La proposta intende conseguire il superamento del dualismo del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da una massa di lavoratori "protetti" da varie garanzie legali e contrattuali, e da una (sempre più grande) quantità di esclusi da queste protezioni, i cosiddetti "precari". Ad aggravare la situazione, secondo gli estensori della proposta, è la demarcazione demografica del dualismo: maschi e adulti con contratti stabili, donne e giovani nel precariato.
Il disegno di legge si concentra essenzialmente sulll'istituzione del "Contratto unico di lavoro", cui viene affidato il compito di eliminare il dualismo del mercato del lavoro rimpiazzando la miriade di fattispecie legali di prestazione lavorativa (ben quarantotto, a quanto pare). Questo contratto diventerebbe la forma "tipica" di prima assunzione al lavoro dipendente. Il meccanismo previsto è semplice: una nuova assunzione si articola in una "fase di ingresso", di durata non superiore a tre anni, ed una successiva "fase di stabilità". La fase di stabilità è caratterizzata dalle stesse protezioni garantite oggi ai contratti a tempo indeterminato. La fase di ingresso invece permette al datore di lavoro il licenziamento per motivi economici, ma con gradi crescenti di protezione per il lavoratore, che viene indennizzato per un ammontare pari a cinque giorni retributivi per ogni mese di prestazione. Dopo un anno, in sostanza, il lavoratore licenziato ha diritto a 2 mensilità di compenso (la legge è un po' ambigua, 5 giorni lavorativi sono una settimana, e in un anno 12 settimane sono 3 mesi, ma il documento che accompagna la legge dice 1 mese di compenso dopo 6 di lavoro, 6 dopo 3 anni). Dal punto di vista contributivo, il contratto unico prevede una graduale equiparazione delle aliquote contributive fino alla convergenza con l'aliquota applicata ai lavoratori dipendenti.
Una serie di contratti "parasubordinati" verranno considerati a tutti gli effetti contratti unici di ingresso se la retribuzione prevista è inferiore a 30mila euro lordi annui. La legge poi introduce una modifica della disciplina dei contratti a termine, che sono resi possibili solo per contratti stagionali, oppure vincolandone la retribuzione in almeno 25mila euro lordi su base annua (superiore al salario d'ingresso della carriera accademica, di 23411 euro se si conta la tredicesima). I contratti a termine vengono inoltre disincentivati con un aumento di un punto percentuale delle prestazioni previdenziali. Viene infine introdotto il salario orario minimo.
Riassunta la legge, ecco i miei commenti.
1. L'equiparazione delle aliquote contributive è cosa buona e giusta. Diverse aliquote applicate a diversi tipi di contratto non solo creano confusione e disuguaglianza, ma distorcono gli incentivi di lavoratori e imprenditori ad applicare il contratto appropriato al lavoro prestato. Da sola, questa misura dovrebbe contribuire a risolvere molti problemi. Peccato che a questa si accompagnino altre misure del cui valore non sono altrettanto sicuro.
2. La proposta non affronta il problema del diseguale trattamento in caso di disoccupazione, dovuto alla presenza della cassa integrazione. Davvero si può affrontare il problema del precariato tralasciando questo tema? Non credo, perché il problema del precariato sta tutto lì: cosa fare se e quando finisce il contratto o si perde il lavoro. Boeri e Garibaldi ne avevano parlato, Ichino pure nel suo blog. Suppongo gli estensori abbiano avuto timore dei sindacati, ansiosi di mantenere la loro discrezionalità contrattuale in sede di definizione della cassa integrazione azienda per azienda. Un po' di coraggio, cari senatori PD, non guasterebbe, tanto le elezioni le perdete lo stesso.
