islam da distruggere - che in Italia si ispirano alla “preveggenza” della confusa Oriana Fallaci - vanno seriamente combattute. È in corso, internamente all’Islam, una lunga e violenta battaglia culturale e militare che avrà rilevanza per i decenni, forse i secoli a venire. È nel nostro interesse appoggiare - con argomenti cogenti ed il coinvolgimento culturale, non con l’ostracismo idelogico - le componenti modernizzanti o “illuministiche” che nell’Islam esistono e sono forse persino maggioritarie, esattamente come avremmo fatto nei secoli dell’oscurantismo papalino dovendo scegliere fra Galileo e l’Inquisizione.
È anche importante accettare, seppur amaramente, che districarsi dal Medio Oriente è oggi, per noi, praticamente impossibile. Le ragioni sono sia note che ovvie ma mi sembra utile riassumere le principali: il petrolio, la prossimità fisica di questi paesi all’Europa e gli scambi commerciali che ne derivano, i flussi migratori in corso, la competizione geopolitica con URSS (prima) e con Russia e Cina (ora), la protezione dello stato di Israele. Non voglio mettermi a discutere sulla bontà di questi motivi (su alcuni dei quali i lettori più antichi sanno come io abbia una posizione di minoranza, in particolare per quanto riguarda i rapporti dell'occidente con lo stato di Israele) perché oggi come oggi e di fronte ai pericoli che abbiamo dinanzi, la valutazione sulle scelte passate diventa, seppur intellettualmente utile, politicamente secondaria. Detto altrimenti: possiamo, come nel mio caso, ritenere erronei molti dei motivi che hanno portato l’occidente, da un secolo e passa, a gestire i resti dell’impero ottomano e la sua periferia, ma questo non cambia la realtà odierna sul terreno. Con il senno di poi è facile vedere gli errori di 100 ed anche di 70 o 50 anni fa, ma bygones are bygones ed ora occorre gestirne gli effetti. Il più importante di essi è che siamo i nemici dei nemici dei nostri amici, quindi è cruciale sia scegliersi gli amici con molta maggior cautela che in passato sia difendersi in modo più efficace dai loro nemici. E nel frattempo occorre imparare a convivere con tali effetti, impedendo che arrivino a logorare i principi su cui il nostro sistema politico-sociale si fonda. E questo non è per nulla semplice.
Giulio. Concordo, innanzitutto, che non si tratta di scontro tra civilizzazioni, tanto meno tra religioni. Le diverse civilizzazioni di occidentali e mediorientali (in fondo non molto diverse visto che commerciamo, ci scambiamo conoscenze e ci influenziamo in molti altri modi da parecchi secoli) e le loro diverse religioni (anche queste in fondo molto simili, vista la radice comune delle tre grandi religioni monoteiste che non a caso rende del tutto naturale il dialogo e persino la teologia interreligiosa) hanno a che fare con questo conflitto tanto quanto le diversità culturali e religiose tra Germania e Giappone da un lato e Stati Uniti e Inghilterra dall’altro avevano a che fare col loro conflitto durante la Seconda guerra mondiale: poco o niente. Come già notato da Sandro e Michele, in tutte queste circostanze ISIS non si è fatto alcuno scrupolo ad uccidere i propri “fratelli” musulmani. E ce l’hanno con gli europei e i loro discendenti oltremare, non, per dire, coi cinesi che sono molto più lontani da loro culturalmente e religiosamente. Davvero cultura e religione c’entrano poco o niente. Che qualcuno spari invocando Dio significa poco. Anche qualche tedesco avrà sparato durante la Seconda guerra mondiale pensando “Gott mit uns”. Molti, infatti, da quanto ci è dato sapere. Così come significa poco, di per sé, che qualcuno sia disposto a morire suicida in queste operazioni terroristiche. La storia è piena di esempi di gente che si immola per cause laiche (come la patria) e una buona paga per sé prima e per gli eredi dopo.
