Osserviamo innanzitutto che quasi tutte le norme entreranno in vigore con un certo ritardo perché dipendono da decreti legislativi delegati o regolamenti ex Lege 400, (che richiedono una pluralità di pareri diversi) ovvero da norme statutarie che saranno deliberate dalle università.
1. Modifica del sistema di reclutamento e promozione del personale docente.
Come è noto il ruolo dei ricercatori è stato messo ad esaurimento dalla Riforma Moratti (Legge 230 del 2005). Gli effetti di questa disposizione erano però rinviati al 2013. La legge Gelmini dispone invece che fin da ora non possano essere più banditi posti di ricercatore “a tempo indeterminato” (art. 29, comma 1). Questo significa che la posizione di professore associato diviene la prima posizione accademica di ruolo. Ci saranno però “ricercatori a tempo determinato” (Art. 24), con compiti di ricerca e di didattica analoghi a quelli degli attuali ricercatori. Essi saranno titolari di un “contratto di lavoro subordinato” con l’università.
Secondo l’Art. 24 i contratti di ricercatore saranno di due tipi: a) e b).
I contratti di tipo a) corrispondono a posizioni “post-dottorali” delle quali non è prevista la trasformazione in posti permanenti (non sono cioè, secondo la terminologia corrente, “tenure track”). La durata massima di questi contratti è di cinque anni (tre anni con un possibile rinnovo di due anni), anche se usufruiti in sedi diverse.
I contratti di tipo b) corrispondono a posizioni cosiddette “tenure track” cioè posizioni suscettibili di trasformarsi in posizioni permanenti nel ruolo dei professori associati. I contratti di tipo b) possono essere stipulati solo con chi ha usufruito per almeno tre anni di contratti di tipo a), ovvero, sempre per almeno tre anni, di assegni di ricerca o borse postdottorali in Italia o di analoghe posizioni all’estero.
I contratti di tipo b) hanno durata triennale e non sono rinnovabili in quanto tali, tuttavia, i ricercatori di tipo b) che conseguono la “abilitazione scientifica” (cfr. infra) sono “valutati” dall’università “ai fini della chiamata nel ruolo di professore associato”, che è deliberata a maggioranza (dei professori di prima e seconda fascia) dal dipartimento competente. Non è previsto che il ricercatore di tipo b) in possesso di abilitazione sia immesso direttamente nei ruoli di professore associato, tuttavia la valutazione (aggiuntiva a quella dell’abilitazione) operata dall’università dovrà riguardare solo l’attività scientifica e didattica del ricercatore. Un eventuale esito negativo non potrà quindi essere motivato da ragioni di bilancio. Infatti la legge impone che l’università assicuri le disponibilità di bilancio necessarie per l’assunzione del ricercatore di tipo b) come professore associato nell’ambito della (obbligatoria) programmazione triennale delle risorse (Art. 24, comma 5). Una mancata valutazione o una valutazione negativa motivata da ragioni di bilancio sarebbero suscettibili di ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale o al Consiglio di Stato da parte dell’interessato. Non hanno quindi fondamento le critiche alla legge che lamentavano la possibilità di non procedere alla assunzione definitiva dei ricercatori di tipo b) abilitati, per carenza di fondi disponibili.
Si può ritenere che saranno molto rari i casi di ricercatori di tipo b) che conseguono l’abilitazione a professore di seconda fascia e non sono chiamati dalla università nella quale sono stati ricercatori. Per il reclutamento dei professori la selezione dei ricercatori di tipo b) è quindi il passo più importante.
La legge prevede che questa selezione sia disciplinata da un regolamento dell’ateneo, per il quale indica alcuni principi. Come si è detto potranno partecipare a queste selezioni solo i soggetti che siano stati per almeno tre anni “ricercatori di tipo a)”, assegnisti o borsisti postdottorali. Ci sarà un bando di selezione, relativo ad un “settore concorsuale” che, in generale, sarà più ampio degli attuali settori scientifico disciplinari. Tuttavia il bando stesso potrà indicare uno o più settori scientifico disciplinari tra quelli raccolti nel “settore concorsuale”. Sarà questa probabilmente la scelta di quasi tutti i bandi. Nella sostanza, come oggi, il bando sarà quasi sempre aperto solo agli specialisti di un settore scientifico disciplinare. Si prevede una valutazione preliminare dei candidati basata sul “curriculum” e sulla produzione scientifica. Tra il 10 ed il 20 per cento dei candidati, e almeno sei di essi (tutti, se i candidati sono meno di sei), saranno ammessi ad una successiva prova orale che consiste nella discussione dei titoli. Infine ci sarà una (proposta di) chiamata da parte del dipartimento con voto favorevole della maggioranza dei professori di prima e di seconda fascia (sono esclusi dal voto i ricercatori a tempo indeterminato). La chiamata sarà infine ratificata dal Consiglio di Amministrazione.
