I contenuti del decreto. Sul piano finanziario, il decreto rafforza e attenua vincoli posti da norme precedenti. Gli atenei che impegnano sul personale di ruolo più del 90% del FFO (Fondo di Funzionamento Ordinario, ossia i soldi che lo stato attribuisce a ciascun ateneo per il funzionamento di base) sono ora sottoposti a un (sacrosanto) divieto totale di bandire concorsi e assumere personale. I vincoli sul turnover della contestatissima legge 133/08 sono stati invece attenuati: il turnover è limitato al 50% e le somme liberate devono essere destinate per il 60% a ricercatori e contrattisti e per non più del 10% a professori ordinari. L’intento, positivo, è evidentemente quello di riproporzionare la struttura del personale, dopo i massicci ingressi e le distorsioni create dai concorsi Berlinguer. Ottima, poi, è la correzione del Senato di includere nel 60% anche i contrattisti della legge Moratti del 2005: sarà interessante, qui, sapere quanti e quali atenei utilizzeranno le somme liberate dal turnover anche per contratti di ricerca. E’ facile prevedere che vi saranno scelte alquanto diverse e che molti atenei persevereranno nella pratica di sistemare subito, con un posto di ricercatore, gli allievi di qualche influente (magari solo nell’ateneo) professore ordinario.
Nella partecipata e appassionata illustrazione di Giavazzi su lavoce.info, la “vera novità” del decreto è la distribuzione del 7% del FFO sulla base dei risultati conseguiti nei singoli atenei: la qualità dell’offerta formativa e i risultati dei processi formativi, nonché la qualità della ricerca scientifica. Dopo svariati modelli teorici per la ripartizione del FFO, applicati in misura e con modalità risibili, non c’è dubbio che la decisione di impegnare il 7% del FFO sui risultati sia una vera novità. Ma la portata di questa novità è piuttosto incerta: l’attuale riferimento operativo - il modello elaborato nel 2004 dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario - misura i risultati dei processi formativi in termini di crediti formativi universitari (CFU) acquisiti. Approssimando rozzamente, si potrebbe dire in termini di esami superati. Un caveat è immediato. Attenzione: si tratta di un indicatore che non esprime impegno e qualità didattica degli atenei e che può invece sollecitare una concorrenza al ribasso tra di essi. Per quanto riguarda la qualità della ricerca, occorre ricordare che l’unica valutazione della ricerca è stata fatta dal CIVR, su impulso del ministro Moratti, per il triennio 2001-2003. Il ministro Mussi ha rallentato l’attività del CIVR e nessun aggiornamento di quella valutazione è stato compiuto. Ovviamente, molte cose succedono nell’ambito della ricerca in 5 anni. Dunque utilizzare oggi i risultati della valutazione 2001-2003 provocherà, con ogni probabilità, svariate distorsioni.
Su tutto questo il decreto non dice nulla. Stabilisce solo che le modalità di ripartizione del 7% saranno definite con apposito decreto del ministro. Vedremo dunque in seguito come l’incertezza e le attuali riserve saranno sciolte.
Sul terreno dei concorsi, a cui il dibattito di queste settimane ha dedicata tanta attenzione, non sembra proprio si sia avviata una rivoluzione. Il decreto ha solo sparigliato le carte, un risultato certamente di enorme soddisfazione ma, operativamente, dagli esiti del tutto incerti.
Vediamo meglio. In primo luogo tutte le commissioni di concorso saranno composte da ordinari, eccettuato il membro interno dei concorsi per ricercatore che può essere un associato. Le commissioni emergono da un sorteggio nell’ambito di una rosa di votati di dimensione tripla rispetto a quella della commissione. Non possono far parte della commissione professori dell’ateneo che ha emesso il bando. I concorsi per ricercatore sono solo per titoli, integrati da una discussione sugli stessi titoli. Gli atenei – modifica apportata in Senato -possono riaprire i termini per la presentazione di nuove domande sui posti banditi.
L’eliminazione degli associati e l’eliminazione delle prove scritte nei concorsi per ricercatore eliminano possibili fonti di inquinamento, e vanno dunque bene. Molto ingenua è invece l’attribuzione agli atenei della facoltà di riaprire i termini dei concorsi. La CRUI (conferenza dei rettori) si è affrettata ad esprimere un orientamento contrario, motivandolo con i contenziosi che potrebbero poi aprirsi. I ricorsi sono certo un’attività diffusa nel paese, ma si poteva realisticamente pensare che i rettori non assumessero una posizione di tutela dei propri elettori-aspiranti vincitori di concorso, e della rete di sponsor che li sostiene?
Per il resto, null’altro si può dire. Le nuove regole sostituiscono una rilevante casualità della commissione alla sostanziale determinazione della commissione ad opera delle innumerevoli cordate che si sono create sui concorsi. La casualità della commissione dà garanzia di risultati migliori? Dopo 23 tornate di concorsi fasulli, con ingressi a dir poco variegati in ogni ruolo della docenza universitaria, la casualità della commissione non dà di per sé garanzie. Potrebbe anche accadere che i risultati si rivelino migliori dove il profilo atteso era basso e peggiori dove invece si puntava in alto! Complessivamente, le disposizioni sui concorsi segnano un intervento molto modesto.
