Riassumendo i punti di questo splendida conferenza concentrata su fatti e dati, il nostro panel dovrebbe occuparsi di “soluzioni” al “problema” della disuguaglianza. Ci troviamo di fronte ad una “soluzione”: la richiesta dalla sinistra di imposte confiscatorie su redditi e patrimoni, e l'espansione sostanziale del controllo Statale delle attività economiche.
I titoli dei giornali parlano di "tasse", ma l'agenda programmatica si estende a un'espansione di programmi governativi, salario minimo, reddito di cittadinanza, politiche dei redditi (applicate facendo i distinguo tra una miriade di categorie diverse), regolamentazione dei compensi degli amministratori, sindacati, regolamentazione delle banche, direzione centralizzata delle attività finanziarie, e via dicendo. La logica è inevitabile: se si vuole “risolvere la disuguaglianza”, allora non bisogna solo cercare di togliere soldi ai ricchi (che non sono certo felici di dar via soldi) ma bisogna anche impedire alla gente di diventare ricca in primo luogo.
Non parlo qui di “redistribuzione”, per quanto questo possa essere un sogno per molti. Un grande piano di redistribuzione non fa parte dell'agenda, anche perché non ci sono abbastanza soldi, soprattutto per affrontare la vera povertà mondiale. La triste realtà è che soldi dei governi non possono curare la povertà. Se la tassazione aumenta le entrate, é molto più probabile che queste vengano spese dal governo. Ma il punto delle tasse è livellare i redditi, non alzarli. Il presidente Obama, per esempio, chiese senza vergogna una tassazione confiscatoria per ridurre la disuguaglianza, anche nel caso in cui le tasse non aumentassero affatto il reddito del governo.
Sotto questo aspetto, ritengo sia un errore accettare che la diseguaglianza sia, per sè, un “problema” che bisogna "risolvere" e che, qualora non ci piacciano le "soluzioni" a sinistra, dobbiamo trovare “misure alternative”.
Perché la disuguaglianza è un problema?
Immaginate che in questa stanza esploda una scatola piena di soldi. Alcuni di voi beccano cento dollari, altri dieci. Stiamo tutti meglio? Se pensate che la disuguaglianza sia un “problema”, la risposta è no. Dovremmo infatti rinunciare al regalo. Ma è un argomento difficile da sostenere.
Una risposta sensata sarebbe di riconoscere che la disuguaglianza non è un problema in sè, ma che è un sintomo di altri problemi. E infatti, molte discussioni sulla disuguaglianza vanno in questa direzione. Ci sono tanti tipi diversi di disuguaglianza, e tanti diversi meccanismi all’opera. È un errore raggrupparli tutti assieme, e affrontare il sintomo comune, “disuguaglianza”, senza attaccare i problemi. È come dire che “la febbre è un problema. Quindi dedichiamoci alla riduzione della febbre".
Ma diamo uno sguardo ad alcuni di questi tipi di disuguaglianza. Il reddito lordo pre-imposte e la ricchezza dell’un percento più ricco sembra che siano aumentati negli Stati Uniti (c'è un grande dibattito sui numeri, ma preferisco considerare la possibilità che i numeri offerti siano corretti e ragionare sulle implicazioni). Anzitutto, si tratta di disuguaglianza “positiva”, “dovuta al mercato”? Steve Jobs fonda un’impresa che inventa l’I-phone, si porta a casa un centesimo del benessere da egli creato, va ad abitare in una bella casa e viaggia con l’aereo privato? Oppure è disuguaglianza “cattiva”, “parassita”, figlia di un "capitalismo clientelare", largamente dovuta a concessioni dello stato? Josh Rauh ha esposto degli argomenti molto forti a favore del fatto che questa disuguaglianza sia “di mercato”. I ricchi sono soprattutto imprenditori, di origini modeste, che hanno creato nuove aziende, e che operano in settori, come quello tecnologico, lontani dall'infulenza del governo, piuttosto che, ad esempio, nell'estrazione di risorse naturali o in altri campi notoriamente accostati all'esercizio della propria influenza sulla politica. È interessante anche notare le differenze di linguaggio. Emmanuel Saez ha parlato di quanto reddito l’un percento ”riceve”, Josh di quando “guadagna”.