La selezione si svolge quindi a livello locale. In mancanza di regole o prassi consolidate che contrastino il cosiddetto “inbreeding”, si accentuerà probabilmente il localismo nelle assunzioni che caratterizza il sistema italiano.
La legge, però, cerca di contrastare il localismo (e il “nepotismo”) con tre disposizioni. La prima stabilisce che non possono essere assunti come ricercatori o docenti i parenti e gli affini (fino al quarto grado incluso) del rettore, del direttore amministrativo, dei membri del consiglio di amministrazione e dei docenti del dipartimento che effettua la chiamata (Art. 18, comma 1, lettera b) e lettera c).) La seconda stabilisce che si deve prevedere, a livello di programmazione triennale delle risorse, che il 20% delle risorse siano impiegate per assumere personale estraneo all’ateneo (Art. 18, comma 4). La terza infine (Art. 5 comma 5) prevede che tra i criteri utilizzati nel valutare le università, ai fini della distribuzione di una quota del FFO rientri anche “la percentuale di ricercatori a tempo determinato in servizio che non hanno trascorso l’intero percorso di dottorato e post-dottorato […] nella medesima università”. L’unica disposizione non facilmente eludibile è la prima che, ovviamente, non è sufficiente per contrastare il localismo. In particolare la disposizione che riserva il 20% delle risorse programmate al reclutamento di “esterni” non impone, né può imporre, che questa riserva di risorse sia effettivamente impiegata per il reclutamento di esterni. Difficilmente percepibili da parte di chi effettua le scelte saranno poi i minuscoli ed eventuali vantaggi in termini di distribuzione di FFO associati alla assunzione di personale esterno.
Il fenomeno del localismo, cioè il fatto che in troppi casi l’intera carriera universitaria, dalla laurea al posto di prima fascia, avviene nella stessa sede, è già prevalente nell’università italiana. E’ difficile quindi parlare di un peggioramento di questo fenomeno dovuto alla nuova legge. Si deve dire però che le recentissime norme sulla formazione delle commissioni di concorso a ricercatore che prevedevano commissioni formate da tre docenti di prima fascia di cui due esterni alla sede che aveva bandito il concorso, stavano già producendo importanti effetti di contrasto al localismo. La nuova legge costituisce quindi un passo indietro rispetto alle norme attualmente in vigore per il reclutamento al primo livello di docente.
Anche se (non diversamente da oggi) la maggioranza delle assunzioni avverrà attraverso la posizione di ricercatore (contratti di tipo b),) la legge prevede assunzioni (e non solo promozioni) a livello di professore di seconda fascia e di prima fascia.
Per queste assunzioni la legge tenta di porre rimedio ad uno degli ostacoli che rendono difficile, se non impossibile, l’assunzione di “esterni” al sistema e cioè i bassi stipendi iniziali. E’ prevista infatti (Art. 8) una revisione della scala stipendiale che abolisce il periodo di straordinariato e la “ricostruzione della carriera” e cioè il parziale trascinamento dell’anzianità nel passaggio da un ruolo all’altro. La revisione dovrebbe dar luogo ad uno stipendio iniziale pari a quello conseguibile con il massimo di “ricostruzione della carriera”. Si regalerebbero cioè a tutti coloro che entrano nei ruoli di professore otto anni di anzianità. Il costo di questa revisione dovrebbe essere modesto perché già ora quasi tutti i soggetti che entrano nei ruoli di professore hanno maturato dodici anni di anzianità nel ruolo precedente ed entrano quindi con otto anni di anzianità nel nuovo ruolo. L’effetto, tuttavia, sarebbe quello di offrire lo stesso stipendio iniziale nel ruolo sia agli esterni che agli interni al sistema.
Requisito indispensabile (Art. 18) per entrare nei ruoli di professore di prima o seconda fascia è il conseguimento della abilitazione relativamente ad una fascia e ad un “settore concorsuale” (Art. 16). Un’eccezione è prevista per gli studiosi “stabilmente impegnati all’estero in attività di ricerca o insegnamento a livello universitario in posizioni pari a quelle oggetto del bando.”