3. Veniamo al principio del contratto unico. In base a quale principio la proliferazione delle fattispecie contrattuali è un male? Quale sarebbe il costo della maggiore libertà di scelta? A priori, io sarei per garantire libertà di definizione delle clausole contrattuali a lavoratori e imprenditori, senza imporre vincoli legislativi se non quelli minimi che il buon senso suggerisce. Tralasciando i vincoli monetari introdotti dal disegno di legge (platealmente assurdi) - se una tipologia lavorativa richiede un periodo di prova di 5 anni (nella mia disciplina, per esempio, si ritiene comunemente che 6 anni non siano sufficienti), perché non permetterlo? L'anomalia della normativa corrente non è la proliferazione dei contratti, ma il loro diseguale trattamento fiscale/previdenziale. Tolto quello, si elimina l'incentivo a cambiare contratto per motivi diversi da quelli tecnologici, che sono perfettamente giustificabili.
4. Siamo sicuri che questa normativa eliminerà il dualismo del mercato del lavoro? Il dualismo non viene dalla proliferazione delle tipologie contrattuali del precariariato, ma dalla licenziabilità/terminabilità di un tipo di contratti, e dall'impossibilità di licenziare lavoratori coperti dagli altri. Queste caratteristiche rimangono nel contratto unico: cosa impedirà ai datori di lavoro di licenziare i propri lavoratori ogni 15 o 20 mesi, mantenendo l'armata di precari? Boeri e Garibaldi sostengono che il meccanismo di compensazione automatica disincentiva i licenziamenti. Vero, e questa dev'essere la ragione per cui è stato reso assurdamente costoso. Ma il costo di tale indennizzo su chi graverà? In un mercato caratterizzato da un notevole potere contrattuale del datore di lavoro (per motivi tecnologici non superabili legislativamente: si tratta di lavoratori con poche o nulle qualifiche) mi aspetto che l'alto indennizzo previsto per il licenziamento dei lavoratori in "fase d'ingresso" altro non implichi che salari d'ingresso ancor più bassi che altrimenti! E non di poco, vista l'entita' dell'indennizzo.
5. A meno di non voler tornare a tassi di disoccupazione a doppia cifra, il "precariato" rimarrà. Un dato troppo ignorato è che la riduzione del tasso di disoccupazione degli ultimi 10-15 anni si è accompagnata, ovunque in Europa, all'introduzione di nuove forme contrattuali. Quindi un po' di benessere queste l'hanno generato. Occorre una riflessione più approfondita sulle cause del precariato che vada oltre gli aspetti legal-contrattuali per riflettere sulle fondamenta "tecnologiche" del rapporto di lavoro. Perché i datori di lavoro non hanno incentivo a mantenere i lavoratori occupati per periodi prolungati? Ammesso che questo sia un fatto - è certamente vero in Italia rispetto a 15 anni fa, ma solo perché allora era impossibile; mi interesserebbe sapere se è vero rispetto ad altri paesi industrializzati - mi permetto di offrire alcuni spunti di riflessione.
(a) Negli Stati Uniti non si parla di precariato. Per quanto ne so esistono quasi solo contratti a tempo indeterminato, risolvibili però dal datore. I contratti a termine esistono, ma servono a poco e di essi ancor meno si parla. Cosa impedisce agli imprenditori di licenziare a destra e a manca? In principio, l'imprenditore non licenzia se il costo dell'investimento che ha compiuto nel capitale umano (addestramento, etc...) del proprio lavoratore supera il vantaggio (meno gli ulteriori costi di addestramento) del rimpiazzarlo con un altro lavoratore. Questo significa che in industrie/imprese che necessitano di apprendistato specifico del lavoratore sarà costoso licenziare, mentre in altre in cui il lavoro è standardizzato si dovrebbe osservare un turnover più frequente.
(b) Chiarito questo, non vale forse la pena di riflettere sul modello di sviluppo (implicito, non è che ce ne sia uno) adottato dal nostro paese, e capire perché a pochi imprenditori conviene assumere lavoratori per tenerseli? Quali tipi di industrie e occupazioni sono in espansione in Italia, e quali in contrazione? Quali necessitano di lavoratori a tempo stabile e quali sono compatibili con maggiore turnover? Ci sarà pure un motivo per cui il lavoro precario, nonostante la maggiore flessibilità che offre al datore, è caratterizzato da un compenso inferiore. Non ho una risposta, ma certo è un tema di riflessione importante per una seria analisi del fenomeno del precariato.