Se guardiamo ai redditi medi, come ci ha detto Kevin Murphy, i cosiddetti “rendimenti sulle competenze” (returns to skill) sono aumentati. Questo fatto non ha nulla a che fare con il clientelismo. Riflette invece un naturale aumento della domanda di competenze specifiche, dovuta alla rivoluzione nelle tecnologie informatiche e alla globalizzazione. Ma come ci ricorda Kevin, i salari aumentano non solo quando la domanda aumenta, ma quando l’offerta non risponde. Perché la gente, osservando i salari offerti ai giovani laureati o a chi ha compentenze di programmazione, non risponde a questi segnali, andando alla fine a ridurre i salari di chi dispone già di queste qualifiche, e aumentando i salari del minor numero di inesperti che rimangono? Quando fu inventata l'automobile, ad esempio, i pochi meccanici non sono diventati ricchi, perché altri lavoratori hanno imparato a riparare automobili. A questo proposito Kevin individua importanti restrizioni dell’offerta: per esempio, scuole pubbliche disastrose tenute sotto controllo dai sindacati degli insegnanti, dove nessun impiegato può essere licenziato, non importa quanto incompetente. I limiti all’immigrazione dei lavoratori più qualificati riducono anch'essi l’offerta di lavoro qualificato, oltre che ridurre la domanda per lavori non qualificati, e quindi portano i rendimenti (lo skill premium) ad aumentare. Se questo è il problema, sappiamo come aggiustarlo. E la fiscalità confiscatoria non è la soluzione!
Maggiore e migliore “istruzione” è l'ovvia soluzione. Ma non dobbiamo aggregarci subito al coro di chi chiede sussidi per questo settore. I rendimenti di un istruzione sudata e scelta con cautela non sono necessariamente replicati da un’istruzione sussidiata o imposta. Una retta gratuita su tutti i corsi di laurea, l’agevolazione dei prestiti d’onore agli studenti che vanno poi a lavorare nel no-profit o nelle agenzie di stato, o aumenti della tassazione del reddito e della ricchezza inibiscono il segnale che il mercato manda di studiare informatica o economia piuttosto che storia dell’arte o letteratura. Queste politiche aumentano ulteriormente lo "skill premium". L’Arabia Saudita investe molto in "istruzione" nelle Madrase in giro per il mondo. In una conferenza in memoria di Gary Becker dovremmo tenere a mente tre lezioni: conta l'offerta, non solo la domanda; evitare di distorcere i prezzi e segnali di mercato per indurre una redistribuzione del reddito; gli investimenti in capitale umano rispondono agli incentivi. Non voglio denigrare lo studio di storia dell’arte, che mi piace moltissimo. Ma non fingiamo che vi sia un grande ritorno economico.
L’America ha un problema serio con le fasce di reddito più basse, come mostrato da “Fishtown” di Charles Murray (ndr: il riferimento è a "Coming Apart", da noi recensito qui). C’è uno strato della popolazione in cui le ragazze madri sono la normalità, i figli sono condannati a un’infanzia terribile e a una pessima istruzione, la tossicodipendenza e la criminalità abbondano. E quasi nessuno è occupato. Il settanta per cento degli abbandoni scolastici da parte della popolazione nera si traduce in un futuro di detenzione, che a sua volta distrugge le possibilità di assunzione e di matrimonio. Meno della metà di queste persone partecipano alla forza lavoro, alla ricerca di un occupazione lecita.
