Breve storia degli ultimi dieci anni
La riforma Gelmini giunge dopo diverse trasformazioni dell’università italiana negli ultimi anni, alcune buone, altre pessime. Ricapitoliamo. Il ministro Moratti fece tre innovazioni importanti. Avviò la valutazione sistematica della ricerca con un organismo di qualità, il CIVR, che aveva questa valutazione come compito istituzionale. Eliminò le due idoneità dai concorsi e tornò al vincitore unico. Infine, soppresse il ruolo di ricercatore sostituendolo con contratti triennali rinnovabili.
Il ministro Mussi è stato la controriforma: ha fermato la valutazione, ha reintrodotto le due idoneità (con un consenso politico purtroppo pressoché unanime) e ha avviato una disciplina diretta a correggere i pasticci fatti dalle facoltà sui corsi di laurea, con l'unica idea che sarebbe stato possibile avere buone lauree semplicemente imponendo vincoli di natura quantitativa alle facoltà. Il ministro Gelmini ha continuato la controriforma Mussi: ha mantenuto per due anni ferma la valutazione (il CIVR è stato riattivato solo pochi giorni fa), ha rafforzato ancora i vincoli sui corsi di laurea e soprattutto ha avviato un'ampia riforma – l’attuale disegno di legge - basato sull’idea che si possa riformare l’università pensandola come una azienda che produce educazione terziaria. Coerentemente con l'idea dell'università come azienda, si dà peso al manager dell'impresa puntando al rafforzamento del governo centrale delle università e in particolare del rettore.
La linea dei due ultimi ministri avrà conseguenze pesanti per l’università. Vediamo perché, iniziando dal problema vero, che non è una didattica scadente, ma una ricerca debole.
L’università italiana oggi e fra dieci anni
La situazione dell’università italiana già oggi, rispetto a tutti gli indicatori significativi, è preoccupante. Per gli indicatori, la scelta possiamo lasciarla al lettore, uno qualunque di quelli che la comunità internazionale accetta come misure fedeli di qualità va bene. Per esempio, il numero di citazioni in uno qualunque degli indici disponibili. Il numero di pubblicazioni in riviste peer-reviewed, le prime dieci di ogni disciplina. Il numero di grants ottenuti in competizioni internazionali. Il numero di studenti di dottorato di paesi stranieri che vengono a studiare in Italia. La posizione in una delle tante classifiche delle università mondiali. Una qualunque di queste misure, o una media ponderata. Il risultato sarà sempre lo stesso. Guardiamo a quelli più significativi. Per numero di articoli scientifici pubblicati per abitante (dati Eurostat, 2005) l’Italia è sotto alla media europea, insieme a Spagna, Grecia, Repubblica Ceca, Ungheria. Sopra la media ci sono paesi che sembra naturale aspettarsi: Svezia, (circa tre volte il nostro numero), Danimarca, giù fino a Belgio e all’Austria (che ne hanno un terzo più di noi). La percentuale dei brevetti all’Ufficio Patenti USA ci vede con meno di un punto percentuale (0.77, per la precisione: Taiwan da solo ne ha più di 4, il Giappone 18). Quel che è peggio, questo indicatore sta peggiorando: siamo scesi dal 1995, e ci hanno superato paesi piccoli come l’Olanda e Israele. Questi dati concordano con i risultati dell’Academic Ranking of World Universities, dove le università italiane non hanno prestazioni eccellenti, che danno circa l’80 per cento del peso a indicatori di qualità della ricerca.
Facciamo ora una predizione facile: con la riforma Gelmini, l’università italiana fra dieci anni sarà, rispetto a quegli indicatori, in una situazione di gran lunga peggiore di quella attuale. Più precisamente, saremo di gran lunga al di sotto degli altri paesi europei, come Inghilterra, Germania, Francia, a grande distanza dagli Stati Uniti, con una distanza sempre più breve dai paesi emergenti come la Polonia, che potrebbero addirittura averci superato.