L’amara verità, a me pare, è che questi attentati sono quello che li ha definiti Hollande la sera stessa della strage di Parigi: atti di guerra. Col passare delle ore e l’arrivo di informazioni dalle indagini è diventato sempre più evidente che negli attentati di Parigi ISIS ha svolto un importante ruolo di organizzazione e coordinamento. Le notizie di oggi sulle comunicazioni tramite la funzione vocale della Playstation confermano infatti che questo ruolo è stato diretto e determinante. Le armi di ISIS sono queste, non convenzionali e apertamente vigliacche perché colpiscono i civili di proposito, le nostre sono convenzionali e non vili perché colpiscono (nelle intenzioni ufficiali, almeno) l’esercito nemico. Ma la guerra è una roba orribile che non conosce regole. Chi bombarda combattenti nemici da un aereo, chi massacra civili inermi in attacchi suicidi. C’è ovviamente una differenza tra le due cose, ma le spirali di violenza sono fatte così. Da pacifista penso che prima riconosciamo che siamo davanti ad atti di guerra meglio è per tutti. Facciamo fatica a farlo perché continuiamo a negare di essere parte di un conflitto armato, ma ci siamo dentro fino al collo per le ragioni storiche illustrate sopra da Michele e la presenza militare europea ed americana in Medio Oriente sta ancora lì a dimostrarlo. Alzare le mani dichiarandosi vittime innocenti (collettivamente ossia politicamente, sia chiaro, che i singoli tragicamente uccisi nei giorni scorsi lo erano, vittime innocenti) sarebbe ipocrita.
Che fare, dunque? Ci siamo resi conto troppo tardi (si veda per esempio la “confessione” di Tony Blair poche settimane fa) che è stato un grave errore intervenire militarmente in Iraq nel 2003-2004 per rovesciare il regime di Saddam Hussein. È ormai, credo, pubblicamente riconosciuto anche negli Stati Uniti che il modo in cui è stata gestita l’occupazione e, in particolare, smantellato l’esercito iracheno negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra del Golfo ha creato un “esercito di riserva” (in questo caso il concetto calza proprio a pennello) di uomini e armi che hanno favorito l’organizzazione militare di ISIS. Meglio sarebbe stato lasciare Saddam dov’era, dicono oggi molti. E anche Gheddafi. E anche Assad (beh, lui c’è sempre e infatti oggi molti dicono per fortuna che c’è). Proprio mentre Al-Qaeda stava percorrendo il viale del tramonto abbiamo contribuito in modo determinante a creare un caos che ha fatto prosperare ISIS. Ne consegue, retrospettivamente, che la politica migliore da tenere verso il Medio Oriente sarebbe probabilmente stata la passiva accettazione degli equilibri politici che là, endogenamente, si determinano, almeno finché non si subisce un attacco (e questo poteva forse giustificare il rovesciamento per mano militare del regime dei talebani in Afghanistan nel 2001). D’altronde facciamo così da decenni con la Corea del Nord, un brutale regime dittatoriale che opprime il popolo e ne calpesta i diritti umani riconosciuti in occidente. Ma ormai è tardi e siamo dentro al conflitto. Concordo con Sandro (e con l’ottimo articolo di Limes già citato sopra da Michele) quando dice che ISIS sta alzando il prezzo per europei e russi di immischiarsi nelle faccende mediorientali e, in particolare, di partecipare allo sforzo militare per contrastare l’autoproclamato “califfato”.
E quindi, di nuovo, che fare, dunque? Innanzitutto evitare l’isteria collettiva e l’islamofobia. Le comunità musulmane in Europa hanno un interesse a vedere sconfitto il terrorismo (pensate all’enorme danno che questi eventi fanno alla loro immagine e quindi alla possibilità di vivere una vita normale in cui si lavora, si fanno studiare i figli, ecc.) e quindi vanno ricercate come alleate.
