A novembre si vota. Tutti sanno che si vota per le elezioni americane. Pochi sanno che in Italia si vota per l'elezione delle commissioni per i concorsi per ricercatori e professori (di prima e seconda fascia).
Il Ministro Mussi, prima di passare la mano al Ministro Gelmini, ha consentito che le Università bandissero 2 mila posti da ricercatore (divisi tra il 2007 e il 2008) e 1800 da professore di prima e seconda fascia. Per ciascuno di questi concorsi, i docenti del relativo raggruppamento disciplinare devono votare per eleggere i membri della commissione giudicatrice (per circa 1800 dei 2000 concorsi da ricercatore si è già votato a luglio). Un professore ordinario, uno associato e un ricercatore per i concorsi da ricercatore - 3×2.000 = 6.000 commissari da nominare (o già nominati a luglio). Tre ordinari e due associati per i concorsi da associato e cinque ordinari per un posto da ordinario - 5×1800 = 9.000 commissari da nominare. In ciascuna commissione c'è un membro interno, nominato cioè dall'Università che bandisce il concorso. Gli altri membri sono eletti dai docenti del gruppo disciplinare. Da un concorso per ricercatore esce un vincitore secco che diventa - salvo un giudizio di conferma del tutto formale dopo tre anni - tenured, cioè con un posto a vita. Da ogni concorso per professore escono due idonei, uno dei quali viene chiamato dall'Università che ha bandito il concorso e l'altro può essere chiamato da qualunque università che abbia a disposizione un posto di quella fascia ed in quel raggruppamento disciplinare.
La prima osservazione è che i concorsi banditi sono proprio tanti, dato che l'intero organico dei docenti dell'Università italiana è di circa 62 mila. Perchè così tanti posti banditi? La ragione, almeno per i posti da professore, è che ci si aspetta che questi siano gli ultimi concorsi con la doppia idoneità. Perchè è così importante la doppia idoneità? Perchè consente scambi poco virtuosi. ll professore X, che ha un candidato interno A scarso, chiede al Professor Y, che ha un candidato B bravo (o scarso anch'egli!) di entrare in commissione e promuovere entrambi i candidati. Se tutto va bene, si hanno due nuovi professori, uno bravo e uno no. Se va male, ne abbiamo due scarsi. Ovviamente questo non vale per tutti i concorsi e per tutti i commissari. Ci sono concorsi che sono aperti e ci sono commissari che premiano solo il merito. Ma il rischio che questa tornata di concorsi si tramuti in una massicia immissione di docenti il cui titolo di merito principale è la fedeltà a qualche cordata di potere, esiste. Questi sono posti che bloccheranno per molti anni l'accesso ad altri candidati, magari migliori.
La seconda osservazione è che questi concorsi rivelano la demenzialità del sistema concorsuale: 15mila docenti su un totale di 62mila saranno impegnati come commissari. Facendo l'ipotesi che ad ognuno dei circa 1800 concorsi per associati/ordinari partecipino una media di 5-10 persone occorre aggiungere 9-18mila "concorsanti". Quindi un numero che oscilla fra i 24mila ed i 33mila docenti, su un totale di 62mila, potrebbe, in teoria, essere impegnato, simultaneamente, in attività concorsuali! È vero che una stessa persona potrebbe essere commissario in più concorsi (sino ad un massimo di tre se ordinario, e di due se associato) e che ciascun candidato può partecipare a 5 concorsi, il che ridurrebbe notevolmente il numero totale di persone impegnate ma, ovviamente, aumenterebbero le opportunità di condurre operazioni di "arbitrage" concorsuale ... A questi vanno aggiunti i candidati al posto da ricercatore: un'orgia di carte bollate, raccomandazioni, esami, esamini, esamoni, graduatorie, telefonate, confronti, strizzatine d'occhio, inviti a cena, offerte implicite o esplicite di favori futuri per favorini presenti, riconoscenze ricordate ed antiche offese rinverdite ... e via elencando.