Il DDL e il dibattito in Senato
La ragione per una predizione che sembra pessimistica, ma è solo realistica, è semplice. Il disegno di legge e il dibattito che lo ha seguito hanno sempre ignorato la questione fondamentale da affrontare. Ricordiamola. L’università è il luogo ideale dove si svolgono didattica e ricerca. Una università eccellente eccelle in tutti e due. Ma la didattica non può trainare la ricerca, mentre la ricerca può trainare e traina la didattica. Stiamo parlando qui di un sistema universitario, non di una singola istituzione. Chi indica i colleges inglesi (anche i più prestigiosi) come il luogo in cui la didattica eccelle perché i docenti seguono one-to-one and face-to-face gli studenti non capisce due principi fondamentali.
Il primo è questo: nei colleges di Cambridge (come King’s o Trinity: i classici colleges) si fa didattica, non si fa ricerca. I tutors che insegnano a stretto contatto con gli studenti non sono i ricercatori prestigiosi e non sono quelli che fanno la qualità dell' Università di Cambridge. Questi sono nei dipartimenti, nei laboratori, nel Downing Site, nel New Cavendish. Quando vanno nei colleges è per andarci a cena, o a dormire se han deciso di viverci. L'impulso e lo stimolo della nuova ricerca si trasmette dai dipartimenti ai colleges, e per questo, solo per questo, l'insegnamento nei colleges è nuovo, vitale, eccitante. Chi indica i colleges come esempio da seguire conferma in modo drammatico la incomprensione alla base del fallimento della nostra università. Chi indica il problema della università italiana nella facilità ad iscriversi e difficoltà a laurearsi (un esempio è qui) sta ancora parlando della didattica. Cercare di curare questi sintomi preoccupanti significa appunto curare i sintomi, perdendo di vista il vero male, che è un altro. L’università vive se è il luogo di produzione di ricerca eccellente. La legge che si sta realizzando manca questo punto fondamentale, e condanna l’università italiana a un futuro di secondo ordine. Così come non abbiamo una industria elettronica (e biologica, e tante altre) non avremo neppure una università eccellente.
Il secondo è che una differenziazione nel livello di qualità delle istituzioni universitarie è non solo un bene, è una condizione essenziale per il buon funzionamento dell' intero sistema universitario. Intanto c'è una divisione delle competenze. Dei migliori undergraduate colleges negli Stati Uniti, come Oberlin, Carleton, Williams, Wellesley, nessuno in Italia ha sentito parlare, perché appunto quelle istituzioni privilegiano l'insegnamento. Ma c'è anche una differenza di qualità, che si rispecchia in una differenza di prezzo. L'idea che ogni università debba essere di ottima qualità è una affermazione di principio tanto dannosa quanto assurda. Pensate: ogni macchina deve essere di ottima qualità, ogni paio di scarpe dev'essere di ottima qualità, ogni film o romanzo deve essere di ottima qualità, ogni albergo deve essere di ottima qualità ... Le università invece sì, chissà perché.
Il decreto legge è la traduzione in legalese di questa incomprensione. Perché esso manchi questo punto fondamentale lo abbiamo già detto in diverse sedi, per esempio qui, ma ci torniamo volentieri sopra. Il disegno di legge ha due elementi fondanti: il primo è un rafforzamento della governance centrale, puntando a rafforzare i già notevoli poteri di fatto del rettore. Il secondo è una apparenza di democrazia, basata su un Consiglio di Amministrazione non elettivo e che diviene l’unico organo deliberante dell’ateneo e su una consistente presenza nel CdA, almeno il 40%, di membri esterni all’ateneo. Questa struttura allarga i rischi delle gestioni clientelari che vediamo in azione ogni giorno. Invece gli incentivi, in particolare quelli alla ricerca che dovrebbero essere l'asse portante, sono rinviati a decreti del governo senza che il disegno di legge fornisca direttive precise e vincolanti. In sintesi: la riforma applica all’università una sorta di modello di centralismo democratico, centrato sulla figura del rettore.