Dopodiché, mi sembra cruciale fare un salto di qualità con l’intelligence e rafforzare le misure di prevenzione di minacce terroristiche di ogni tipo. Che operazioni terroristiche così letali e così ben organizzate come quella di Parigi passino le maglie dell’intelligence è un fatto grave. Così come è grave che alcuni degli attentatori fossero persone note alla polizia francese come sospetti terroristi, o che l’ottavo attentatore in fuga verso il Belgio in auto con amici sia stato fermato più volte a posti di blocco e rilasciato dalla polizia (qui la fonte). Capisco che non si possono arrestare tutti i sospetti ma forse qualche progresso su questo fronte si può fare. In Italia, dopo le stragi di mafia del 1992, ci siamo inventati (e la cosa ha funzionato nell’indebolire in modo determinante Cosa Nostra) il 41/bis. Mi chiedo se non si possa fare qualcosa di simile per le minacce terroristiche nell’ambito del diritto internazionale (cosa quest’ultima necessaria per evitare di ripetere un altro errore dell’occidente nella politica mediorientale, Guantanamo). Ma bisogna essere consapevoli che questo implica importanti restrizioni alla privacy e alla libertà di tutti.
Una volta messa da parte l’isteria e rafforzata l’intelligence, le opzioni mi sembrano due: o si va (in coalizione internazionale) decisamente fino in fondo a sconfiggere ISIS militarmente accettando collettivamente la possibilità di essere colpiti alla loro maniera, oppure lo si riconosce in qualche modo come stato e ci si scende a patti. Ci altre vie indirette e più tortuose che forse si stanno già percorrendo ma che a me pare non facciano altro che perpetuare gli errori del passato. Penso all’accordo sul nucleare con l’Iran, forse un modo di creare nella regione una potenza economica e militare che possa fare il lavoro sporco di scontrarsi con ISIS. Fino a che non diventa il prossimo nemico.
La seconda opzione equivale più o meno a dire a ISIS “Ok, noi ce ne andiamo, fate quello che vi pare in Medio Oriente, ma lasciateci vivere come ci pare -- anche senza controllare le riserve di petrolio si può vivere bene -- e cancellateci dalla lista dei vostri nemici, grazie”. Credo sia vero che se oggi i paesi occidentali se ne andassero in blocco dal Medio Oriente gli attentati cesserebbero più o meno di colpo (segue logicamente dal fatto che la causa degli attentati è la nostra presenza lì). Se questa politica pone alla coscienza occidentale il problema di lasciare interi popoli in balia di feroci tiranni la soluzione è semplice: accogliamo tutti quelli che da questi tiranni vogliono scappare, così come gli Stati Uniti accoglievano quelli che scappavano dai despoti e feroci dittatori europei nell’800 e nel 900.
La prima opzione, quella di un’azione militare decisa sul campo e mirata a sconfiggere ISIS indebolendolo economicamente e militarmente, sembra essere quella più attraente al momento, ma non è chiara la forma. Nessuno si dice intenzionato a inviare truppe di terra e al momento si osservano solo azioni sporadiche la cui efficacia resta in dubbio. Per esempio, oltre ai raid francesi di domenica, è di oggi la notizia che caccia americani hanno attaccato e distrutto centinaia di camion che ISIS utilizza per contrabbandare petrolio in Siria. Se opzione militare deve essere, bisogna che sia più decisa. La novità è che stavolta il nemico è comune anche a gran parte del mondo arabo (nessuno stato arabo ha da guadagnare dal dominio di ISIS) e quindi un’ampia coalizione internazionale è possibile. Ma le conseguenze di questa scelta sono ovviamente imprevedibili, come sempre quando in una guerra inizia l’escalation. E per molti versi suona come un dejà vu. Fuori un ISIS, ne sorge un altro dalle macerie e dal caos lasciato dalla guerra.
Sandro. Rispondere alla domanda sul ‘’che fare’’ richiede un qualche modello teorico sulle conseguenze di diversi corsi di azione. Cosa succederebbe se USA, Francia, UK e alleati minori decidessero di disimpegnarsi completamente dal punto di vista militare nel Medio Oriente? Cosa succederebbe se decidessero il disimpegno ma solo in cambio di un uguale disimpegno da parte della Russia e delle potenze regionali, Iran in primo luogo? Ed è quest’ultima una strategia possibile? Infine, se si decide, per l’intervento militare (che è quello che è successo per lungo tempo), quali obiettivi deve avere tale intervento? Non ho gli strumenti teorici, a parte un po’ di teoria dei giochi, per abbozzare risposte.