(c) Io ho il sospetto che gran parte del precariato sia creato da incentivi perversi determinati dalla legislazione fiscale e del lavoro. Ma non quelli ovvi del tipo "permettendo ai datori di lavoro un contratto a tempo determinato, questi lo usano e poi licenziano" (questo in realtà non ha nemmeno senso, gli imprenditori, almeno quelli che vogliono fare profitti, non licenziano per piacere). E nemmeno da incentivi fiscali (ovvi: se ci sono vantaggi fiscali e previdenziali all'adozione di un contratto precario, il contratto precario viene sicuramente usato). Penso piuttosto a quanto segue: impedendo ai datori di rinnovare i contratti a tempo determinato, o limitandone l'uso, o in generale prevedendo limitazioni alla durata dei contratti di ingresso o meccanismi automatici di trasformazione in contratti stabili, si generano incentivi che rendono sconveniente l'investimento nel capitale umano del nuovo assunto e l'adozione di tecnologie che facilitino la durata protratta del rapporto di lavoro. Per spiegarmi meglio, il ragionamento ipotetico di un imprenditore è questo: "Vorrei assumere un lavoratore e addestrarlo, ma se lo faccio, devo spendere X per addestrarlo e poi, fra tre anni, non posso rinnovare il contratto a meno che non voglia tenerlo a tempo indeterminato, il che è rischioso. Tanto vale quindi usare tecnologie inefficienti che non necessitino di rapporti continuativi ed aumentare il turnover dei lavoratori". Il risultato è un aumento del precariato con salari bassi. Ovviamente le scelte di investimento e di addestramento sono graduali, quindi quanto questo tipo di effetti siano rilevanti è questione empirica. Vale però il principio che così tanti vincoli alla definizione contrattuale non possono fare bene.
6. Sinora mi sono soffermato su questioni teoriche e di principio, ma anche negli aspetti concretamente numerici il disegno di legge lascia a desiderare. Davvero si vuole imporre un costo di licenziamento di 6 mesi in 3 anni? Fa venir voglia di fare il contrattista di carriera. E il vincolo minimo di 25mila euro annui per i contrattisti a termine? Nel panorama salariale italiano sembra una cosa fuori dal mondo (come fatto notare sopra, un ricercatore universitario prende meno).
7. Mi sia consentito infine un accenno all'istituzione del salario minimo, in addizione a quello su base annua dei contratti a termine, a cui ho accennato sopra. C'entra poco con la definizione delle tipologie contrattuali, ma c'è nel disegno di legge quindi lo commento (potete trovare una trattazione più estesa in questo post di Giorgio Topa). Ritengo che combattere la povertà con queste misure sia discutibile perché (i) non cambiano la situazione di chi è senza lavoro, (ii) distruggono occupazione (i posti di lavoro che producono meno del salario minimo non vengono creati) esacerbando il problema. Sul piano puramente empirico è ben noto (mi azzardo a dire che c'è sostanziale consenso sulla cosa, esclusa forse qualche frangia) che gli effetti di queste politiche sono minimi o nulli e che, se ci sono, sono in categorie di lavoratori che non necessitano di essere protette (adolescenti con lavori temporanei, etc...).
Credo che un altro motivo per cui i lavori precari sono meno pagati sia la presenza di uno stock di lavoratori pagati più del loro valore di mercato. Ho visto spesso uffici con grosse differenze di trattamento tra colleghi "anziani" e "giovani" (uso le virgolette perchè a volte significa assunti prima o dopo una certa data) e addirittura pagare uno o due anni di stipendio oltre il TFR per liberarsi di dipendenti che ritengono obsoleti.
D'accordo su tutto, anche Lusiani sotto fa un punto simile. Difficile fare una riforma incisiva senza intaccare i diritti di chi ha certi privilegi. Non è detto che non ci si arrivi però, al diminuire del loro numero ed influenza