I settori concorsuali saranno più ampi degli attuali settori scientifico disciplinari, perché è previsto il numero minimo di cinquanta professori di prima fascia afferenti al settore.
Per ogni settore concorsuale sarà nominata una commissione per l’abilitazione che resta in carica per due anni. Sarà composta da quattro professori di prima fascia appartenenti al settore concorsuale e da uno studioso straniero. I commissari appartenenti alle università italiane saranno scelti attraverso un sorteggio da una lista di autocanditati che non abbiano ricevuto una valutazione negativa della loro ultima relazione triennale sull’attività svolta (Cfr. infra). Lo “straniero” sarà sorteggiato da una lista curata dall’ANVUR (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca). Una disposizione intelligente stabilisce che se non è pronta la lista degli “stranieri” si sorteggerà un quinto italiano. Si potrà fare domanda per il conseguimento dell’abilitazione ogni anno, ma chi non consegue l’abilitazione dovrà aspettare due anni prima di ripresentare domanda.
E’ lecito chiedersi quanto severa potrà essere la selezione degli “abilitati”. Ovviamente non si può rispondere con sicurezza. Si può osservare però che, per lo meno per le abilitazioni di seconda fascia, non c’è alcun incentivo alla severità. Se mai gli incentivi vanno nella direzione opposta perché i settori concorsuali che hanno pochi “abilitati” avranno anche pochi “posti” di ruolo. Il caso della facoltà di medicina merita una considerazione a parte. Il fatto che la promozione ad associato non dia automaticamente diritto ad un “primariato” rende, equivalenti, agli occhi di un professore di prima fascia, e dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, le posizioni di ricercatore e di professore di seconda fascia. Una commissione composta da professori di prima fascia non ha quindi ragioni di negare una promozione che non costa nulla a chi decide, e non incide sull’organizzazione delle cliniche. Diverso sarà il caso delle abilitazioni di prima fascia. In questo caso la relativa severità può servire ad alimentare, nei commissari, la fantasia di appartenere ad un gruppo ristretto di “eccellenti”. Inoltre per le facoltà di medicina i commissari (come già avviene ora per le idoneità nei concorsi) potrebbero essere condizionati dalla disponibilità di posizioni “apicali” (primariati) nelle università di appartenenza dei concorrenti all’abilitazione. Dobbiamo tuttavia osservare che chi si offre di diventare commissario per la abilitazione sarà probabilmente interessato alla abilitazione di qualche candidato. Sarà quindi disponibile a trattare con gli altri commissari per favorire il suo protetto. E’ quello che avviene nelle commissioni di concorso, e che può avvenire più facilmente in assenza di una limitazione sul numero degli abilitati.
Possiamo in prima approssimazione concludere che, mentre l’abilitazione di prima fascia potrebbe costituire un ostacolo alla indiscriminata espansione del ruolo dei professori ordinari, anche in relazione all’esistenza di “primariati” disponibili, è probabile, invece, che l’abilitazione alla seconda fascia sia conseguita da tutti gli attuali ricercatori di ruolo che sono attivi nella ricerca (la stragrande maggioranza) e da tutti i ricercatori a tempo determinato di tipo b) che siano restati attivi nella ricerca dopo il conseguimento del dottorato.
La via formalmente ordinaria per entrare nei ruoli di professore, dopo aver conseguito l’abilitazione, è la partecipazione alle selezioni per le chiamate che sono regolate dai singoli atenei, e che prevedono un bando, una valutazione dei titoli scientifici e del curriculum, ed una (proposta di) chiamata da parte del dipartimento competente ratificata dal Consiglio di Amministrazione. Ai fini di queste chiamate sono considerati “abilitati” anche i professori che sono in servizio al momento della entrata in vigore della legge. In altre parole, le stesse procedure di chiamata sono utilizzate per i trasferimenti. Per gli “idonei” non ancora chiamati, dei concorsi banditi sulla base della vecchia normativa (Legge 210 del 1998) continuano ad applicarsi le vecchie regole (Art. 29, comma 4), ma è prevista anche l’equiparazione dell’idoneità alla abilitazione (Art. 29, comma 8).