L’impressione da esterno, e da persona abbastanza ignorante di teoria delle relazioni internazionali, è però che raramente la risposta a queste domande viene data con in mente una visione di lungo periodo. La convenienza politica immediata sembra essere quasi sempre il criterio dominante (con la possibile eccezione di Blair e del suo appoggio all’intervento in Iraq, che fu per lui assai costoso politicamente). Negli USA, almeno, sia l’intervento in Iraq sia il parziale disimpegno successivo sono, a mio avviso, difficili da capire senza guardare alla pressione esercitata dell’opinione pubblica.
ne’elam. Comincio dalla fine. Che fare? Ci sono un paio di paesi che quel tipo di terrorismo lo hanno sconfitto: l’Algeria e lo Sri Lanka. All’inizio degli anni ‘90 il GIA (Groupe Islamique Armé) - corrente estremista e terrorista - stava per prendere il potere dopo aver vinto le elezioni. I militari algerini li deposero e iniziò una lotta senza quartiere durata dieci anni. I militari sigillarono il paese, chiusero le frontiere, non fecero entrare più nessuno, in particolare la stampa, e con una lotta senza quartiere ne fecero fuori una parte consistente. Si conta che in quella guerra civile - alle porte di casa nostra - morirono oltre 100.000 persone (e si tratta di una stima per difetto). Le uniche strategie finora vincenti sono lunghe, costose, richiedono un territorio ben delimitato, e hanno un grave difetto: sono impraticabili, almeno per come noi in occidente fissiamo i limiti di reazione ad un attacco di fanatici. Ricordo che un’altra “storia di successo” fu la sconfitta del terrorismo Tamil in Sri Lanka: posti di fronte ad una situazione simile, i cingalesi adottarono una strategia analoga. Noi, occidente intendo, non possiamo permettercelo e le guerre convenzionali hanno dimostrato nel corso degli ultimi cinquanta e passa anni che non risolvono il problema.
Quindi, quanto al che fare, mi sembra che le risposte vincenti abbiano il piccolo difetto di non poter essere replicate. Inoltre l’assenza di un territorio delimitato amplia a dismisura la dimensione dell’intervento e, cosa ancora più complicata, abbiamo a che fare con giovani islamici radicali nati in Europa. Si conta che una quota rilevante dei combattenti dell’ISIS (e di compagini simili) in Siria ed Iraq siano foreign fighters. Dovessero tornare perché le cose si mettono male laggiù, con l’addestramento militare che hanno ricevuto, sarebbero tante bombe ad orologeria che scorazzano per le strade europee. Uno scenario quanto mai sgradevole, quand’anche la coalizione militare dovesse sconfiggerli (e non mi pare che le cose stiano andando precisamente in questo senso). I complottisti sostengono che si tratta di un fenomeno creato dagli occidentali per deporre Assad. Non credo sia vero, però credo anche che la storia passata sia piena di casi di marionette che, ad un certo punto, sfuggono di mano al puparo. La storia dei Talebani è nota. Ma non sono stati solo gli americani a non averne calcolato bene le conseguenze. Ricordo che anche Israele fece un clamoroso errore di prospettiva con il movimento libanese di Amal. Lo sostenne in funzione anti-OLP, salvo poi accorgersi di aver creato un mostro: da una costola di Amal nacque il movimento degli Hezbollah. Calcoli sbagliati gravidi di conseguenze. Ricordare queste conseguenze non ci aiuta a risolvere il problema che abbiamo ora, però può servire a ridurre la probabilità di commetterne di simili nel prossimo futuro.
