Iniziamo con la versione "executive summary", dando risposte sintetiche alle tre domande.
1. Qual è l’ispirazione del progetto, la visione dell’università che lo sottende, l’idea forte che lo ha guidato? Nessuna, apparentemente. La visione della istituzione università, esposta nel primo articolo, è alquanto modesta: “sede di libera formazione e strumento per la circolazione della conoscenza”, si legge semplicemente. Manca ogni riconoscimento della centralità della ricerca, manca il riconoscimento che ciò che qualifica il sistema universitario è la ricerca e che ciò che attribuisce qualità a un sistema universitario è la qualità della sua ricerca. L’assenza di una tale ispirazione condiziona pesantemente l’elaborazione del disegno di legge.
2. Quali sono gli obiettivi? Non v’è dubbio che il progetto intende promuovere efficienza e merito. Gli apprezzamenti ricevuti riconoscono esattamente questo. Il problema però è che, mancando il progetto di una ispirazione forte che guidi il disegno degli interventi, gli obiettivi dichiarati rischiano di non esser conseguiti e di rimanere delle pure enunciazioni.
3. Quali sono le linee strategiche verso gli obiettivi di efficienza e merito, e gli eventuali vincoli percepiti? Si punta su tre cose: la riforma della governance centrale dell’ateneo, un sistema di incentivi affidato con precisi criteri direttivi a decreti legislativi del governo, una iper-regolamentazione su tutti gli aspetti trattati dal ddl.
Veniamo ora ad un'analisi più dettagliata dei pregi e dei difetti del ddl. Cominciamo dalla questione più importante, gli incentivi.
Per quanto riguarda gli incentivi, ciò che preoccupa è la lentezza delle realizzazioni. Un modello di finanziamento degli atenei fondato su un sistema di incentivi è stato elaborato da anni e in varie versioni. Non è stato applicato, se non marginalmente, e mai sui risultati della ricerca. L’unico esercizio di valutazione della ricerca, effettuato dal CIVR per il triennio 2001-03, è stato utilizzato, in misura del tutto modesta, solo nella distribuzione del FFO 2009! Il ddl affida all’ANVUR, organismo che deve ancora essere costituito, la valutazione di tutte le attività degli atenei. L’iter dell’approvazione del disegno, l’elaborazione dei decreti delegati, il varo dell’onni-valutativo ANVUR implicano una concreta operatività di questo organismo alquanto lontana. Gli impegni del ddl su valutazione e incentivi sono naturalmente importanti, ma la novità di cui oggi si ha bisogno è la rapida prosecuzione di ciò che è davvero cruciale per valutare gli atenei: la valutazione della ricerca. Ampliare e consolidare il lavoro del CIVR sarà utile anche per calibrare meglio le diverse attività del futuro ANVUR.
Niente affatto risolutiva e fonte di nuovi pericoli appare la riforma della governance, impostata su un potere straordinario del rettore, su un Consiglio di Amministrazione non elettivo e che diviene l’unico organo deliberante dell’ateneo, su una consistente presenza nel CdA, almeno il 40%, di membri esterni all’ateneo.
Il potere dei rettori è già notevolissimo. Non ha dato grandi risultati, e non certo perché i rettori difettavano di competenze gestionali. La “comprovata competenza ed esperienza di gestione .. nel settore universitario”, richiesta per i futuri rettori dal ddl, non garantisce nulla e non è condizione necessaria di nulla, se poi significa qualcosa. Ancor più vuota è l’attribuzione di responsabilità: al di là di illeciti amministrativi, per i quali ovviamente non c’è bisogno di una previsione di responsabilità del ddl, la “attribuzione al rettore .. delle responsabilità del perseguimento delle finalità dell’università secondo criteri di qualità” non significa nulla e non individua di per sé alcuna conseguenza.
La debolezza della governance, a tutti i livelli, sta nella circostanza che essa è quasi sempre espressione diretta della struttura per corporazioni del nostro sistema universitario e degli equilibri che tra le corporazioni si costituiscono nei singoli atenei e nelle singole unità. Ai condizionamenti delle corporazioni si aggiungono sovente, nella carica rettorale, non marginali interferenze politiche. I condizionamenti corporativi continueranno ad operare, poiché il ddl attenua la numerosità delle corporazioni ma non getta basi per il loro superamento, mentre gli innesti esterni nel CdA saranno inevitabilmente l’occasione di una diffusione delle interferenze politiche. Una ulteriore perdita di indipendenza e di identità degli atenei, verso caratteristiche analoghe a quelle di ASL o aziende municipalizzate. Questa non è una facile battuta, peraltro ormai più volte ripetuta, ma una prospettiva realistica, seppure non certo per tutte le sedi.
