Il film, che poi vinse l'oscar come miglior documentario, venne attaccato ferocemente da destra e tacciato di anti-americanismo. Le critiche prendevano spunto non tanto dai contenuti quanto dalle numerose "licenze poetiche" che Moore prese nel montaggio delle scene. Per esempio, si scoprì che l'ilare episodio in cui Moore entra in una banca e riceve un fucile in regalo dal cassiere per aver aperto un conto corrente non si svolse come avvenne nel film: il fucile gli venne consegnato in un altro edificio. I dettagli sono importanti, evidentemente.
Il film contiene altre scene ad effetto: per esempio la visita-sorpresa assieme ad alcuni studenti di Columbine alla sede di Walmart, una catena di supermercati che vende anche pallottole. Ma non c'è solo questo: il messaggio è leggermente più profondo, in quanto Moore cerca di analizzare le varie cause della violenza in America.
Per esempio, ho trovato meritevole di riflessione un dato interessante presentato dal film. Moore si recò nel vicino Canada, in città simili per clima e configurazione a quella del Colorado dove avvenne il massacro, per riflettere sul fatto che il possesso d'armi in Canada, a livello pro capite, è simile se non superiore a quello americano, ma le morti d'arma da fuoco sono enormemente inferiori. Moore ne deduce che il problema non è dato dalla quantità d'armi disponibili, ma (forse, aggiungo io) dai controlli su chi le riceve e possiede.
Ritengo molto interessanti anche le interviste a Marilyn Manson (il cantante che celebra nelle sue canzoni violenza, necrofilia e sadomasochismo) e agli autori di South Park (il brillante cartone animato dove fra violenza e volgarità quattro bambini di terza elementare criticano il perbenismo "politically correct" della middle class americana - curioso il fatto, forse non una coincidenza, che il cartone si svolga proprio in un paesino di montagna del Colorado, in tutto simile a Littleton, il luogo del massacro). Gli artisti intervistati propongono riflessioni di gran lunga più intelligenti di quelle offerte da molti sedicenti intellettuali, e accantonano decisamente l'idea che il problema stia nella violenza suggerita da film/tv/videogiochi. Divertente poi l'intervista a Charlton Heston, il presidente dell'NRA, la potente lobby che sostiene la liberalizzazione del commercio delle armi. L'ex-attore, ignaro degli scopi del regista, si trova protagonista involontario di una scena piuttosto comica. Heston propone l'idea che la causa della maggior violenza risieda nella notevole mescolanza etnica nella società statunitense (va detto che la stragrande maggioranza degli omicidi negli USA è intra-razziale piuttosto che inter-razziale).
Alla fine il documentario avanza, piuttosto modestamente e con un po' di scetticismo, per quanto poso ricordare, un'altra possibile risposta alle cause della violenza in America: una presunta "cultura della violenza" negli Stati Uniti che contrappone alla pacifica tranquillità della vita in Canada. Moore esplicita questa idea in modo piuttosto aneddotico e banale, confrontando alcune scene tratte da giornali e telegiornali della grigia ed inquinata Los Angeles con le interviste ai cittadini della verde suburbia canadese che pacificamente rivelano di non chiudere a chiave la porta di casa. Un confronto palesemente impari: per esperienza personale anche nei quartieri residenziali di una media città del midwest americano non si chiude la porta a chiave.
In sintesi, il documentario propone diverse riflessioni sul fenomeno della violenza, senza sparare a zero sui "soliti sospetti", e cosciente di non sapere dare una risposta esaustiva. L'affermazione che la risposta non sia da cercare nella quantità d'armi disponibile, visto il confronto con il Canada, venendo da un radicale liberal, colse a suo tempo la mia attenzione.
P.S. Un altro film consigliabile sul tema è Elephant, di Gus Van Sant, che didascalicamente ripercorre la giornata del massacro nella scuola Columbine. È l'esatto contrario di Bowling: niente humor, nessun commento, quasi nessun dialogo, alla fine della proiezione lo spettatore rimane senza fiato come dopo aver ricevuto un pugno sullo sterno.
Condivido gran parte delle osservazioni, anch' io ho notato i facili equivoci. Anche se bisogna dire che Moore, gran parte della sua reputazione, se l' è giocata con "Fahrenheit 9/11".
Del resto, che il nostro Pierino non volesse puntare i riflettori sulla circolazione delle armi viene ribadito allorchè, parlando di Israele, nota come ad un possesso diffuso di armi da fuoco, corrispondano tassi di criminalità molto bassi. Se è per questo avrebbe potuto parlare anche della Svizzera o di altri paesi (probabilmente, ahimè, anche della Finlandia).
Come spiegare le differenze tra Canada e USA? Mi sa che Moore ha in mente qualcosa legato alla "cultura", e probabilmente c' è del vero. In alternativa si potrebbe ipotizzare che puntare sulla prevenzione è più efficente che non puntare sulla deterrenza.
Eppure l' effetto deterrenza esiste visto che il crollo del crime rate USA è dipeso sopratutto dall' incremento delle forze dell' ordine e della popolazione carceraria (oltre che, dice qualcuno, da una generazione di criminali in erba abortita).
Devo ammettere che, a lume di naso, una relazione tra tasso di criminalità e omogeneità della popolazione ce la vedevo anch' io. Ma, a quanto dici, ho fatto la figura del Charlton Heston.
P.S. Ho visto anche Elephant. Bello. Si ascolta nitidamente il "rumore" di quel silenzio che conduce l' isolato a compiere certi gesti.
Peccato che entrambi gli studi che citi contengano grossolani errori computazionali e di metodo che li rendono inutilizzabili per sostenere quanto dici. Errori che l'accademia si ostina ad ignorare, ma con cui prima o poi si dovra' fare i conti.