Si è parlato di via “formalmente” ordinaria, perché (Art. 24, comma 6) fino al 31 dicembre 2016 i ricercatori di ruolo ed i professori associati che hanno conseguito l’abilitazione rispettivamente di seconda fascia e di prima fascia potranno essere chiamati direttamente alle posizioni per le quali sono abilitati, con le procedure previste dalla legge per i titolari di contratto di tipo b), e cioè in assenza di un bando di concorso cui possano partecipare altri soggetti. Cessato il periodo transitorio, resterà comunque in vigore la disposizione che regola la chiamata diretta del titolare di contratto di tipo b) che abbia conseguito l’idoneità ad associato. Non più del 50% delle immissioni in ruolo dovrebbe avvenire attraverso chiamate dirette. Nulla vieta, tuttavia, che anche attraverso i bandi aperti all’esterno sia prevalentemente promosso personale interno, come già avviene per i concorsi previsti dalla vecchia normativa.
Si può concludere che le nuove procedure di reclutamento e promozione non contrasteranno e forse accentueranno l’attuale localismo. Tuttavia, la revisione della scala stipendiale dovrebbe rendere almeno possibile l’assunzione di esterni come professori di prima o seconda fascia. Certamente le assunzioni di esterni nei ruoli di docente resteranno un fenomeno raro.
Dobbiamo allora chiederci fino a che punto la pressione degli “abilitati” che chiedono di essere promossi al livello della loro abilitazione consentirà agli atenei di reclutare giovani , come ricercatori a tempo determinato di tipo b).
Ovviamente tutto dipenderà dai fondi a disposizione, fondi che proverranno dal pensionamento in atto dell’attuale personale docente. Possiamo tuttavia essere sicuri che la promozione degli “interni” abilitati avrà la precedenza sull’assunzione di personale potenzialmente a tempo indeterminato come i ricercatori di tipo b). Questo si applicherà in particolare alla promozione dei ricercatori di ruolo abilitati alla docenza di seconda fascia. Essi, infatti, al contrario dei giovani “esterni”, votano per l’elezione del rettore e del direttore del dipartimento. Inoltre, in quasi tutti i casi, i ricercatori di ruolo svolgono le funzioni didattiche che spettano ai professori di ruolo e possono rifiutarsi di svolgerle, dal momento che queste funzioni non sono obbligatoriamente previste dal loro attuale stato giuridico. Nella sostanza, le nuove disposizioni di legge aprono la strada alla promozione ad associato di tutti gli attuali ricercatori di ruolo attivi nella ricerca, cioè la stragrande maggioranza. Ne seguirà anche che i fondi disponibili a seguito dei pensionamenti saranno spesi, in gran parte, per le sedi e per i settori che contano il maggior numero di ricercatori di ruolo. In particolare i fondi andranno alle Facoltà di Medicina che hanno maggiormente “beneficiato” dell’immissione nei ruoli di ricercatore dei “tecnici laureati”, a loro volta frutto di assegnazioni clientelari di posti di tecnico, o “assegnisti della legge sulla disoccupazione giovanile” al di fuori di qualsiasi programmazione. Si sarà persa così l’occasione di sfruttare il corrente ed imminente massiccio pensionamento del personale docente per una distribuzione più razionale del personale tra le diverse sedi e all’interno di ciascuna sede.
2. Modifica dello stato giuridico dei docenti.
Le novità in questo ambito sono molto modeste (Art. 6). Resta quasi invariata la disciplina del tempo pieno, che continua a prevedere la possibilità di svolgere attività professionale privata da parte dei professori di medicina a tempo pieno (ultimo periodo del comma 9 e comma 13). Per tutti gli altri professori a tempo pieno continuano a valere le regole che consentono loro di assumere qualsiasi incarico retribuito, purché autorizzato dalla università di appartenenza. Non sembra più necessaria nemmeno l’autorizzazione per tutte le attività di “consulenza”. Risulterebbe invece più difficile, per il professore, o ricercatore, a tempo pieno, lo svolgimento di un insegnamento ufficiale in una sede diversa dalla propria. Sarebbe necessaria, apparentemente, una “convenzione” che disciplini anche la ripartizione degli oneri stipendiali. Questa norma non è però suscettibile di interpretazione univoca, essendo anche previsto che sulla base di una semplice autorizzazione del rettore, il professore possa svolgere attività didattica e di ricerca presso “enti pubblici e privati senza scopo di lucro”, tra i quali dovrebbero rientrare le università.
