Le moderne definizioni di “democrazia” differiscono in molti aspetti, ma condividono un elemento che corrisponde a quanto la nozione popolare del termine sottende, ovvero l’uguaglianza formale di chiunque sia in grado d’intedere e volere. Nel linguaggio quotidiano l'espressione "democrazia" è raramente qualificata con "parlamentare", "bicamerale", "presidenziale", "a doppio turno", e via cantando complicazioni elettive e di divisione dei poteri. Nel linguaggio quotidiano la parola "democrazia" significa anzitutto che ognuno ha e gode degli stessi doveri e diritti legali fra i quali, appunto, vi è anche il diritto di voto ed il diritto di essere eletto ad una qualsiasi carica politica. Ma un sistema legale che concedesse a tutti questi diritti politici discriminando, nel contempo, una parte della popolazione sul piano contrattuale (vietando per esempio il possesso della casa o di intraprendere certe professioni o anche solo di sedersi dove vi sia posto libero nell'autobus) sarebbe difficilmente considerato "democratico". Almeno nel senso in cui tale termine viene oggi (diciamo dalla fine della seconda guerra mondiale in poi) inteso.
Ad essere pignoli trattasi di un (il?) principio liberale non strettamente (tecnicamente?) necessario per definire un sistema politico come "democratico". Tale principio liberale, infatti, era ed è frequentemente violato in quelle che sino a due decenni fa venivano chiamate "democrazie popolari" e di cui la Repubblica Popolare Cinese e Cuba sono ancora degli esempi. Ma, appunto, nessuno di noi si sogna di considerare la Cina, o Cuba, dei paesi "democratici" anche se in entrambi tutti hanno teoricamente uguali diritti elettorali sia attivi che passivi. Infatti, (io credo ragionevolmente) molti nemmeno consideravano gli USA un paese compiutamente democratico sino a quando in vari stati del sud venivano mantenute forme di discriminazione legale verso i cittadini di carnagione oscura. Simili discussioni avvengono, oggigiorno, in relazione alle discriminazioni di cui sono oggetto, in Israele, i cittadini di origine araba (meglio, non di religione ebrea). Ad ogni buon conto, non è di tali questioni che mi voglio interessare ed ignorerò tali sottigliezze teoriche in questa sede prendendo come condizione necessaria (oserei dire sufficiente, ma mi trema un pelino il polso) di "democrazia" la totale uguaglianza formale di chiunque sia in grado d'intendere e volere a fronte delle leggi.
Oggi tale principio non ci appare solo naturale ma anche economicamente conveniente: riconosciamo i vantaggi che derivano dal concedere a tutti i medesimi diritti contrattuali, politici e di privatezza. È ovvio che è conveniente poter assumere chiunque si voglia a fare qualunque lavoro. È ovvio che è conveniente che chiunque possa firmare un contratto legalmente riconosciuto. È ovvio che chiunque possa farlo voti o si candidi a farsi eleggere consigliere comunale o provinciale. La discriminazione, il trattamento differenziale di un essere umano (capace di intendere e volere, questo è importante e ci ritorno sotto) in una qualsiasi circostanza legale o formale ci pare non solo assurda ma sconveniente. Ora, se ci pensate bene, tutto questo non è per niente "ovvio" né "naturale"; per lo meno se con "naturale" si intende ciò che accade nello stato di natura o nei suoi paraggi temporali (Neolitico o Mesolitico, più o meno) e se con "ovvio" si qualifica un concetto che tutti sempre e comunque dovrebbero accettare. 1+1=2 è ovvio, lo capisce anche il mio cane Rocco. Che tutti abbiano gli stessi diritti e doveri formali non sembra per niente ovvio, ad esempio, a Juan Carlos de Borbon (che, mi dicono, capisce che 1+1=2) o, per cadere in basso, ai membri di quella combriccola malavitosa che viene chiamata in Italia "Casa Savoia" (i cui membri, sempre mi dicono, trovano poco ovvio pure 1+1=2).
L'altra cosa interessante da notare è che, simmetricamente, tale principio non è una scoperta recente come i gluoni, il DNA o le collateralized mortgage obbligations: in molteplici momenti della storia dell’umanità tale principio venne teorizzato da molteplici soggetti. Molti attribuiscono persino ad un tale Gesù di Nazareth affermazioni di questo tipo, anche se a ben guardare l'attribuzione è fasulla ed il signore in questione, sempre che abbia detto quanto gli mettono in bocca, non era necessariamente un democratico. Ma quasi. Ad ogni buon conto, se l'erano pensata in parecchi, nel corso dei millenni, l'uguaglianza degli esseri umani ma quelli fra loro che hanno provato a metterla in pratica sono genericamente finiti male: cucinati, appesi, squartati, impalati, eccetera. Spesso dai medesimi a cui cercavano di spiegare "guardate che non siete meno del cane, guardate che anche voi dovreste avere gli stessi diritti del signor conte, di madama la marchesa e di quel puzzone del vescovo ...". Ricordate come, perché e per mano di chi son finiti i 300 ch'eran giovani e forti?