Giovanni. Non credo che, a questo punto, la strategia dell’appeasement (fatevi il vostro stato ma lasciateci in pace) sia percorribile. Primo, l’opinione pubblica occidentale è troppo traumatizzata. Secondo, l’ISIS non è un partner credibile, ed anche se lo fosse, non può garantire che non nasca un’organizzazione simile ancora più radicale. Finchè ci sarà disagio sociale fra i musulmani e paura/razzismo nei confronti dei musulmani fra gli occidentali sarà sempre possibile reclutare terroristi a Parigi, Londra etc. La comunità musulmana in Francia conta 6 milioni di persone - basta che lo 0.01% diventi radicale abbastanza ed avremo 6000 terroristi. In Francia hanno una lista di 5000 nomi di persone potenzialmente pericolose (fra cui alcuni dei terroristi dell’ultimo attacco) e ci saranno sicuramente molti altri sconosciuti che son pericolosi sia potenzialmente che di fatto. Non credo che disagio sociale e razzismo scompariranno presto - è più probabile che gli ultimi avvenimenti li rafforzino.
Che fare? Ovviamente, più intelligence serve, ma l’intelligence ha i suoi limiti (basta un complotto non scoperto su 10) e troppa intelligence ridurrebbe la privacy a cui tutti teniamo. Inoltre potrebbe essere controproducente. Pensate se si diffondesse la pratica di denunciare il musulmano con la barba solo perchè ha espresso opinioni contro Israele o perchè tiene aperto il negozio fino alle 24 e impedisce al concorrente bianco e cristiano di vedersi in pace X-factor. Alla terza denuncia falsa o pretestuosa, anche il musulmano più pacifico diventerebbe un fanatico radicale. Secondo me, la cosa essenziale è diffondere un messaggio diverso - bisogna imparare a convivere con il terrorismo come si convive con gli incidenti stradali. In Italia muoiono fra 3000 e 4000 persone l’anno e nessuno pensa di proibire la guida. Si sta attenti, si migliora la sicurezza delle macchine, ma poi alla fine tutti guidano e considerano l’incidente come una possibiltà, anche se remota. Lo stesso dovrebbe essere per il terrorismo.
I terroristi vogliono farci paura e farci cambiare il nostro modo di vita. Se ci facciamo prendere dalla paura, avranno vinto. E questo vale non solo per non smettere di andare allo stadio o di cenare all’aperto - vale soprattutto per il rapporto culturale con l’Islam. Non scrivere la “verità” (fra virgolette), ufficialmente per paura di offendere la religione islamica ma, si sospetta, in realtà per paura, è l’inizio della vittoria per gli estremisti. E questo non vuol dire opporre alla propaganda menzognera dell’ISIS una contropropaganda vagamente faziosa, se non altrettanto menzognera come qualche volta sembra suggerire Galli della Loggia. Sarebbe necessario ritornare a parlare dell’Islam come di una religione più oscurantista ed aggressiva delle altre ma non sostanzialmente diversa. E ricordare che il problema delle società arabe (in senso lato) è la loro incompleta modernizzazione e quindi il peso eccessivo e crescente della religione nella vita sociale e politica.
Giulio. Concordo che bisogna abituarsi al terrorismo come a uno spiacevole fatto del tempo in cui ci è capitato di vivere (così come a limitazioni di privacy e, probabilmente, libertà per vivere più sicuri), ma questo ha senso solo se nel frattempo hai una strategia anti-ISIS. Abituarsi a subire aperti atti di guerra senza fight back sarebbe da irresponsabili. Il caso è diverso da Al-Quaeda, che era liquida e non sapevi dove e come colpirla (infatti abbiamo fatto solo un gran casino colpendo alla cieca presunti regimi del male compiacenti). ISIS si proclama stato, ha una capitale, un esercito (sebbene altamente irregolare), un'organizzazione territoriale e interessi economici. Va quindi contrastato come tale, nella misura in cui minaccia la vita e la libertà dei cittadini europei.