La legge conferma (Art. 6, comma 14) che i professori ed i ricercatori sono tenuti a presentare una relazione triennale (già prevista dal DPR 382 del 1980) sull’attività svolta. Si prevede tuttavia che solo chi otterrà un giudizio favorevole sulla sua attività potrà conseguire il previsto “scatto triennale” (Secondo il successivo articolo 8 della legge, gli scatti saranno triennali anziché biennali). E’ però abrogata la norma recente che sospendeva lo scatto al professore che non avesse nel precedente biennio pubblicato almeno un lavoro scientifico (il CUN era investito dell’assurdo compito di definire a priori che cosa fosse un lavoro scientifico.) La valutazione della relazione triennale sarà di competenza dell’università, ma l’ANVUR dovrebbe stabilire “criteri oggettivi di verifica dei risultati dell’attività di ricerca”. Chi non ottiene una valutazione positiva della sua relazione triennale è escluso “dalle commissioni di abilitazione, selezione e progressione di carriera del personale accademico, nonché dagli organi di valutazione dei progetti di ricerca”. E’ improbabile che la “bocciatura” della relazione triennale riguardi più di una frazione minima di docenti di prima fascia, i quali, proprio per la possibilità di entrare nelle commissioni per le abilitazioni, non avranno difficoltà a “firmare” le pubblicazioni dei loro allievi o dei loro protetti che aspirano ad una abilitazione. Questo privilegio sarà invece negato agli associati e ai ricercatori, i quali, salvo rari casi di accesso a nutriti finanziamenti esterni per la ricerca, non avranno a disposizione “ghost writers”.
3. Modifica dell’organizzazione interna delle università e nuovo ruolo dei dipartimenti.
La legge sembra prevedere l’abolizione delle facoltà e l’attribuzione ai dipartimenti di competenze sull’organizzazione didattica o meglio l’attribuzione delle funzioni “finalizzate allo svolgimento […] delle attività didattiche e formative”. I dipartimenti dovranno comprendere almeno 35 professori e ricercatori (40 nelle università con più di mille professori e ricercatori) “afferenti a settori scientifico-disciplinari omogenei”. Il modello dovrebbe essere quello di dipartimenti che offrono i servizi didattici di loro competenza a tutti gli studenti di un ateneo. Si prevedono tuttavia “strutture di raccordo” tra dipartimenti affini, “con funzioni di coordinamento e razionalizzazione delle attività didattiche”, oltre che (per le strutture di coordinamento di medicina) con funzioni di coordinamento, in accordo con le autorità delle regioni, delle attività di assistenza ospedaliera.
L’applicazione di queste disposizioni, a partire dalla attuale struttura dei dipartimenti, corsi di laurea e facoltà non sarà facile, e potrebbe trovare resistenze in ambito accademico. Non è chiaro in che modo strutture di coordinamento delle attività didattiche possano contenere al loro interno dipartimenti costituiti sulla base di una omogeneità scientifica.
Il caso della matematica è paradigmatico. L’interpretazione naturale della legge porterebbe a definire, in ogni ateneo, un unico dipartimento di matematica che raccolga tutti i docenti dei settori di matematica. Questo dipartimento dovrebbe svolgere attività didattiche per gli studenti dei corsi di laurea ora appartenenti alle facoltà di Scienze MFN, Ingegneria, Farmacia, Architettura, Scienze della Formazione, Agraria, Veterinaria, Medicina, ecc. Non è possibile che le funzioni di “coordinamento e razionalizzazione” di queste attività didattiche siano svolte da un’unica “struttura di raccordo”. Sarebbe naturale a questo punto che il dipartimento di matematica partecipasse, ovviamente a titolo consultivo, ad una pluralità di strutture di coordinamento. Ma la legge prevede che la “struttura di raccordo” abbia un “organo deliberante” cui partecipano i direttori dei dipartimenti ad essa afferenti. Si prefigura quindi una situazione in cui ogni dipartimento appartiene ad una sola struttura di coordinamento. La struttura di coordinamento verrebbe allora a prendere il posto delle facoltà, ed i dipartimenti finirebbero per ridursi a divisioni interne delle nuove facoltà.