Tutto questo è un disastro economico, umano, e sociale. E non ha nulla a che vedere col tipo di aerei su cui viaggiano i miliardari. Ed è un disastro immune alle valanghe di denaro finanziate da uno stato i cui programmi, come ci ricorda Casey Mulligan, ne sono tanto una causa quanto una soluzione.
Globalmente, circa un miliardo di persone vivono con meno di due dollari al giorno, non hanno accesso a elettricità, acqua potabile e servizi igienici. Se ci preoccupassimo della “disuguaglianza”, dovrebbero essere i lavoratori a reddito minimo degli Stati Uniti a pagare le tasse di Piketty.
Questi casi rappresentano problemi completamente diversi. Ci sono, infatti, grandi problemi economici. Il nostro compito è risolverli. Se si risolvono, è probabile che la disuguaglianza sarà minore e, molto più importante, il benessere sarà molto maggiore, uguale o no. Ma non vedo come una “riduzione della disuguaglianza”, o decapitazione dei ricchi, abbia qualcosa a che fare con questo problema, che va affrontato.
Tipi di disuguaglianza.
C’è un aspetto intrigante della discussione: perché le voci critiche della sinistra sono così concentrate sull’un percento negli Stati Uniti, quando secondo molti indici e misure stiamo vivendo in un’epoca di grande livellamento?
La differenza di guadagni tra uomini e donne si è ristretta drasticamente, come Kevin Murphy ci ha ricordato. La disuguaglianza tra paesi, e quindi tra le persone nel mondo, si è anch’essa ridotta in maniera lampante. Un miliardo di Cinesi sono stati tirati fuori dalla miseria di un regime totalitario, e un miliardo di Indiani cominciano anch'essi a beneficiare della crescita, tirati fuori dalla miseria del "Raj delle licenze". Questi sono grandi avvenimenti per il progresso umano, e, incidentalmente, per eliminare la disuguaglianza. Certo questi paesi soffrono ancora di molti problemi, economici, politici, ambientali, e sociali. Ma l’adagio dell ’”tutto va sempre in peggio” si è definitivamente spento. Cina e India non hanno iniziato a crescere grazie a una tassazione predatoria su reddito e ricchezza, o a un aumentato intervento statale nei mercati. Piuttosto il contrario. E le zone del mondo rimaste indietro, parte del Medio Oriente, parte dell’Africa, parte del Sud America (pensate al Venezuela), non lo sono a causa degli acquisti di arei privati da parte dei miliardari statunitensi.
Molte altre misure di “disuguaglianza” sono indiscutibilmente più importanti che cambiamenti del reddito or ricchezza, riportata alle autorità fiscali e misurati da economisti come Thomas Piketty e Emanuel Saez. I consumi sono molto più livellati dei redditi. I ricchi reinvestono la loro ricchezza in nuove imprese, o la regalano (pensate alla Gates Foundation). È difficile capire come questo debba rappresentare un problema. Inoltre, i consumi sono in realtà è ancora più livellati di quanto le misurazioni ufficiali ci dicano. Si possono possedere 10 case e 20 macchine, ma si può abitarne o guidarne una sola alla volta.
Le disuguaglianze politiche, sociali, culturali, di aspettativa di vita, di salute, di status sociale, di scolarizzazione persino, sono tutte molto più basse di quanto fossero anche recentamente. (Nick Eberstat offre un piacevole riassunto in un recente editoriale del Wall Street Journal). Mark Zuckerberg indossa felpe col cappuccio blu, non porta tube nere. Ancora, si può sempre sognare un ulteriore miglioramento, ma basandoci su queste misure i fatti ci dicono che la disuguaglianza si sta riducendo, non l'opposto.