Andrea. Una decina d’anni fa, Robert Pape pubblicò un’analisi del terrorismo suicida concludendo, sulla base di una banca dati da lui raccolta (che non si limitava al terrorismo di matrice islamica), che il terrorismo suicida si correlava ai seguenti tre elementi: (i) è perpetrato da organizzazioni non militari contro stati democratici (ii) allo scopo di porre fine ad una occupazione militare (iii) in cui ci sono differenze di religione fra potenza occupante e stato occupato. La motivazione determinante del terrorista suicida è politica, non religiosa, e si basa su una strategia volta alla ricerca di massimizzare l’efficacia dell’azione violenta. Strategia, alla luce dei dati, corretta. Il suo consiglio al governo americano era di porre fine all’occupazione militare del Medio Oriente e alla pretesa di intervenire per manipolarne i regimi. Più efficace sarebbe perseguire strategie di alleanze esterne, mantenendo attiva la minaccia di intervento militare per casi specifici (per esempio: la difesa del commercio internazionale, come nel caso della prima guerra del Golfo). Questa è la strategia sinora usata da Obama per opporsi a ISIS, senza sostanziale opposizione (almeno nei fatti) dai Repubblicani. L’occupazione militare del golfo Persico però rimane, e questo perpetua nel mondo islamico la frustrazione per l’incapacità di auto-determinare il proprio futuro, e alimenta il reclutamento di potenziali terroristi suicidi (che, dai dati, non sono dei poveri pazzi senza speranza, ma giovani con elevato livello di istruzione spinti da un forte anelito di altruismo nei confronti dei propri conterranei).
Se queste sono le basi del ragionamento (e ancora di più se le motivazioni del terrorismo dell’ISIS sono diverse), direi che non c’è scampo. Come sostiene Giovanni, occorre imparare a convivere con l’idea che, occasionalmente, qualche pazzo farà saltare qualche ristorante, accettare limitazioni di privacy e libertà personali in cambio di maggiore intelligence. Occorre anche avere una strategia precisa per l’intervento militare che non abbia obiettivi vaghi quanto illusori come “esportare la democrazia” o altri simili vaghe idee difficilmente realizzabili. Il mondo islamico ha non tanto bisogno di democrazia, quanto di stato di diritto, innanzitutto, e di crescita economica non pompata dal petrolio, alla quale segue, di solito, anche una crescita della società e dei diritti umani.
Giovanni. Per ora i bombardamenti sono serviti a poco - si può fare sicuramente di meglio (p.es. la radio del Sole parlava di colonne di autobotti cariche di petrolio, che mi sembrerebbero un bersaglio ideale … infatti sembra che oggi li abbiano attaccati) ma temo non bastino. L’intervento militare occidentale sul terreno potrebbe essere militarmente decisivo, ma ha una grave controindicazione - oltre alla possibile reazione dell’opinione pubblica all’arrivo dei primi morti. Darebbe un ottimo argomento alla propaganda ISIS e quindi aggraverebbe il rischio di azioni terroristiche. Inoltre non è chiaro come organizzarlo - dove facciamo sbarcare i marines? Passando dalla Turchia ed il Kurdistan? Non credo che sia disposta a dare un riconoscimento finale allo stato curdo. Attraverso la Siria? Un grande sostegno ad Assad. Attraverso l’Iraq? Combatterebbero fianco a fianco con i miliziani sciiti e gli iraniani (gli unici che combattono a Sud). Via Israele e Giordania? Un doppio regalo alla propaganda ISIS. Etc. Etc.
Redattori. Per oggi ci fermiamo qui, con degli interrogativi sui rischi che le cose da fare implicano, pur se queste ci paiono alla fin fine abbastanza ben definite. Ci siamo trovati forse fin troppo in accordo, pur avendo scritto questo articolo a molte mani senza alcuna coordinazione altra che quella di evitare (nei limiti del possibile) di ripetere quello che altri avevano già scritto. A noi pare importante non solo cercare di guardare la verità dei fatti e quella storica direttamente in faccia, mettendo nell’angolo ideologismi ed isterie religiose ma, anche e soprattutto, saper riconoscere che, da qualsiasi angolo le si guardi, non esistono soluzioni facili: qualsiasi mossa si scelga di fare essa risulterà gravida di conseguenze rischiose. Soprattutto, siamo in accordo sul fatto che una azione “militare” (al di là dei proclami altisonanti di troppi idioti, utili solo agli sciacalli della politica) è sia molto difficile che rischiosa. L'azione militare va - noi crediamo - comunque presa. Imparando dalle esperienze afghana ed irachena: colpire la struttura militare nemica sino a distruggerne interamente leadership e capacità operative e poi andarsene. Non occupare il paese e non decidere chi governerà dopo, riservandosi semplicemente il potere di intervenire militarmente di nuovo nel caso la nuova leadership segua le orme della precedente.