La potenziale contraddizione, che, a quanto pare, non è stata rilevata dal legislatore, proviene dal fatto che l’omogeneità scientifica non comporta affatto che l’insegnamento sia diretto agli stessi studenti, mentre, viceversa, si possono insegnare agli stessi studenti discipline scientificamente disomogenee, specialmente quando si tratta di studenti dei primi anni di corso. Questo vale in particolare per i corsi di laurea in ingegneria dove, tradizionalmente, le materie di base sono impartite agli stessi studenti pur non essendo tra loro scientificamente omogenee né omogenee alle materie caratterizzanti dell’ingegneria. Nei paesi (come gli Stati Uniti) dove le università sono strutturate su base dipartimentale (come, nominalmente, sembra volere la legge) un insegnamento elementare (ad esempio “Calculus”) offerto dal dipartimento di matematica può essere seguito da studenti di matematica, di fisica, di ingegneria, o di altre discipline scientifiche, ma anche da studenti di sociologia, o di economia, di filosofia, ecc. Lo stesso vale per un insegnamento di fisica, ed anche per l’insegnamento di una disciplina umanistica, che può essere rivolto anche a studenti prevalentemente interessati alla scienza o all’ingegneria. L’appartenenza ad un “corso di laurea” in questi casi è un fatto che riguarda lo studente, o meglio il piano di studi che ha scelto (che può anche cambiare negli anni successivi al primo), ma non riguarda l’insegnamento impartito. La nostra legge invece non riesce a superare l’indicazione di una struttura gerarchicamente ordinata, con al vertice le strutture di raccordo (ex facoltà), le quali contengono i dipartimenti, i quali a loro volta contengono i corsi di laurea, che contengono gli insegnamenti.
Non è chiaro quali soluzioni verranno date dagli statuti a queste contraddizioni della legge. E’ chiaro però che l’ipotesi di una vera organizzazione dipartimentale è ancora lontana. Vale la pena di ricordare che lo scopo di una organizzazione dipartimentale non è soltanto quello di costituire, sia pure a livello locale, una comunità scientifica omogenea (e sufficientemente articolata) per le scelte di reclutamento e promozione dei docenti. Uno scopo non secondario è quello di distribuire razionalmente le risorse di docenti ed i carichi didattici. Attualmente come è noto i docenti si concentrano nelle facoltà dove ci sono altri docenti della stessa specie che li chiamano e non nelle facoltà dove ci sono più studenti che ne hanno bisogno. Per questo una organizzazione dipartimentale dovrebbe prima di tutto rompere le barriere di facoltà e non confermarle attraverso “strutture di raccordo” con “organi deliberanti”, come invece fa la legge.
4. Modifica del ruolo degli organi direttivi.
La legge impone alle università di modificare gli statuti in modo che prevedano:
- un rafforzamento dei poteri del rettore, eletto per un unico mandato di sei anni,
- che il rettore possa essere anche un professore ordinario di altra sede,
- un affievolimento dei poteri del Senato Accademico i cui pareri o proposte possono sempre essere disattesi dal Consiglio di Amministrazione.
- un rafforzamento dei poteri del Consiglio di Amministrazione, che resta in carica per un quadriennio,
- l’obbligo di includere tra i membri del Consiglio di Amministrazione un numero limitato di soggetti (3 su 11, o 2 se il C. di A. è meno numeroso) che non appartengono ai ruoli dell’ateneo (ma possono appartenere ai ruoli di altri atenei, o ad altre pubbliche amministrazioni)
- un rafforzamento del ruolo del nucleo di valutazione di ateneo che diviene un “organo” dell’università.
La previsione di membri del Consiglio di Amministrazione non appartenenti ai ruoli dell’ateneo ha suscitato molte critiche e polemiche prima dell’approvazione della legge. In realtà i Consigli di Amministrazione dell’Università, a partire dalle norme del 1973, e fino ai Consigli istituiti in base alla Legge 168 del 1989, hanno sempre avuto un numero alto di membri esterni, in rappresentanza degli enti locali, e di altre istituzioni. Il risultato di questa partecipazione non è stato brillante, ma nemmeno devastante. Si è verificato un generale assenteismo accompagnato da interventi occasionali per difendere interessi particolari. Evitare queste ed altre possibili degenerazioni sarà compito (non facile, ma nemmeno impossibile) delle norme statutarie relative alla nomina dei consiglieri di amministrazione. Basterebbe, ad esempio, rendere difficile la nomina di un membro esterno privo di una rilevante esperienza di insegnamento universitario e/o di direzione di istituzioni scientifiche.
