Lo stato attuale è il risultato di un cocktail esplosivo di elementi. I principali:
1. Le riforme della fine degli anni ‘90, ossia la riforma dei concorsi e l’introduzione delle lauree in successione: il 3+2. Considero entrambe le riforme sbagliate. Senza appello.
I concorsi locali, con la moltiplicazione delle commissioni e le triple e doppie idoneità, hanno fornito un incentivo perverso ad accordi di scambio tra sedi o gruppi di professori: votarsi a vicenda per la composizione delle commissioni di concorso ed appoggiare a vicenda i rispettivi candidati è divenuta pratica pressoché costante, qualunque fosse il valore dei candidati designati. Di fatto, una sostanziale ope legis per avanzamenti di carriera si è realizzata negli anni 1999-2005.
Sovente il dibattito su questo tema si è concentrato in un banalizzante confronto tra i precedenti concorsi nazionali e i concorsi locali del 1999-2005, senza cogliere le trasformazioni che si sono prodotte in questo periodo. In sei anni il numero di professori ordinari è cresciuto del 51.4%. Questa crescita è stata espressione di una trasformazione profonda del modello di selezione. La crescita precedente, su cui non ho dati, è stata comunque incomparabilmente più piccola. Ciò non è dipeso solo dalla infinita lungaggine dei concorsi nazionali: trovare un accordo era indubbiamente complicato e i professori di allora non potevano inchinarsi a scadenze per i lavori concorsuali!! Ma, aspetto più rilevante: i professori universitari erano oligarchie, alquanto restie ad ampliare i propri ranghi. I bandi erano richiesti con parsimonia, in numero sicuramente inferiore a quanto oggettive esigenze di crescita delle università avrebbero consigliato. Questo modello è crollato alla fine degli anni ’90. Il guaio, però, è che non è crollato per un modello migliore. Con i concorsi locali, le precedenti oligarchie si sono frantumate in una infinità di cordate concorsuali. Nuovi, tanti, tantissimi piccoli poteri si sono costituiti e affermati. Al di là di ogni altra considerazione critica, mentre il concorso nazionale coinvolgeva interesse e controllo di tutti i membri di una comunità scientifica e gli esiti erano, nel bene e nel male, lo specchio del valore di ciascuna comunità, i singoli concorsi locali non sono stati controllati in alcun modo dalla comunità scientifica e l’assenza di selezione (oltre che, di nuovo, di legami con oggettive esigenze di crescita) li ha pesantemente caratterizzati. La selezione, chi e come farla, rimane oggi un problema completamente aperto.
Il 3+2, d’altro lato, ha modificato in profondità la struttura degli ordinamenti didattici, conducendo a una rapida, abnorme moltiplicazione dei corsi di laurea e frammentazione degli insegnamenti. Mentre il nuovo schema non ha di fatto fornito alcuna efficace risposta all’esigenza di una formazione universitaria articolata e adeguata alla stratificazione delle competenze e delle professionalità di una società moderna, la duplicazione delle lauree e la natura incerta della prima (triennio professionalizzante o propedeutico al biennio?) hanno prodotto quasi ovunque un indebolimento delle basi metodologiche. Forse nessun dato statistico può dimostrarlo (e in effetti è l'esperienza diretta e la messe di testiminianze che spingono a questa conclusione), ma quale base metodologica può coltivare un corso di laurea triennale con 30-35 esami?
2. La particolarità della autonomia universitaria italiana. Nel 1989, la legge istitutiva del Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica attribuiva agli atenei “autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile”.Alla affermazione dell’autonomia non si è unita però, né allora né poi, la predisposizione di alcuna forma di controllo dell’operato degli atenei. Fino ad oggi, gli atenei hanno di fatto usufruito di un’autonomia senza verifiche, senza valutazione dei risultati, senza premi e penalizzazioni, insomma senza alcuno schema di incentivo che ne sollecitasse l’uso virtuoso. Un esercizio di valutazione della ricerca è stato varato solo nel 2003, per il triennio 2001-03. L’esperienza è stata senz’altro positiva. Di fatto, però, non la si è fatta proseguire e i suoi risultati non hanno avuto alcuna significativa incidenza sui finanziamenti dei singoli atenei.