La terza osservazione è che - alla luce di questo concorso e di quanto è stato documentato (qui e qui, oltre che alla parola università più in generale) in relazione al "promozionismo generalizzato" che ha caratterizzato l'università italiana nell'ultimo decennio - si finisce per rendere meno comprensibili le proteste contro il tanto controverso blocco del turnover previsto dalla legge 133/2008. Certamente, si tratta di una classica manovra "alla disperata" tesa a frenare la valanga quando essa sta già rotolando rumorosamente a valle. Certamente, come sempre avviene in Italia, si legifera e si "riforma" solo in condizioni d'emergenza e per bloccare o limitare dei disastri già fatti, con provvedimenti tampone che mancano di lungimiranza e non risolvono quasi mai il problema. Ma è anche vero che, di fronte alla grande italica abbuffata avvenuta sino ad ora ed il cui mega-dessert consiste nei 4000 concorsi, lagnarsi perché mancano le risorse per il personale appare, come minimo, incoerente.
A fronte di tutto questo, cosa si può fare? Più in generale, cosa ci aspetteremmo dal Ministro Gelmini per una riforma dell'Università, blocco del turnover a parte?
Bloccare i concorsi?
Più facile a dirsi che a farsi. Sia un approccio radicale che un altro, più minimalista, appaiono giustificabili.
Chi sostiene l'approccio radicale pensa che il Ministro debba fermare queste procedure concorsuali (non essendo giuristi non sappiamo, però, se ciò possa essere veramente fatto anche se, cambiando un numero sufficiente di leggi, supponiamo sia possibile ...). All'obiezione che il blocco sarebbe ingiusto, perché ferma la carriera ai candidati bravi che hanno la legittima aspirazione ad essere promossi, risponde che non si tratta di bloccarli per sempre ma solo per sei-dodici mesi: il tempo di cambiare radicalmente le modalità con cui tali concorsi si debbano svolgere. Però non illudiamoci. Trovare modalità alternative per i concorsi in un sistema universitario in cui mancano gli incentivi appropriati non è per niente facile. Il ritorno ai concorsi nazionali, visto da molti come la panacea dei mali dell'università italiana, sarebbe, in larga parte, solo demagogia. Chi lo sostiene sembra non ricordare gli esiti prodotti nel passato. Telefonate di pressione sui commissari, scambi fatti sulla pelle dei candidati meno protetti, capi-cordata nazionali che gestivano svariati posti simultaneamente, tempi biblici per gli inevitabili ricorsi. Vi era poi il fenomeno dei vincitori "metropolitani" che andavano nelle sedi "periferiche" per (almeno) tre anni cercando di starci il meno possibile. Programmavano lezioni a settimane alterne, facendo 20 ore in una settimana per un semestre e poi sparivano per il resto del tempo. Stupisce che questa sia ora ricordata come l'età dell'oro. Insomma, se l'ipotesi di bloccare questi concorsi ha senso, lo ha solo se il ministro intende riformare rapidamente e radicalmente non solo il meccanismo concorsuale ('ché da solo non ne vale la pena) ma anche l'intero sistema di incentivi dell'università italiana. Come? Su questo torniamo alla fine, nella vaga speranza che il ministro tale intenzione ce l'abbia, nel qual caso bloccare i concorsi non sarebbe un'idea folle.
Un approccio più minimalista - basato sull'ipotesi che il ministro non abbia alcuna intenzione di alterare radicalmente il sistema di incentivi interni all'università e che occorra, quindi, "arrangiarsi" - è quello di cercare di minimizzare i danni alzando i requisiti di trasparenza. Due semplici proposte.