Considerate Versailles. Nessuno, nemmeno Bill Gates, vive come Maria Antonietta. E nessuno negli Stati Uniti vive come i suoi sudditi nelle campagne francesi. Nel 1960, Mao Tse Tung fece un cenno con la mano e 20 milioni morirono. Nel 1935 Joseph Stalin fece lo stesso. Nessun dei due dichiarava al fisco grandi redditi, per la quale economisti potessero misurare “disuguaglianza”. Anche i cittadini di Ferguson in Missouri, con tutti i loro problemi e le loro ingiustizie, sono più eguali adesso di quanto lo fossero nel 1950. O nel 1850.
Diseguaglianza, causa e cura di altri problemi?
Immaginate la situazione di un lavoratore nei campi di Fresno, in California, o di un giovane disoccupato nei bassifondi di Detroit. Perché dovrebbe importar loro se dieci o cento manager di hedge fund a Greenwich nel Connecticut possiedono un aereo privato? Hanno una vita difficile, e molti problemi seri. Ma in che modo rappresenta un problema nella loro vita il fatto che esiste, da qualche parte, un miliardario con un conto in banca consistente?
Ho cercato delle risposte, tra Piketty, Saez, Krugman, Stiglitz, gli editoriali del New York Times, e altri autori. Tutti riconoscono che la disuguaglianza per sè non è un problema convincente. Questo si vede nel fatto che cercano di spiegarci a lungo che la disuguaglianza è la causa di qualche altra patologia economica o sociale. Per cui, bisogna eliminare la disuguaglianza attraverso tasse e controllo statale dei redditi per risolvere questi altri problemi
Ad esempio, gli economisti di Standard & Poors hanno fatto una recente relazione sulla disuguaglianza (forse per penitenza dopo avere abbassato il rating del debito statunitense). Scrivono:
Quando prima della crisi [finanzaria, nel 2008] la disuguaglianza di reddito è aumentata, le famiglie meno abbienti hanno reagito, accumulando sempre più debito per stare al passo con i benestanti.
Su Vanity Fair, in un articolo poi diventato un libro, Joseph Stiglitz ha sostenuto un argomento simile. Secondo lui, la disuguaglianza è un problema perché produce:
un ben documentato effetto di "stile di vita" – le persone al di sotto dell’un percento cominciano a vivere sempre più al di là dei loro mezzi…
Ora capisco! Il nostro agricoltore di Fresno apprende che il numero di manager di hedge fund che volano in aereo privato è raddoppiato. Subito esce e si compra un fuoristrada che non si può permettere! Secondo Stiglitz, allora, dobbiamo falciare la disuguaglianza attraverso una tassazione confiscatoria…per incoraggiare un atteggiamento frugale nelle classi inferiori?
Se quest’argomento non facesse acqua da molte parti, se l'invidia per un consumo eccessivo fosse infatti il nostro urgente problema economico e sociale, non sarebbe molto più efficace vietare “Keeping up with the Kardashians?” [ndt: reality show incentrato su una famiglia di celebrità]. O, ancor meglio, i video di musica rap, dove il consumismo viene esaltato? Siamo d'accordo, gli Americani al di sotto dell' un percento non risparmiano abbastanza. Ma non possiamo immaginare cause più plausibili piuttosto che invidia? Non possiamo immaginare soluzioni dirette al problema? Ad esempio, non potremmo rimuovere l’enorme tassazione sul risparmio implicita nei vari programmi di assistenza sociale?
Esempio numero due. La relazione di Standard & Poors continua riassumendo un altro argomento comune: la disuguaglianza è un problema perché i ricchi risparmiano una porzione eccessiva dei loro soldi, mentre i poveri fanno il contrario. Quindi, trasferendo soldi dai ricchi ai poveri, possiamo aumentare il consumo totale, e uscire dalla “stagnazione secolare”.
Ora capisco! Adesso il problema sarebbe un eccesso di risparmio, invece che di consumo. Dobbiamo trasferire ricchezza in maniera coatta per superare questa nostra piaga nazionale della parsimonia.