Il risultato di una autonomia senza valutazioni e senza incentivi è stata una quantità enorme di scelte degli atenei lontane anni-luce da criteri di merito, di valore scientifico, di reali progetti di crescita. L’aneddotica dei parenti messi in cattedra è stata ed è solo una piccola parte del malcostume e delle discutibili scelte di questi anni. Il punto da sottolineare è che queste scelte emergono da problemi strutturali e da una connessa, perdurante tranquillità che nessuno chiederà davvero conto degli errori e delle scelte discutibili.
3. La composizione per corporazioni del tessuto universitario. Nella copiosa, recente letteratura sul tema università, nessun lavoro (tranne il mio pamphlet “L’università italiana: un irrimediabile declino?”, Editore Rubbettino) ha sottolineato la struttura per corporazioni del nostro tessuto universitario. In Italia, 370 settori scientifico-disciplinari presidiano, letteralmente, i concorsi e gli ordinamenti didattici. E’ una quantità assurda di centri di potere che, in un regime di autonomia, competono in ogni snodo della vita universitaria per affermare e ampliare la propria influenza. Negli anni più recenti, i concorsi locali e l’autonomia didattica hanno consentito alle corporazioni di affermarsi come mai prima. Gli ordinamenti didattici, i posti messi a concorso, la crescita di facoltà e atenei sono nati dal confronto e dai rapporti di forza tra questa miriade di settori. La connessione con veri progetti formativi o con veri progetti di crescita degli atenei è debole, e verosimilmente talora del tutto assente.
4. Il livello infimo della competizione politica in Italia. Un confronto politico incapace di superare gli immediati interessi di parte ha troppo spesso condotto a una sorta di gioco al ribasso sui temi dell’università, un gioco che ha fatto leva sulla quantità di interessi alla conservazione e al mantenimento dello status quo esistenti in università e che ha di fatto reso impossibile un progresso. Per un paio di esempi, basti citare il ripristino delle doppie idoneità con il decreto mille proroghe del dicembre 2007 o l’affossamento del progetto Moratti di mettere a esaurimento il ruolo di ricercatore, progetto che avrebbe offerto una spinta notevole al rilancio e alla velocizzazione della carriera universitaria.
I risultati di questo cocktail sono deprimenti. Che fare?
Nella improbabilità di riforme totali, la assoluta priorità nell’agenda del che fare è sollecitare un uso virtuoso dell’autonomia. Efficienza e competizione sono i valori che vanno oggi riaffermati, attraverso una serie di obiettivi specifici – collegamenti tra valutazione della ricerca e finanziamenti, superamento della struttura per corporazioni, abolizione del valore legale dei titoli - diretti, appunto, a forzare le strutture universitarie verso un uso virtuoso dell’autonomia.
L’intervento più urgente è la prosecuzione e il rafforzamento della valutazione della ricerca, finalizzati – è evidente - a finanziamenti ai singoli atenei pesantemente rapportati ai risultati della valutazione. E’ singolare che gli omaggi verbali alla valutazione, così presenti nei dibattiti di questi mesi, non si siano uniti al richiamo all'assoluta urgenza di continuare l’esercizio avviato né abbiano posto sul tappeto la questione del come e con quali risorse proseguire nella valutazione. Su questo terreno – come valutare la ricerca e quante risorse impegnarvi – il dibattito è stato, quanto meno, scarno.
Un secondo, cruciale intervento è una ridefinizione dei settori scientifico-disciplinari, attuata nella direzione di un superamento della struttura per corporazioni dell’università. Superare questa struttura significherebbe superare uno degli aspetti più radicati nella tradizione universitaria, significherebbe togliere alimento alla cultura dell'appartenenza, fortissima nel nostro paese, a favore della cultura del confronto aperto e della concorrenza.
