Un settore senza concorrenza
I vertici di Poste Italiane vantano, da qualche tempo, lusinghieri risultati economici. Che vanno però esaminati alla luce della realtà in cui il moloch pubblico opera. In primo luogo, tutti ricorderanno il forte aumento delle tariffe - varato dal precedente governo Berlusconi nel maggio 2006 - che valse all'esercizio successivo un incremento dei ricavi del 3,5% a fronte di una diminuzione del 17,2% (!) dei pezzi lavorati, il che non si può certo dire sia un effetto di mercato, né derivi dall'efficacia della gestione.
Secondariamente, si nota l'aumento di peso dei clienti pubblici rispetto ai clienti privati. Ancora una volta, si tratta di una decisione politica, con la quale la consueta commistione tra controllato e regolatore-controllore - lo Stato, tramite il MEF - ha favorito il primo per opera del secondo, in qualità anche di committente: l'affidamento in house di tutta una serie di operazioni, il cui prezzo dovrebbe costituire motivo di contrattazione con diversi possibili fornitori, non si può certo immaginare sia garanzia di gestione economicamente corretta.
Infine, un aspetto fondamentale: continua a ridursi il peso del servizio di recapito - mentre aumenta la rilevanza di attività diverse - il che potrebbe spiegare un servizio di qualità insoddisfacente, ipotizzando scarsa attenzione per il core business. I numeri del bilancio 2009 - l'ultimo disponibile - aiuteranno a chiarire quest'ultimo aspetto, dal momento che il fatturato globale di 17.456 milioni di euro, è così ripartito:
7.112 milioni da servizi assicurativi
5.210 milioni da servizi postali
4.796 milioni da servizi finanziari
338 milioni da altri servizi (telefonia mobile, vendita di articoli vari, call center ed altro)
Bene, verrebbe da commentare, che male c'è a cercare ricavi con altre modalità?
Nulla, se non fosse che è opportuno considerare i privilegi legali che costituiscono un vantaggio competitivo decisivo per il successo di questa strategia di diversificazione, e che si aggiungono a tutta una serie di regole mirate: basterà citare le agevolazioni tariffarie concesse all'editoria solo se transitano attraverso il gruppo pubblico.
Si valuti, ad esempio, la divisione che svolge attività finanziarie - Bancoposta - che si configura come l'istituto più capillarmente diffuso sul territorio, non certo per abilità ed investimenti propri, bensì in virtù di un monopolio postale istituito in tempi antichi. Un attore anomalo, che agisce senza licenza bancaria - cosa che pone alcuni limiti operativi, essenzialmente l'impossibilità di investire la raccolta al di fuori dei titoli pubblici - perché, in quanto soggetto industriale, dovrebbe rispettare la preclusione a detenere oltre il 15% di una banca. Inoltre, l'esplicita garanzia statale ha fatto sì che l'attuale crisi economica sia stata occasione di business legato ad una fiducia che discende dall'assetto proprietario, anziché dal mercato. Infine, il personale delle poste è inquadrato in un contratto diverso rispetto alla concorrenza, con un costo del lavoro più basso di circa il 30%, una palese distorsione del mercato.
In conclusione, il mercato del servizio postale risulta fortemente distorto dall'intervento normativo specifico, ma pure dall'anomala possibilità offerta all'operatore dominante - di proprietà pubblica - di rafforzare la propria struttura, e finanche dall'attività di controllo non affidata - come da buone pratiche - a soggetto indipendente. La chiusura alla concorrenza risulta qui decisamente visibile, e dev'essere affermato con chiarezza che tale atteggiamento equivale, in generale, a far pagare al contribuente le inefficienze dei gestori, se pubblici, ed a garantir loro extraprofitti da rendita di posizione, se privati.
Convenienze e poteri di veto
C'è un particolare che suona assai strano, all'apparenza. Se è vero, com'è vero, che una situazione del tipo in essere penalizza la clientela, e che il servizio in esame è da tutti utilizzato e dunque la sua efficienza dovrebbe interessare ad una vastissima platea d'individui, perché mai i giornali ne parlano così raramente e con tanta prudenza? E se è vero, com'è vero, che per le imprese i costi possono essere non irrilevanti – e, comunque, ogni spesa va controllata – qual è il motivo dell'assenza di vibranti proteste di provenienza confindustriale?