La prima è quella di replicare per tutte le discipline l'analisi che Roberto Perotti è andato facendo, nel suo bollettino dei concorsi, per economia. Questo dovrebbe avvenire in due momenti. A novembre, appena note le commissioni, si dovrebbero analizzare e rendere pubblici i titoli scientifici dei commissari, segnalando i casi patologici ed anche quelli dubbiosi. Negli anni passati ci sono state intere commissioni senza pubblicazioni di rilievo su riviste nazionali o internazionali. Per alcuni settori è (relativamente) facile classificare le pubblicazioni secondo la loro qualità. Per altri settori, quelli intrinsecamente meno aperti alla dimensione internazionale (es., Letteratura italiana o Diritto Romano) questo strumento sarà purtroppo poco efficace. Non importa: piuttosto di niente, meglio piuttosto. Non solo, oltre a fare le pulci scientifiche ai commissari sarebbe il caso di chiedere una pubblicazione in rete, sede per sede, dei concorrenti, con relativi CV allegati. In un secondo momento, noti gli esiti dei concorsi, si dovrebbero analizzare le graduatorie per identificare casi di palese violazione dei criteri di meritocrazia, e di competenza. Abbiamo aggiunto anche "competenza" perché, data la situazione in essere, non è improbabile che a molti concorsi si presentino solo candidati "invitati", il che vuol frequentemente dire "incompetenti". Si tratta, quindi, di verificare non solo che vinca il migliore ma anche che il vincitore soddisfi criteri minimi di competenza nell'area di studio in questione. La seconda proposta è quella di chiedere ai presidi ed ai direttori di dipartimento che, una volta terminato il concorso e prima di proporre la chiamata di un associato o ordinario, chiedano, a tre/cinque esperti internazionali delle materia privi di relazioni con l'università in questione, delle lettere di valutazione del prescelto. A tal scopo, organizzazioni come ISSNAF potrebbero risultare molto utili a quei presidi o direttori di dipartimento che volessero impegnarsi nell'operazione trasparenza.
Sappiamo che si tratta di iniziative minimaliste che avranno pochi effetti reali. Sappiamo che, persino queste, sono forse irrealizzabili dato il numero dei concorsi: ci sarebbe bisogno di un paio di migliaia di colleghi distribuiti nelle varie discipline, che passassero vari giorni a lavorarci sopra ... se qualche fondazione convinta che la meritocrazia è buona cosa ci legge, potrebbe pensare di finanziare e coordinare il progetto. Sappiamo che ci sarà sempre il collega di qualche oscura (e a volte anche meno oscura) università straniera disposto a giurare che siamo in presenza di un eccellente ricercatore anche se il soggetto non ha scritto niente che sia degno d'esser letto. Ma almeno in alcuni casi le lettere potranno servire da filtro, seppur grossolano. Insomma, se niente altro può essere fatto, che almeno si renda il più trasparente possibile lo standing scientifico di chi giudica e di chi è giudicato in questi concorsi. Forse l'approccio minimalista sopravvaluta l'efficacia delle sanzioni sociali sui comportamenti dei commissari e dei dipartimenti, ce ne rendiamo conto. Se altri hanno proposte più incisive, questo è il momento per avanzarle.
Non di soli concorsi muore l'università
I concorsi non sono l'unica emergenza sul tappeto. Un'altra priorità è quella di allocare meglio i fondi tra le varie Università. A questo proposito si potrebbe usare la valutazione fatta dal CIVR per allocare ai vari dipartimenti una quota rilevante dei fondi di ricerca (60-70%, forse anche di più visto che i fondi per la didattica fanno comunque la parte del leone e sono allocati sulla base della spesa storica) e, soprattutto, iniziare subito la procedura per una nuova valutazione del CIVR visto che quella esistente è oramai "datata". Le valutazioni vanno fatte frequentemente perchè i Dipartimenti cambiano composizione e cambiano anche le pubblicazioni dei loro membri. Anche in questo caso sarebbe opportuno avvalersi di esperti internazionali scelti in maniera meno "teleguidata" di quanto non sia avvenuto nella tornata precedente. Il problema da risolvere, qui, è quello della selezione internazionale di persone che abbiano sia la capacità che gli incentivi per essere ferreamente obiettivi. Problema non semplice. Un criterio di partenza potrebbe essere quello di coinvolgere direttamente le accademie delle scienze di vari paesi (USA, UK, Francia, Germania, Giappone ...) chiedendo loro di nominare i loro esperti. Occorre poi anche compensare queste persone adeguatamente ...