Forse batto su cose ovvie, ma chiariamo i modi con cui questo argomento è incoerente. Se insufficienza di “spendere” Keynesiano è il problema di fondo di una bassa crescita di lungo periodo – e, ribadisco, "se"! – allora le tradizionali risposte Keynesiane rappresentano soluzioni molto più semplici che una tassazione confiscatoria e redistribuzione. Ragion per cui, i Keynesiani tradizionali hanno sempre sostenuto politiche monetarie e fiscali tradizionali, spesa pubblica finanziata da prestiti, non tasse, e non imposte confiscatorie. Fino a quando queste politiche non hanno iniziato ad essere di moda.
In una serie di contributi recenti al suo blog, Paul Krugman mostra evidenza empirica che pochissimi sanno quanto ricchi sono veramente gli appartenenti all'un percento più ricco. Inoltre, lamenta come i ricchi sembrano vivere su pianeta diverso da quello in cui viviamo noi. Propone quindi un'alta tassazione, per eliminare l’"esternalità" del “consumo eccessivo”.
Per favore, decidetevi! I ricchi, consumano troppo o troppo poco? I poveri mirano al benessere e spendono troppo? Oppure non hanno idea di cosa sia? Vediamo almeno che il rigore logico non frena per questi argomenti.
Infine, l’argomento più comune è che dobbiamo ridurre la disuguaglianza del reddito al fine di evitare instabilità politica. Se non eliminiamo ricchezza, i poveri si alzeranno e se la prenderanno. Come affermazione su un rapporto causa-effetto inerente al comportamento umano, mi sembra dilettantesca scienza politica, dilettantesca soprattutto agli occhi degli scienziati polici che fanno ricerca qui alla "Hoover Institution on War, Revolution and Peace". Magari i poveri dovrebbero alzarsi e rovesciare lo status dei ricchi. Ma non l’hanno mai fatto. La disuguaglianza era enorme nella tenuta di Thomas Jefferson. Ma fu lui a iniziare una rivoluzione, non i suoi schiavi. Le rivoluzioni tipicamente vengono accese dalla classe media e borghese, frustrata da limitazioni commerciali e politiche, non da invidia pura, e specialmente non da invidia verso le ricchezze, anche grandi, guadagnate onestamente.
Questi sono soltanto tre esempi tra molti, e non mi dilungherò oltre. Ma ci sono in tutti e tre delle regolarità interessanti. La risposta data è sempre la stessa: tassazione confiscatoria ed espansione della mano statale. La domanda invece, il “problema” che questa risposta dovrebbe risolvere, cambia sempre. Ogni volta che viene definito un problema -- spesa eccessiva da parte dei poveri, spesa inadeguata da parte dei ricchi, instabilità politica -- mai viene chiamata in causa la soluzione ovvia diretta al problema. Perché? Perché questi sono tutti “problemi” formulati ex-post per giustificare la risposta desiderata. Dopodichè nuove e straordinarie teorie sui rapporti causa-effetto delle politiche pubbliche vengono prima partorite e poi diffuse come dei video virali dei gatti su Youtube.
Politica e denaro
Questi autori sono tutte persone intelligenti e preparate. Sotto tutti questi argomenti ci deve essere qualcosa di sensato. Ovviamente, stiamo aggirarando l'elefante nella stanza. Proviamo a scoprire la vera questione, per trovare un terreno comune, una distanza sormontabile, in modo da smettere di parlarci l'uno sopra l'altro.
La maggior parte di questi autori spiega ben chiaramente il problema di fondo: il rapporto tra politica e denaro. Sono preoccupati che troppo denaro corrompa la politica. E per purificarla, bisogna elminare il denaro.