Gli emendamenti del relatore e quelli dell' opposizione
Gli emendamenti del relatore Valditara attenuano la democrazia - e questo non è un male perché è democrazia puramente fittizia - e inaspriscono il centralismo - e questo è un male poiché il centralismo nel disegno di legge non ha nulla ha che fare con un ammodernamento del sistema, non ha nulla a che fare con ciò che realmente serve, e cioé un accettabile sistema di incentivi. Per il primo aspetto, gli emendamenti Valditara rinviano sostanzialmente alle sedi la decisione sull’inclusione o meno del personale tecnico-amministrativo nell’elettorato attivo per l’elezione del rettore. Per il secondo aspetto, gli emendamenti Valditara richiedono l’autorizzazione del rettore perché i docenti possano svolgere attività di didattica o di ricerca esterna all’ateneo, e attribuiscono al rettore l’attivazione di provvedimenti disciplinari nei confronti dei medesimi. Queste innovazioni non sono esattamente efficienti, anzi sono pericolose in un contesto in cui il rettore è eletto da tutti i docenti, come prevede il disegno di legge. Il PD accetta l’impianto della riforma e propone solo di dosare in modo un po’ diverso centralismo e democrazia, conferendo un maggior ruolo al Senato Accademico.
Vediamo ora i dettagli della questione.
Il rapporto fra dipartimenti e facoltà
Iniziamo con una nota positiva. Nel disegno di legge c’è una innovazione buona e importante: le chiamate di nuovi professori, che oggi sono fatte dalle facoltà, verrebbero affidate ai Dipartimenti. Solo le proposte di chiamata, ma è già qualcosa. Ma le relazioni tra dipartimenti e facoltà, e il modo in cui verranno istituiti nuovi posti di ruolo, sono punti oscuri nel disegno di legge e non vengono toccati negli emendamenti. Valditara va incontro alle facoltà, ossia al mantenimento dello status quo, stabilendo semplicemente che le facoltà di un ateneo non possano essere più di dodici. Il suo emendamento attenua il vincolo della stesura originaria del ddl, che prevedeva un numero di facoltà proporzionato alle dimensioni dell’ateneo. Noi vediamo all’orizzonte lotte e impegno straordinari nei nostri atenei per, nella sostanza, semplici permutazioni di nomi. Ce ne era bisogno?
Gli incentivi
Il decreto attribuisce al Governo deleghe per l'emanazione di decreti su cinque ambiti diversi. Valditara non tocca la prima delega che è quella relativa agli incentivi. Ed è un male, perché questa delega, pur stabilendo criteri, li formula in modo genericissimo e dunque non fornisce alcun indirizzo per l’elaborazione di uno schema di incentivi. Valditara si occupa invece della delega relativa alle attività del personale docente. Propone di annullarla e che il ddl formuli direttamente regole sul tema: lo stato giuridico dei docenti. L’idea di Valditara è che solo le università hanno competenza a valutare i propri docenti e le valutazioni dell’ANVUR dovrebbero essere fatte al solo fine di permettere o meno la partecipazione dei docenti a commissioni di concorso. Per l’ANVUR, l’emendamento Valditara indica come criterio di valutazione la presenza continuativa nel dibattito scientifico, attestata da pubblicazioni su riviste accreditate. Niente altro. D’altro lato i docenti sono valutati dalla propria università per lo scatto di stipendio. La valutazione è una valutazione "del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale". Con uno spettro di parametri di valutazione così ampio ci sarà sempre il modo di promuovere tutti, e magari chi è più allineato alla governance del momento.
Che fare
Per tutelare la ricerca il disegno deve realizzare alcune semplici ma fondamentali condizioni. Per prima cosa, occorre rafforzare il CIVR, come organo con il compito esclusivo di valutazione della ricerca. Sulla base delle valutazioni del CIVR si deve disegnare un sistema di incentivi adeguato a stimolare la ricerca dove è possibile.