In secondo luogo: è ora che dal ministero arrivino proposte di modifica dei parametri salariali e dei criteri di promozione, modifiche che permettano di legare il salario al merito. È improrogabile cominciare a legare la remunerazione dei docenti alla loro produttività didattica e scientifica. Magari inizialmente gli incentivi saranno, dati i problemi di bilancio delle Università, di piccola entità. Ma meglio poco che niente. Non vi è altra alternativa, signora Ministro: l'università italiana è piena di ordinari che pubblicano finti articoli su finte riviste scientifiche e percepiscono il medesimo identico stipendio di persone che sono in corsa per il premio Nobel o che lo hanno mancato, giusto quest'anno, d'un soffio. Questo scandalo va affrontato ed eliminato. Altrimenti parlare di meritocrazia è una burla.
Bisogna anche iniziare a programmare lo sfoltimento dei corsi di laurea e di dottorato inutili. Prendiamo i dottorati. Nella maggior parte delle università italiane l'insegnamento nei progammi di dottorato non viene considerato nel monte ore dei docenti e non è prevista una compensazione monetaria per le attività didattiche ad esso collegate. Tutto è lasciato alla buona volontà. Il risultato è che si hanno programmi di dottorato con tanti piccoli moduli di 10-15 ore spesso scollegati tra di loro e quindi del tutto inutili per gli studenti. Meglio sarebbe allora usare i fondi delle misere borse previste per gli studenti di dottorato per creare poche generose borse di studio per finanziare la frequenza di un buon programma di PhD all'estero. Bisognerebbe poi proibire che le sedi che organizzano i programmi di dottorato possano assumere come ricercatori i loro studenti. E, dopo tale provvedimento, analizzare la collocazione professionale degli studenti per arrivare a chiudere i programmi che non portano a nulla. Il dottorato non può essere un parcheggio post-laurea ed uno strumento per creare un "esercito di ricercatori di riserva" che regolarmente preme per farsi assumere con concorsi-mostro come quello che inizia in questi giorni.
Perché l'università viva invece di sopravvivere
Occorre andare oltre i provvedimenti d'emergenza costruiti a pezzi e bocconi, come quelli che anche questo ministro sembra intenzionata ad adottare. Il cerchio-bottismo - ossia: concorsi per 4000 e poi blocco del turn-over; creazione delle fondazioni e poi "perequazione" con i soldi pubblici che vanno agli incapaci; dichiarazioni d'intenti favorevoli alla meritocrazia seguite da nessun atto legislativo che la realizzi - il cerchio-bottismo, dicevamo, non porta lontano e non serve all'università. Ha fatto anche il suo tempo perché non ci crede più nessuno: o si rompe in modo verticale con il passato, o non c'è via d'uscita.
L'università italiana non uscirà dallo stato di coma profondo in cui si trova senza uno shock traumatico; questo shock traumatico può venire solo dall'autorità politica che la regola, e che artificialmente alimenta questo corpo altrimenti comatoso. A nostro avviso la situazione oggi permette e richiede tale shock. Su come il ministro Gelmini potrebbe, se volesse, realizzarlo, ci torniamo la settimana prossima. Dopo le due elezioni, quelle del presidente USA e quelle dei commissari italiani.
Ecco un'idea. Pilotare la composizione delle commissioni, e quindi influenzare l'esito di un concorso secondo criteri arbitrari, e' possibile perche' a occhio e croce non piu' di un quinto degli elettori vota. Entrambi i seguenti meccanismi possono ridurre considerevolmente questo potere: (1) estrarre a sorte i componenti delle commissioni dalle liste degli eleggibili; (2) rendere in qualche modo obbligatorio il voto.
Se non l'hanno fatto adesso non lo faranno mai. La legge 133 era l'occasione per mandare almeno il seguente segnale: vogliamo tagliare e lo faremo, pero' non tagliamo uniformemente; per dimostrare che veramente crediamo nella meritocrazia applichiamo l'unico criterio di merito scientifico che abbiamo, cioe' le valutazioni CIVR. Si poteva fare senza nessuna difficolta' visto che il governo aveva adottato la linea dura. Questo era il segnale da dare, e avrebbe generato un po' piu' di consenso. Grossa occasione persa. Era quello che si chiedeva nell'appello meritonella133.