Questa prospettiva spiega l'ossessione sulla ricchezza dell’un percento. Il livello dei consumi o vita o salute possono essere omogenei; i rendimenti alla competenza possono essere crescuiti tra la classe media; la diseguaglianza tra Cina e gli Stati Uniti può essere stata ridotta enormemente; la crescita di lungo periodo, non la redistribuzione, può essere la sola forza che abbia mai salvato miliardi da una povertà stridente. Ma solo la relativa grande ricchezza relativa può conquistare il potere politico. Ora, per esempio, si capisce perché il lavoro empirico che ci ha illustrato Josh Rauh, documentando che l’un percento negli Stati Uniti si stia arricchendo in maniera lecita e corretta, porti la sinistra a fare orecchie da mercante. Pure i soldi meritevolmente guadagnati andranno, secondo loro, a inquinare la politica, e quindi devono essere confiscati dallo stato.
Ora, la critica a una società sempre più clientelare, sempre più alla ricerca di posizioni protette e privilegiate, sempre più controllata da estrattori di rendite ("rent-seekers"), dove contatti politici contano più che la qualità del prodotto nel successo di una impresa, ha eco sia tra i libertari e sostenitori del libero mercato che a sinistra. Le rendite di posizione ("rent-seeking") sono infatti un grosso problema. I favori e le raccomandazioni sono un grosso problema. La cattura del regolatore ("regulatory capture") è un grosso problema. Stigler ha molto su cui concordare con Stiglitz. Come hanno molto Friedman, Buchanan, e così via in tutta la scuola di scelta pubblica ("public choice").
Ma qui mi sembra si trovi l’errore più profondo. Se i problemi centrali sono le rendite di posizione date dallo stato, gli abusi di potere dello stato, che finiscono per fornire mezzi e beni ai potenti e i loro amici, come è mai possibile che la soluzione sia un maggior ruolo dello stato?
Se aumentiamo le imposte federali sul reddito fino al settanta o novanta per cento, da aggiungersi alle tasse statali, locali, sulle abitazioni, sul lavoro, sui profitti, sul valore aggiunto e così via (a una conferenza in ricordo di Becker consideriamo proprio tutte le tasse, non solo quelle che vogliamo aumentare facendo finta che le altre siano nulle), non incrementerebbe enormemente la domanda per tributaristi, per lobbisti, per inghippi burocratici, per esenzioni fiscali, per sussidi speciali, tutte cose ottenute solo grazie al passaggio di denaro sotto il tavolo per acquistarne il sostegno politico?
Se credete che favori e raccomandazioni siano il problema, perché in cima all' agenda non ci sta l'abolizione della legge Dodd-Frank e Obamacare, più di mille pagine ciascuna, con più di diecimila pagine di regolamentazione (non ancora scritta) sussidiaria, i due più grandi incentivi del nostro tempo alla connivenza tra politica e denaro? Per non parlare poi del capitalismo clientelare osceno della politica delle fonti energetiche.
Qui credo si trovi una distanza sormontabile, proposizioni ragionevoli inerenti ai fatti e ai rapporti causa-effetto su cui possiamo discutere e decidere. Stiglitz ha scritto che “la ricchezza è una determinante primaria del potere”. Stigler risponderebbe che no, il problema si presenta laddove il potere è una determinante primaria della ricchezza. Secondo Stiglitz, una volta che lo stato ha prelevato tutta la ricchezza, anche quella meritoriamente ottenuta, allora potrà ignorare chi fa la questua per favori speciali, e potrà esercitare benevolmente il suo enorme potere al servizio della gente comune. Stigler direbbe che causa e effetto agiscono al rovescio: è il potere del governo che incentiva inevitabilmente i cercatori di rendite. La sua soluzione ai clientelismi sarebbe, in primo luogo, limitare la capacità del governo di distribuire beni di ogni tipo, di annunciare tasse confiscatorie, e inevitabilmente di fare stabilire eccezioni verso i favoriti. Un sistema fiscale semplice, trasparente, giusto e moderato è il miglior modo per tenere lontani soldi e politica.