Le risposte non sembrano difficili. Da un lato, si tenga presente quanto i bilanci degli organi d'informazione assurdamente dipendano dai contributi pubblici che comprendono le citate agevolazioni postali, fruibili solo attraverso Poste Italiane - di cui si è ampiamente parlatoin questo sito - la cui concessione non si vuole mettere a rischio più di quanto già sia. Dall'altro, esiste un problema di rappresentanza e di rapporti di forza che è reale e che merita un minimo di approfondimento: da tempo, non pochi associati conducono una battaglia - pare inutilmente, alla Don Quixote ….. - contro la stessa innaturale presenza in Confindustria di mega-pseudo-aziende di proprietà pubblica, che rispondono a logiche differenti da quelle proprie degli imprenditori “veri”, operando sulla base di una diversa scala di valori ed acquisendo sempre maggior potere. Una battaglia che, duole dirlo, fatica anche ad esser nota al pubblico a causa di una sorta di blackout informativo che pare discendere da un inaccettabile diritto di veto, tacitamente ottenuto da tali ingombranti realtà in virtù della massa di contributi che versano nelle casse di Viale dell'Astronomia. Un eclatante esempio riguarda il vice presidente nazionale Antonio Costato. Egli aveva, nel primo biennio di presidenza Marcegaglia, la delega all'energia che gli è stata, successivamente, tolta a motivo della sua incessante e determinata azione di denuncia degli eccessivi costi energetici legati alle protezioni di cui godono taluni grandi operatori.
Il cambiamento che verrà. Forse.
La direttiva europea 2008/6/CE del 20 febbraio 2008, che - si ricordi - impone la piena apertura delle poste alla concorrenza a partire dal primo gennaio 2011, potrebbe essere d'aiuto. In questa landa desolata, infatti, non è strano confidare in obblighi che vengan dall'esterno per superare problemi che il locale decisore politico non sa (rectius: non vuole) risolvere. Peraltro senza certezze, se si guarda al passato: nello scorso decennio il recepimento delle due prime direttive comunitarie è stato occasione, nel nostro Paese, per operare forzature atte a rafforzare il monopolio della società di proprietà del Tesoro, costringendo i competitors ad adeguarsi al ruolo di subfornitori dell’operatore dominante. Lo schema del nuovo decreto legislativo di recepimento è stato approvato dal Consiglio dei Ministri ed è in attesa di avere il parere favorevole delle commissioni parlamentari. Esso presenta luci ed ombre, perché pare che provveda ad eliminare l’area di “riserva legale” - cioè i servizi che solo Poste può esercitare - e che trasferisca tutti i poteri di regolazione e sorveglianza dal Ministero dello Sviluppo Economico ad una specifica autorità, ma che il potere ispettivo sul settore resti al ministero e che non cambi le regole del servizio universale, cioè le attività definite di interesse generale - ad esempio la consegna degli atti giudiziari - non remunerative e perciò pagate da contributi pubblici. La cosa non è banale, dal momento che fornisce a Poste un fatturato garantito e determina, così, una situazione di asimmetria rispetto ai concorrenti. Inoltre, il servizio universale comporta per il soggetto pubblico il mantenimento di una rete capillare di sportelli, che garantisce una presenza sul territorio più diffusa rispetto a chiunque altro. Infine - ed è aspetto determinante - non si ha notizia di interventi per risolvere lo status anomalo di Poste Italiane, in particolare per ciò che riguarda l'anomala attività bancaria.
Da qui all'eternità
Che fare, dunque? Liberalizzare, nel vero senso della parola. Cioè non sostituendo monopoli privati - in mano ai soliti “amici”, in una logica di do ut des - ai monopoli pubblici, come purtroppo è usualmente avvenuto in questo Paese privo di cultura di mercato, ma tutelando la concorrenza tra diversi operatori tramite un opportuna normazione. E decidendo, finalmente, che la mano pubblica debba rinunciare alla gestione diretta di attività economiche, per dedicarsi alla fondamentale attività di regolazione e controllo.
Un futuro improbabile, peraltro, in un luogo che si caratterizza per l'incessante opera di accaparramento poltrone e di protezione delle corporazioni - si veda la controriforma dell'attività forense – ma un futuro per il quale sarà necessario continuare a battersi. Da qui all'eternità.
liberalizzare.direi che servirebbe wallace per descrivere il tutto.