Certamente positivo è il potenziamento delle risorse per il diritto allo studio e l’istituzione di un’anagrafe nazionale di tutti i docenti universitari. Una connessione tra scatti stipendiali e produzione scientifica (i cui criteri di identificazione saranno definiti da apposito decreto) è, inoltre, timidamente disegnata. Ma, anche qui, il tema rimane molto aperto.
Concorsi e conferme. Con questo decreto, conclude Giavazzi, “abbiamo fatto passi da gigante verso la fine dei concorsi”. I passi in questione, dal testo del decreto, mi sfuggono e non capisco bene l’ottimismo di Giavazzi. Personalmente, poi, credo che il nostro sistema universitario non possa ancora sbarazzarsi di concorsi e di regole per gestirli. Ma questo è un altro discorso.
Il punto che va sollevato con tutta la forza è la necessità di limitare i danni delle regole oggi in vigore. Sotto questo aspetto, il decreto fa ben poco. E’ una troppo piccola soddisfazione rincuorarsi con una prossima fine dei concorsi, tralasciando che vi sono alle porte quasi quattromila nuove idoneità per posti di professore, attribuite con concorsi la cui capacità di selezione rimane molto incerta, o tralasciando i corposi ingressi di ricercatori legati alla prima annualità del piano straordinario per i ricercatori del novembre 2007 e la circostanza che l’accesso a questo ruolo è stato, fino ad oggi, troppo spesso sottoposto al solo vaglio che un professore ordinario fa di un proprio allievo.
Fino ad oggi, non sono state toccate le regole sulle conferme in ruolo, a cui ogni vincitore di concorso è sottoposto dopo un triennio di prova. Chi vive in università sa bene che i giudizi di conferma si risolvono molto spesso in una pura formalità. L’attuale decreto non fa alcun riferimento al tema e nessun pronunciamento da parte di coloro che in qualche modo lo hanno ispirato vi è stato. Considero francamente inspiegabile tutto ciò.
Io ho più volte proposto due correzioni. La prima: abrogare una vecchia norma che stabilisce la dispensa dal servizio dopo due giudizi negativi, ammettendo il mantenimento del ruolo inferiore acquisito o predisponendo un qualche altro paracadute per ricercatori non confermati; la seconda: eliminare la designazione della commissione di conferma attraverso un sorteggio ed aprire tale designazione ad apporti stranieri.
Tecnicamente, non è forse facile fare queste correzioni. Ma, in particolare, la designazione della commissione potrebbe dar luogo a una innovazione straordinaria per il nostro sistema di selezione, della cui debolezza le regole attuali sono parte integrante.
E’ possibile avere un qualche sostegno alla proposta di unire subito al decreto Gelmini, che poco può garantire sui concorsi in atto, una modifica delle conferme in ruolo, assai più efficace e meno aleatoria nel garantire la qualità della selezione?
Per quanto riguarda le commissioni di conferma, se un inetto viene confermato, sono tutti contenti e nessuno protesta. Se un inetto non viene confermato, apriti cielo, quantomeno ci scappa il ricorso al Tar. Non c' è equilibrio nel nostro sistema istituzionale fra interesse privato e interesse pubblico. Il primo prevale sempre o quasi sempre, anche perchè il perseguimento del primo e non del secondo è compatibile rispetto agli incentivi. Una chiara dimostrazione di questo è in quello che segue. Sono stato membro di un' infinità di commissioni di conferma, sicuramente parecchie più di cento, tenuto conto di quelle di conferma dei ricercatori. Non in un sol caso mi sono trovato con un candidato per cui il giudizio della struttura di appartenenza fosse men che positivo. Tutti bravi, tutti assidui, tutti lavoratori? Assolutamente no. Ma qui entra in campo la differenza fra osservare e verificare. So che Tizio è inetto, è noto che fa delle pessime lezioni, che è assenteista e di scarsa serietà nei comportamenti accademici (poniamo, passa tutti con voti alti indipendemente da quello che sanno, per rendersi popolare con gli studenti a garanzia di copertura dei comportamenti di cui sopra). Ma come faccio a dimostrarlo? Se ne parlo in consiglio di facoltà non solo mi attiro l' ostilità omertosa dei colleghi ("cane non mangia cane" e poi se passa tutti va bene, favorisce la produzione di laureati o magari dei crediti, il nuovo indice di successo di cui si parla nel contributo della collega), ma anche eventuali azioni giudiziarie dell' interessato. Per cui non ne faccio di niente. Ergo: tutti i giudizi di dipartimenti e facoltà non valgono la carta su cui sono scritti. Si tratta di una semplice ritualità, così come gli esami e i crediti di cui sopra e, apparentemente, nel loro complesso, i giudizi di conferma. Come cambiare? Per esempio, con un meccanismo per cui al posto della conferma ci sia l' avanzamento nella carriera, non con idoneità, ma a numero chiuso,poniamo una certa proporzione degli aventi titolo. Qualunque idoneità a numero aperto va incontro ai problemi di cui sopra, come nel famiglierato caso dei giudizi per il passaggio in ruolo degli incaricati negli anni ottanta.