Insomma, per l'unanime accettazione ed attuazione del principio democratico abbiamo dovuto attendere la seconda metà del secolo XIX (se siete disposti ad accettare che gli USA post guerra civile fossero divenuti "democratici") o la seconda metà del XX (se siete di palato delicato). La grande maggioranza dei 6 miliardi e passa che inquinano il mondo, distruggono l'ecosfera e provocano il global warming attende ancora la democrazia. A mio avviso non è per caso: è perché sono dei morti di fame. Okkei, messa così è volgare, la riformulo. È perché sono economicamente e TECNOLOGICAMENTE (che è la stessa cosa) arretrati. Non hanno le tecnologie giuste, quindi non possono permettersi la democrazia. Non gli viene né ovvia né, tantomeno e più cogentemente, conveniente. Alla democrazia serve l'energia elettrica, il tostapane, il telefono, la divisione del lavoro e tante altre belle cosine che la grande maggioranza del mondo né ha, né sa usare, né (spesso) si sogna che esistano. Per questo motivo a costoro della democrazia non gliene frega nulla, e nemmeno la capiscono. Che è la ragione, fra le altre, per cui in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Etceterastan, guardano ai "nostri" giovanotti armati come se fossero dei marziani impazziti che rompono solo i coglioni al prossimo. Sto cominciando a pensare che non abbiano poi tutti i torti: i "nostri" giovanotti li abbiamo mandati lì a far su casino per cercare di imporre una cosa che non solo gli indigeni non capiscono, non è nemmeno CONVENIENTE, per loro! E la convenienza, ragazzi, alla fine della fiera è tutto ciò che conta per far andare avanti la storia.
Bando alle ciance, vengo al punto: intendo argomentare che il principio democratico, laddove è accettato, si fonda materialmente sul progresso tecnologico, meglio sul raggiungimento di un certo livello minimo di "tecnologia sociale", di "controllo dell'energia" e di "divisione del lavoro". La tecnologia moderna permette, giustifica e promuove la democrazia moderna. Senza l'una non c'è neanche l'altra, non sta proprio in piedi. La tecnologia moderna rende la democrazia naturale, ovvero “conveniente dati gli incentivi” (incentive compatible) nel linguaggio della teoria economica. In condizioni tecnologiche primitive, caratterizzate dalla scarsità di fonti d’energia e di macchine che permettano d’utilizzare produttivamente le capacità di uomini differenti, la disuguglianza degli esseri umani davanti alla legge appare non solo normale ma anche conveniente. Lo schiavismo, il feudalesimo, le molte forme di discriminazione che hanno caratterizzato e caratterizzano quelle società che, intuitivamente, definiamo come “non democratiche” si sostengono e giustificano sull’arretratezza tecnologica delle medesime. Il progresso tecnologico ha storicamente causato la progressiva democratizzazione dei sistemi socio-politici, tanto oggi come nei secoli che ci hanno preceduto.
Vorrei essere chiaro: parlo proprio di tecnologia, tecnica, τέχνη, non genericamente di educazione. Aver letto Schami e Sloterdijk rende senz'altro piacevoli affabulatori, ma per la democrazia ci vuole la dinamo, l'acquedotto municipale, il motore a scoppio, e via elencando tecnologie produttive che facilitino la divisione del lavoro. Soprattutto ci vuole un livello tecnologico che renda (quasi, in senso measure theoretical) tutti produttivi, ossia che renda l'economia, di produzione privata e scambio, "indecomposable", nel senso di Lionel McKenzie (ECA, 1981). Quando "tutti" sono potenzialmente più utili come produttori e scambisti che come schiavi, servi, servetti, negri/donne/spastici/cechi/quellochevoletevoi discriminati ed asserviti al "forte" di turno, allora la democrazia (come definita sopra) diventa conveniente. Ed anche ovvia, naturale, banale, inevitabile. Ed allora si fa, la democrazia, e si fa pure rapidamente e quei medesimi che prima inforconavano i 300 giovani e forti (okkei, i pronipoti dei medesimi) scoprono che la democrazia è ovvia anche per loro e non rovina le famiglie (anche se Juan Antonio questo non condividerebbe, que la culpa la tiene toda la democracia ...). Non so se mi spiego, spero di sì perché ora ho sonno e taglio qui. No, prima devo mettere il dubbio finale.