Abbiamo adesso ridotto la questione ad una semplice e argomentabile relazione causa-effetto. I guerrieri della disuguaglianza ritengono che l’innalzamento delle aliquote fiscali e una grande espansione della gestione economica da parte dello stato ridurrebbero rendite e clientelismi. Io sostengo l’opposto, come del resto fa tutta la vasta letteratura di public choice e secoli di esperienza. Ci dicono che questa volta una grossa espansione del potere statale (confiscazione di richezze, controllo dei redditi) di dimensioni mai viste dopo ill fallimento dell'Unione Sovietica (escludento almeno la Corea del Nord), risulterà in un governo che si occuperà solo del benessere della gente comune. Se l'idea è fallita ogni volta che sie è provato ad implementarla in passato, immagino, è soltanto perché la gente in carica non era stata ingegnosa e bien-pensant quanto i nostri autori.
Questo argomento me sembra la ciliegina sulla torta di tutta una serie di asserzioni dilettantesche sui rapporti causa-effetto nel comportamento umano; asserzioni su un mondo che funziona in modo opposto a ciò che è ampiamente risaputo.
Sì, i clientelismi, i cercatori di rendite, l’utilizzo del potere statale per procurare ricchezza e privilegi a sé e ai propri colleghi e familiari, sono problemi enormi; problemi che non stanno foraggiando soltanto la disuguaglianza, ma anche la povertà, la miseria, l’assenza di crescita, e l'asseza di libertà sia politica che economica. Ma la "soluzione" proposta avrà esattamente l'effetto opposto a quello desiderato, questa volta come ogni volta che sia stata sperimentata. L’Egitto non rimane povero e ineguale perché non è bravo abbastanza a prelevare ricchezza, reprimere i mercati e impedire il successo degli imprenditori.
L'agenda politica
Ma diamo pure per valido il loro ragionamento, che almeno adesso ha una certa coerenza. Alla luce del sole, fa davvero paura. Ci dicono che il governo deve confiscare la ricchezza individuale cosicché questi individui non possano influenzare la politica in un modo che non piace a loro. No ai fratelli Koch. Sì ai sindacati di impiegati pubblici. (Nota: negli U.S. questi sindacati raccolgono quote associative automaticamente, e contribuiscono alle campagne elettorali di alcuni politici, quasi esclusivamente del partito Democratico.)
Siamo finalmente d’accordo su una proposizione di causa e effetto. Sì, espandere il potere dello stato di confiscare ricchezze e controllare redditi è un modo consolidato per cementificare il potere dello stato e di coloro che lo controllano, e di soffocare il dissenso. Buona idea? Assolutamente no!
Adesso capite perché io mi ribello all’idea che la “disuguaglianza” sia un problema -- per sé, indifferentemente dalla la sua causa originaria, da combattere direttamente, e non un possibile sintomo di altri problemi -- e perché mi ribello al compito di formulare una “soluzione alternativa”. “Disuguaglianza” è diventata ormai una parola priva di significato scientifico o economico: un segnale per dire "del nostro partito”, come le parole “sostenibilità” o “giustizia sociale” (e tra le new entry,"giustizia climatica"). E osserviamo come Fondo Monetario (IMF), Standard & Poors e persino la Federal Reserve e l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sentano la necessità di saltare sul carro della “disuguaglianza”, anche a gamba tesa, senza volere entrare nel merito. Ma ha senso allora ricercare “soluzioni da libero mercato” per affrontare un termine ormai completemente politicizzato?
“Disuguaglianza” è diventato un pretesto per intrusioni infinite, insensate e controproducenti nell’attività economica. Tra le altre, tutte le distorsioni nel mercato del lavoro, dalle quali l'Italia sta cercando di liberarsi. Già il sindaco di New York De Blasio ha portato quest'idea al livello di farsa. A quanto ci dice il New York Times, la città sta definendo nuovi standard energetici per i suoi grattacieli lussuosi. E perché? Per raffreddare il pianeta di un miliardesimo di grado? Per ridurre di un nanometro l’innalzamento del mare? No, a quanto pare, la priorità è “ridurre la disiguaglianza”: la gente povera paga infatti una percentuale più alta del suo reddito in riscaldamenti.