“Togliere potere ai professori”, come si è auspicato, puntando sulle mediazioni con i rettori e aprendo le porte a spartizioni politiche, terribili pratiche usuali nella conduzione dei nostri servizi pubblici, è innovare in peggio.
Il problema non è togliere potere ai professori, ma avere buoni professori e far funzionare meglio l’autogoverno. Un cambiamento di rotta è necessario nelle scelte strategiche del ddl. Fondare la riorganizzazione degli atenei non sul maggior potere del governo centrale, ma sulla maggiore forza e autonomia delle unità di base della ricerca – i dipartimenti – è una correzione di rotta che occorre richiedere nell’iter parlamentare che si sta avviando. L’innovazione più interessante del ddl è proprio il focus sui dipartimenti. Il ddl va però timidamente in questa direzione, non con la decisione necessaria. La scelta cruciale, cui dovrebbe condurre quell’ispirazione forte che non c’è nel ddl, è rendere i dipartimenti direttamente responsabili dei risultati conseguiti nella ricerca. Le unità di riferimento del sistema di incentivi devono essere soprattutto e direttamente i singoli dipartimenti. Ciò va nella direzione opposta del rafforzamento del governo centrale di ateneo, toglie ad esso inopportuni margini di manovra e crea le condizioni di contesto più sicure per la tutela e dunque per lo sviluppo della ricerca.
La terza linea strategica del ddl è la capillarità delle disposizioni. Che si fermi il declino dell’università italiana con il dettaglio delle regole è, diciamo, improbabile. Molto più probabile è che, su questa strada, si finisca per prendere decisioni ridicole. Una decisione ridicola è la fissazione di 1500 ore annue di lavoro complessivo, “compresa l’attività di ricerca e di studio” recita il ddl, dei professori a tempo pieno. Chi prenderà i tempi e quali garanzie questo monte-ore dà di buona ricerca?
Non molto più seria è la previsione di “criteri e parametri” per l’attribuzione dell’abilitazione a posti di professore “definiti con decreto del Ministro”. Con questo veniamo all’ultimo commento: la selezione della docenza. Il ddl non fa molto per avere buoni professori. Qui le mediazioni sono con l’opposizione. Lo schema delineato segue infatti una vecchia idea dell’opposizione: una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta, con una immissione in ruolo nelle singole sedi effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo. Un vincitore unico sui posti banditi dalle sedi, dichiarato da un commissione nazionale con innesti internazionali, e la libertà della sede di non chiamare nessuno se è insoddisfatta dell’esito del concorso, è uno schema più diretto e semplice. E’ uno schema che elimina la mina vagante degli idonei, che il ddl si illude di disinnescare con i criteri e parametri definiti dal Ministro, e che in ogni caso dovrebbe costituire solo una disciplina transitoria rispetto a un futuro, completo affidamento della selezione ai singoli dipartimenti.
Dubbi infine si pongono anche per i ricercatori a tempo determinato, assunti con contratto triennale, rinnovabile un sola volta. La prospettiva offerta a questi ricercatori è di ottenere una chiamata dalla università che gli ha fatto il contratto, qualora essi abbiano ottenuto prima della scadenza del contratto l’abilitazione per il ruolo di professore associato. La ratio della norma è incomprensibile. I pericoli sono invece chiari: se l’abilitazione sarà un titolo negato a pochi, l’immissione nel ruolo di professore continuerà ad essere un fatto locale, sostanzialmente privo di controllo.
Avete un link al DDL? L'impressione che si trae dalla lettura del vostro articolo e' che non solo le norme non siano coerenti con gli obiettivi dichiarati, ma che le "belle parole" siano usate per concentrare ulteriormente il potere decisionale e sottoporlo piu' agevolmente all'influenza (se non il controllo) della politica e delle egemonie locali. In Italia si governa con il sottopotere ed e' ragionevole che i politici cerchino di allargare il pool di "posti" disponibili per la soddisfazione dei loro clientes. Peccato che si avrebbe il bisogno dell'esatto opposto.