Il disegno di legge dovrebbe enunciare chiaramente l'obiettivo a regime della quota del finanziamento degli atenei che va alla ricerca nonché il piano per raggiungere questa quota. Il disegno deve anche stabilire come questa quota debba essere amministrata, e c'è un solo modo per farlo bene. Siccome il luogo di produzione della ricerca sono i dipartimenti, i dipartimenti devono anche essere i destinatari principali di questa quota, in base alla qualità e quantità della ricerca prodotta. L’intervento dei singoli atenei in questa allocazione deve essere il più possibile limitato: le mediazioni dei rettori e dei CdA vanno ridotte al minimo.
Infine, va affrontata seriamente la questione degli incentivi personali ai ricercatori: il decreto deve stabilire che parte di questa quota debba contenere anche incentivi personali per i ricercatori. Ossia: aumenti di stipendio e stipendi differenziati a seconda della qualità e quantità di ricerca prodotta. I vincoli a questa componente della retribuzione devono essere minimi. La qualità della ricerca individuale deve essere valutata al di fuori dell’ateneo, o con l’ausilio di criteri oggettivi, o con valutazioni offerte da organismi come il CIVR.
Queste sono, secondo noi, le cose da fare; con l'idea chiara in testa che la competizione oggi è altissima e viene oramai da tutto il mondo. O si fa sul serio nei prossimi dieci anni o il caso è chiuso per sempre.
Il civr e' stato istituito dal governo Prodi col D.Lgs. 204/98 del 5 giugno 1998.
Correggete.
Igor, ci dici:
Il civr e' stato istituito dal governo Prodi col D.Lgs. 204/98 del 5 giugno 1998. Correggete.
Grazie per darci l'occasione di tornare su un punto importante.
Noi diciamo, a ragion veduta, che la Moratti avvio' la valutazione sistematica della ricerca, non che creo' il CIVR. Avvio' e' il termine, come si avvia un' auto lasciata in sosta. Nel nostro caso quell'auto era rimasta in sosta per diversi anni. Riporto il pezzo del libro di Paola Potestio, l'autrice con me di questo post, nel suo libro "L'Universita' Italiana: un irrimediabile declino?" che descrive bene questa vicenda:
3. La valutazione della ricerca
Nel 1998 viene istituito con apposito decreto, in attuazione della Legge Bassanini del 1997, il CIVR, ossia il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca. Il titolo del Decreto istitutivo è "Disposizioni per il coordinamento, la programmazione e la valutazione della politica nazionale relativa alla ricerca scientifica e tecnologica". La nascita del CIVR, dunque, non mostra un legame diretto con l’autonomia degli atenei, ma è ovviamente un evento rilevante per poter finalmente inquadrare l’autonomia in un sistema di valutazione. I principali compiti affidati al CIVR sono "attività per il sostegno alla qualità e alla migliore utilizzazione della ricerca scientifica e tecnologica nazionale. A tal fine [il CIVR] promuove la sperimentazione, l’applicazione e la diffusione di metodologie, tecniche e pratiche di valutazione della ricerca".
Il CIVR inizia i propri lavori nel settembre 1999: come informa il sito web, sedute dei (7) membri componenti il Comitato, audizioni, convegni, analisi di indicatori, acquisizioni di elementi conoscitivi, raccomandazioni di indirizzo.
L’approdo a una più sostanziosa operatività si realizza nel 2003. Il ministro Moratti dà incarico al CIVR di formulare le linee guida per la valutazione della ricerca. Il testo elaborato delinea il processo di valutazione che il CIVR attuerà sulla attività, nel triennio 2001-2003, di tutto il sistema di ricerca italiano (università, enti pubblici di ricerca, progetti speciali finanziati dal MIUR).