Ci rendiamo conto che questo suoni come una ricetta per l’intervento infinito, ma sembra al momento la strategia meno ovviamente dannosa visto che ha, come uniche alternative, o ben la passività (impossibile non solo perché il terrorismo attacca le nostre città ma anche perché siamo già di fatto dentro al conflitto mediorientale, come argomentato sopra) o ben la generalizzazione del modello Afghanistan/Iraq il quale, ci sembra ora chiaro, non ha conseguito i successi che (alquanto illusoriamente) i suoi sostenitori speravano.
All’azione militare, ed è cruciale sottolinearlo, occorre aggiungere in contemporanea quella culturale, economica e politica. Non vi è scampo e non si tratta di vuota retorica: occorre vincere la guerra soprattutto sul piano culturale e socio-economico. Perché, se la nostra analisi è corretta, è solo usando l'azione militare come strumento di difesa dei nostri cittadini e dei valori fondamentali del modello sociale che ci siamo dati, e quella culturale, politica ed economica come strumento di interazione attiva con il Medio Oriente, che noi possiamo sperare di "vincere". Dove "vincere", in questo contesto, significa permettere e favorire un'evoluzione dei paesi mediorientali in una direzione che, preservandone le specificità culturali ed anche religiose, diventi compatibile - nei suoi pilastri fondamentali - con quella sperimentata dall'Europa e dagli altri paesi avanzati durante gli ultimi tre secoli circa.
Ma questo è un tema ancora più enorme di quello qui affrontato e sul quale sarà più proficuo ritornare in occasioni successive, cominciando dalla discussione che, ci auguriamo, questo nostro primo intervento sarà capace di generare.
Sul "che fare" non mi pronuncio ma sull'analisi delle cause "culturali" ho trovato interessante questo testo di Pietro Ichino. Per quanto ridotta sia la mia esperienza personale essa si innesca su quella piu' estesa degli amici che invece per anni hanno frequentato per lavoro il medio oriente. Entrambe convergono nell'osservare che nei giovani arabi sia prevalente e crescente la fascinazione per il modello di vita occidentale, per le sua libertà, per lo stile di vita, per il divertimento, la disibinizione, la musica, il cibo ed il bere. Una cosa che qui possono esercitare liberamente ma nei paesi piu' chiusi e bigotti devono fare in gran segreto, nel chiuso delle case. Questo mina il potere spirituale e temporale di chiese potenti e quella che vediamo è la reazione violenta della parte piu' integralista. In pratica una sorta di attacco come difesa dai modelli culturali occidentali.
Non credo però che questa sia la sola possibile causa. Come intuibile ci sono anche interessi di potere ed interessi economici (in gran parte petroliferi) da parte di tutti gli attori in gioco, Russia compresa. In questi giorni abbondano cartine che spiegano come la syria sia strategica per flussi petroliferi dal medio oriente verso il mediterraneo, bypassando il canale di Suez. Non so che peso dare a tutte queste ipotesi (in fondo non c'è scenario di conflitto in cui non sia subito parlato di oleodotti e gasdotti e relativi complotti) ma probabilmente giustificano stanziamenti miliardari per occupare e gestire militarmente determinate aree.
Non sono d'accordo con Pietro perche' non penso che la radice del conflitto sia culturale. La radice e' militare e geopolitica. Praticamente nessun giovane musulmano agogna la Russia come meta e stile di vita, eppure attaccano i russi e il motivo e' che i russi hanno interesse a contrastare ISIS in Siria.