Un terzo intervento è l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Sono convinta che il vantaggio principale di una tale abolizione si realizzerebbe proprio all’interno dell’università. Da tempo il settore pubblico, il settore più esposto al problema del valore legale dei titoli, si è attrezzato, peraltro non sempre nel bene, per aggirare in qualche modo il problema. L’abolizione darebbe un aiuto formidabile proprio agli attori dell’università: ai giovani, nel porsi in modo più serio il problemi della scelta delle competenze da acquisire e nell’affrontare in modo più serio l’università; ai docenti: nell’affrontare in modo assai meno corporativo il disegno dei corsi di studio.
Certamente molto resterebbe da fare. Ma, insieme, queste tre linee di intervento darebbero una svolta e renderebbero assai più semplice affrontare i tanti altri nodi della questione universitaria.
Continuo a pensare che il 3+2 sia stata una buona idea e che le università siano ancora in tempo per migliorare i programmi e ricavare il meglio dalla "nuova" struttura dei corsi di laurea. Basti solo pensare che il 3+2 decuplica le opportunità ed i possibili percorsi: io ho amici in tutta Europa, per dire, e alcuni fra i più bravi sono riusciti ad accedere a dipartimenti eccellenti come Yale (Stat) o Northwestern (Econ) direttamente dopo il triennio. In un Paese nel quale l'età di ingresso nel mondo del lavoro è molto alta, una riforma come questa poteva costituire una ventata di aria fresca.
La riforma, finora, è stata implementata male. Per prima cosa, il governo si è largamente disinteressato del passaggio al nuovo ordinamento (il governo di centro sx fu sostituito dal governo di centro dx pochi mesi dopo l'introduzione della riforma, e la Moratti cominciò subito a parlare di una "sua" riforma senza nemmeno emanare molti dei decreti attuativi necessari, se ben mi ricordo). Per seconda cosa, la reazione dell'establishment accademico è stata molto negativa: mi pare che l'unica preoccupazione, all'inizio, sia stata quella di salvare le cattedre: da qui i corsi di laurea da 30-35 esami. Ancora, il consueto snobismo ha impedito a priori ogni discussione seria sulla struttura ed "il senso" dei nuovi corsi di laurea, da subito considerati "diplomi spazzatura" (non sto nemmeno parlando degli albi!!). Infine: In un mondo nel quale lo stage costituisce l'unico canale per accedere a professioni di un certo livello, penso che l'iniziale resistenza delle imprese sarebbe stata facilmente superata. (Faccio ricorso ancora alla mia esperienza personale: amici che lavorano come broker assicurativi a Londra con solo il triennio in tasca io ne ho diversi. Hanno cominciato con uno stage e sono stati confermati.)
Insomma, non si dia la colpa "alla riforma" se abbiamo assistito ad una eccessiva frammentazione degli esami o alla moltiplicazione dei corsi di studio. I corsi di laurea di Oxford ed LSE, per dire, durano 3 anni, e non mi pare che la gente si lamenti.
Anche adesso la principale preoccupazione e' quella di salvare le cattedre, non di chiedersi cosa serve allo studente per trovare lavoro piu' in fretta e meglio retribuito.
Sono anche io d'accordo che la riforma 3+2 fosse una idea buona e necessaria, ma che sia stata snaturata completamente dalla sua applicazione nella realta'.
D'altra parte l'equazione: maggiori ore di corso (magari frequentati da uno studente)=maggiori titoli per chiedere posti (e quindi fare carriera) non lasciava molte speranze che potesse andare in modo diverso.
I "diplomi spazzatura" sono stati resi tali, in Italia, perche' si e' voluto scimmiottare i corsi di cinque anni concentrandoli in tre, cosi' da fare diplomare persone che sapevano poco di tutto e tutto di niente. Per fortuna in molti si sono poi formati dentro le aziende e, alla fine, riescono comunque bene nel lavoro.