Perché la “disuguaglianza” è così presente nei programmi politici proprio adesso? Non mi riferisco qui agli accademici. Kevin Murphy studia le determinanti dello skill premium da trent’anni. Emmanuel Saez ha dedicato una carriera a questioni di misurazione importanti, e continuerà a farlo indipentemente da quanto gli editoriali del New York Times lo applaudano o ignorino. Una generazione di economisti ha cercato di individuare le cause per le quali gente rimane intrappolata nella povertà, come testimoniato da molti altri presenti in questo incontro. Perché quindi un’attenzione politica proprio adesso? Perché per l’Amministrazione e i suoi accoliti, come Paul Krugman e Joe Stiglitz, è tutto un cinguettare sulla “disuguaglianza”?
La risposta sembra abbastanza chiara: perché non vogliono parlare di Obamacare, Dodd-Frank, salvataggi, debito pubblico, fallito stimolo fiscale, del sistema marcio su cui si fondano le politiche energetiche, del diniego di un’istruzione decente ai poveri e alle minoranze, del misero fallimento delle loro politiche per aiutare i poveri e la classe media, e soprattutto di una crescita sclerotica. Riprendere battaglie vecchie da secoli sulla “disuguaglianza” e sulla “tassazione dei ricchi”, con l’invidia sociale, è come regalare un cucciolo a una terza elementare durante l’ora di matematica: puoi star sicuro che saranno occupati fino al suono della campana.
Questo punto però, considerando anche la notoria incoerenza di idee che ci regalano i narratori della disuguaglianza politica, mi rende ottimista sul fatto che sia passeggero: emergerà un nuovo insieme di punti ad occupare il dibattito politico (infatti, dopo le recente elezione negli Stati Uniti, l'enfasi su grandi politiche anti-diseguaglianza sembra avere avuto il suo picco. L'europa ha scoperto nei primi tentativi di "austerità" costituita da aumenti di tasse su investitori e lavoro, piuttosto che da riduzione di spese, cosa succede se si cerca di tassare troppo i quadagni, e sembra poco inclinata a provarci una seconda volta).
In ogni caso, sarebbe uno sbaglio cadere nella trappola di non di dibattere sull'agenda attuale. Meglio stabilire noi la nostra agenda. Noi ci preoccupiamo del benessere. Noi ci preoccupiamo di sistemare i reali, gravi, problemi economici a cui va incontro il nostro paese, specialmente nei suoi strati più poveri. Su scala mondiale, ci preoccupiamo del miliardo di individui che vivono a due dollari al giorno, che nessun ammontare di prelievi e trasferimenti può aiutare.
Le “soluzioni”, i segreti per la prosperità e della crescita, sono semplici, ben conosciuti, e fuori moda: diritti di proprietà, rispetto delle leggi, un governo onesto, e libertà politica ed economica. Un governo decente, sì, che fornisca strade e scuole decenti e leggi necessari per il bene comune. Una tassazione confiscatoria e una grande espansione della mano pubblica non fanno parte dell'elenco delle soluzioni.
Mai avuto problemi con le disuguaglianze determinate dal merito. Le disuguaglianze determinate da un discriminante di opportunitá sono peró indifendibili.
Quand'ero un teenager il fratello di un mio amico venne assunto da una banca. L'unica ragione di questa assunzione era il fatto che il padre lavorava per questa banca, e che prepensionandosi lasciava in eredita il suo posto al figlio maggiore.
Pieno medioevo.
In effetti, in certe banche - credo le popolari - era consuetudine. Ma non parlerei di medioevo: erano accordi tra la banca ed i suoi dipendenti, per lo più anche soci e pertanto in grado di indirizzarne la governance: roba moderna.