5. Misure per incentivare “la qualità e l’efficienza del sistema universitario”.
L’incentivazione della qualità ed efficienza è affidata prevalentemente ad interventi di natura finanziaria. L’idea di “governare” il sistema universitario attraverso la leva finanziaria è presentata innanzitutto nell’Art. 1, della Legge dove si dice (comma 4) che “il Ministero […] indica obiettivi ed indirizzi strategici per il sistema […] garantendo una distribuzione delle risorse pubbliche coerente con gli obiettivi, gli indirizzi e le attività svolte da ciascun ateneo […] nonché con la valutazione dei risultati conseguiti,” e si ribadisce (comma 5) che “La distribuzione delle risorse pubbliche deve essere garantita in maniera coerente con gli obiettivi e gli indirizzi strategici per il sistema e le sue componenti, definiti ai sensi del comma 4.” Secondo le indicazioni dell’Art. 1 sarebbe l’ANVUR l’organo tecnico del quale si avvale il Ministro per predisporre la “formula di finanziamento” (in questa legge indicata come “modello di ripartizione teorica”) che incorpora incentivi e disincentivi.
Questo sistema di finanziamento e “governo” del sistema universitario era previsto fin dalle norme (tuttora vigenti) che istituivano il Fondo di Finanziamento Ordinario (Art. 5 della Legge 537 del 1993). Queste norme prevedevano che, dopo un periodo di transizione, il FFO fosse ripartito “sulla base di criteri determinati con decreto del Ministro, […] relativi a standard dei costi di produzione per studente, e agli obiettivi di qualificazione della ricerca, tenuto conto delle dimensioni e condizioni ambientali e strutturali”.
Per diverse ragioni il periodo di transizione in Italia si è protratto per oltre 15 anni. Una ragione è stata la mancata comprensione da parte della burocrazia ministeriale e dei capi di gabinetto di uno strumento di governo diverso da norme di legge, decreti, circolari. In Gran Bretagna, invece, questo sistema di finanziamento e “governo” del sistema è pienamente in vigore da molto tempo, con il ruolo tecnico che in Italia è attribuito all’ANVUR, svolto invece dagli “Higher Education Funding Council” delle diverse macroregioni (Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord).
Come si è detto, nell’Art. 1 commi 4 e 5 la Legge Gelmini sembrerebbe ribadire quanto stabilito dalla Legge 537 del 1993, precisando anche il compito dell’ANVUR per questa materia. In realtà la legge, sempre in nome della qualità ed efficienza, interviene contraddicendo in parte le procedure indicate dai commi 4 e 5 dell’Art. 1 e interferendo attraverso indicazioni legislative minute e parzialmente contraddittorie con le funzioni attribuite al Governo da questi commi.
La prima norma contraddittoria è quella che prevede finanziamenti “fuori sacco” attraverso “accordi di programma” con singole università (Art. 1 comma 6). Gli accordi di programma consentiranno elargizioni discrezionali che “tengono conto degli indicatori di contesto relativi alle condizioni di sviluppo regionale”. Vale la pena di osservare che il sistema di finanziamento previsto dalla Legge 537 del 1993, e confermato dai commi 4 e 5 della Legge Gelmini, è non solo molto efficace per governare un “sistema” (come dimostra proprio il caso della Gran Bretagna) ma, inoltre, essendo basato su parametri e formule esplicite, valide per tutte le università, dovrebbe rendere più difficili finanziamenti di favore, diretti a singoli atenei. Naturalmente questi finanziamenti di favore saranno invece possibili in virtù della norma introdotta dal comma 6 dell’Art. 1.
Pure incoerenti con i propositi espressi nei commi 4 e 5 dell’art. 1, sono le numerose disposizioni puntuali che prevedono distinte quote del (FFO) riservate ad incentivare o a premiare alcune scelte.
Così, ad esempio, l’art. 5, comma 3, lettere b) ed e), comma 4, lettera f), e comma 5, ed ancora l’art. 13). Ci si allontana in questo modo dall’idea di un’unica formula che, sulla base di parametri e dati rilevabili in modo affidabile, determina il finanziamento delle università. Al contrario alcune delle prescrizioni dell’art. 5 sembrano di difficile realizzazione, almeno se si intende realizzarle sulla base di dati affidabili e valutazioni condivise. Ad esempio sembra difficile trovare un modo razionale di distribuire una quota del FFO sulla base dei risultati di una valutazione delle “politiche di reclutamento”. Una difficoltà, e non certo l’unica, è data dal fatto che le scelte di reclutamento sono operate dai dipartimenti e il FFO è distribuito alle università.
Infine l’attesa dei decreti delegati previsti dalle deleghe di cui all’art. 5 potrebbe interferire con l’applicazione diretta della Legge 537 del 1993. Insomma il tentativo di ampliare i poteri del ministro nella distribuzione mirata del FFO potrebbe rivelarsi un ostacolo al ragionevole esercizio di poteri che il Ministro già possiede.
Un discorso a parte merita l’Art. 11, che destina una quota pari almeno allo 1,5 % del FFO ad una ripartizione “tra le università che, sulla base delle differenze percentuali del valore del fondo di finanziamento ordinario consolidato nel 2010, presentino una situazione di sottofinanziamento superiore al 5 per cento rispetto al modello per la ripartizione teorica del fondo di finanziamento ordinario elaborato dai competenti organismi di valutazione del sistema universitario”. Si suppone qui che l’ANVUR elabori una “formula di finanziamento”, che però questa formula non venga mai applicata integralmente, ma rimanga un “modello per la ripartizione teorica” del FFO. Sarebbero quindi sempre necessari “interventi perequativi” a favore delle università che sono finanziate meno di quanto non prevedrebbe il “modello”.
E’ stupefacente che “interventi perequativi” siano ancora necessari a sedici anni di distanza dall’introduzione del “modello di ripartizione dei finanziamenti” e che una loro parziale disciplina venga incorporata in una legge, come se la “perequazione” fosse destinata a non essere mai raggiunta. Interventi perequativi dovrebbero invece cessare quando si è raggiunta la perequazione. Che senso ha quindi prevedere che ad essi si destini almeno l’1.5% del FFO? Pure contraddittoria appare la previsione di una riduzione dell’intervento perequativo quando le misure di valutazione della qualità determinano un sottofinanziamento, perché a rigore queste misure dovrebbero essere incorporate nel “modello per la ripartizione teorica del finanziamento”. Infine l’ultimo periodo del secondo comma di questo articolo introduce una eccezione nel non meglio identificato “calcolo degli squilibri finanziari” per le università “sede di facoltà di medicina e chirurgia collegate ad aziende ospedaliere nate da ex policlinici a gestione diretta” (stiamo parlando, a tutti gli effetti, della Università Sapienza di Roma, ma anche delle due Università di Napoli e dell’Università di Messina.) Non si affronta invece una causa, forse la principale causa, degli squilibri finanziari per queste università, che è il fatto che l’attività assistenziale non rientra nelle attività che sono state considerate nei vari modelli di ripartizione dei finanziamenti. Sembra ovvio però che non dovrebbe essere il Ministero dell’Università a finanziare e valutare l’attività assistenziale, ma piuttosto il sistema sanitario nazionale.
6. Miscellanea.
La legge interviene anche minutamente su molti altri argomenti. Ne elenchiamo alcuni:
- Si prevedono (Art. 4), senza peraltro finanziarle concretamente, borse di studio (che si chiamano però premi o buoni di studio) di solo merito, sul modello di quelle bandite ogni anno dall’Istituto Nazionale di Alta Matematica.
- Si limita (Art. 14) ad un massimo di dodici crediti il riconoscimento di crediti formativi conseguiti fuori dell’ambito universitario (prima della legge il limite era sessanta)
- Si stabilisce (Art. 17) che un diploma universitario triennale anche se conseguito in una scuola diretta a fini speciali è equipollente alla laurea e dà diritto al titolo di “dottore”.
- Si consente (Art. 19) l’istituzione di dottorati di ricerca che non prevedono borse di studio. Questa disposizione, che si accompagna all’aumentato “valore legale” del dottorato, moltiplicherà i corsi di dottorato offerti dalle università italiane.
- Si stabiliscono (per legge!) le “abbreviazioni” Dott. Ric. e Ph.D. per il titolo di Dottore di Ricerca.
- Si subordina il congedo dei dipendenti pubblici per la frequenza di un dottorato al consenso della amministrazione di provenienza e si esclude che possa godere del congedo chi ha già conseguito un dottorato di ricerca.
- Si stabiliscono limitazioni minime di reddito per i titolari di contratti di insegnamento.
Non ho ancora finito di leggere con attenzione il malloppo: commentero' alla fine, in maniera cumulativa :)
Volevo nel frattempo approfittare per segnalare una lettera alla Gelmini (e Napolitano) scritta dagli alunni del Collegio Ghislieri: mi sembra molto lucida ed efficace.