Sino ad ora è andata bene la relazione causale fra tecnica e democrazia, sino a diventare di supporto mutuo: mentre l'una (tecnica) progrediva essa permetteva lo stabilirsi dell'altra e l'altra (democrazia) appena prendeva un po' piede facilitava l'accelerazione del progresso tecnologico. Però, nell'apriori teorico, non vedo ragioni per cui debba essere così necessariamente: avrebbe potuto andar male. Almeno, il modellino che ho in mente non esclude per niente l'andar male: il monopolio tecnologico è possibile, è sostenibile e rende la democrazia non-sostenibile e non incentive-compatible. Vale quindi la pena chiedersi se questa interazione virtuosa possa mantenersi nei tempi a venire, o invece no: sono, le sorti, necessariamente magnifiche e progressive?
Io vorrei dire alcune cose.
Si è vero, in parte questa è l'accezione folk di democrazia, che implica una identità fra diritti, genericamente intesi, e la democrazia, intesa come il coronamento e l'inveramento dei diritti stessi. In realtà non è così. La democrazia, specificamente intesa, è una meccanica elettorale che comporta l'attribuzione di quote di potere o efficacia in ragione del numero di preferenze assegnate a qualcuno (potere) o ad una scelta, fra le molte possibili (efficacia): nel primo caso l'individuo assume un potere, nel secondo caso una scelta ottiene la possibilità di essere messa in pratica. Ovviamente, la meccanica descritta in maniera così minimale (si parla appunto di teorie minime della democrazia) ha bisogno di diritti che possano rendere le decisioni di attribuzione di potere a qualcuno, o di efficacia ad un corso di azione, non solo legittime rispetto alla meccanica delle leggi dei numeri, ma anche accettabili rispetto a standard esterni a quella meccanica stessa. In filosofia politica, un autore, collega di Alberto, ha parlato di due tipi di diritti: 1) diritti che definiscono come il processo democratico deve svolgersi; 2) diritti che conferiscono a quel processo una qualità che rende quei diritti sub 1) accettabili. Tutta questa solfa per dire che, seppure è ragionevole attendersi che i diritti sostanzino precisamente cosa può intendersi per modello democratico, almeno in Occidente, rimane che democrazia e diritti sono due cose differenti.
Infatti, la cosa che aggiungi dopo:
è più la definizione della Rule of Law, che della democrazia in senso stretto. Da un punto di vista concettuale, Democrazia e Rule of Law sono distinte, non solo perchè sono banalmente entrambe in contrasto (la democrazia, e le scelte assunte con metodo democratico, potrebbero ambire anche ad abrogare pezzi consistenti della stessa Rule of Law), ma essi collidono anche per via del tipo di legittimazione cui si appoggiano: la democrazia sarebbe volontà del popolo e dunque giusta perchè volontà di tutti o della maggioranza; la rule of law ricaverebbe la sua legittimità da un principio strettissimo di osservanza delle leggi. Quindi l'opposizione è 1) di contenuti; 2) di legittimazione; e infine 3) di organizzazione degli ordinamenti: le costituzioni, che sanciscono la priorità della rule of law anche sui pronunciamenti maggioritari democratici, dalle nostre parti, sono intese proprio come il correttivo e la limitazione dei possibili esiti delle procedure democratiche, che non possono abrogare principi fondamentali dell'ordinamento politico. Un esempio storico: il Gran Consiglio del Fascismo era un organismo democratico (che ha anche votato la destituzione di Mussolini), ma non riconosceva diritti eguali ai suoi membri, fra i quali uno, appunto, aveva più "diritti" degli altri.
Non so se ho capito bene. Tu sostieni che l'attribuzione di questi diritti formali di eguaglianza è non solo commendevole (questo immagino che tu lo pensi) ma anche conveniente. In realtà tu mi sembra che confondi (prendimi alla larga :-) ) appunto i diritti di base che danno qualità alla democrazia (la rendono credibile perchè ciascuno, esercitando quella meccanica dei voti è realmente libero di esprimere le sue preferenze) con la democrazia stessa. Tu poni per buona l'identificazione tra diritti e democrazia, e dunque poi passare oltre e non curarti di quello che io sto dicendo. In realtà però, l'indebita identificazione fra diritti e democrazia salta fuori comunque. Quella sfera di scambi che tu reputi conveniente, che probabilmente dovrebbe nelle tue intenzioni giustificare la bontà della democrazia, in realtà può avvenire anche in quadro di interazioni fra cittadini di tipo economico, senza comportare che a quegli scambi si associ una coordinazione di tipo democratico. Mettiamola così: da un punto di vista economico, dovremmo essere bene in grado di ipotizzare una coordinazione minima di scambi interessati, dove si tutelano i diritti negativi, quelli del titolo valido per ogni possesso e i diritti alla proprietà del proprio lavoro (nell'ordine i diritti negativi di I. Berlin che tutelano libertà di coscienza, di parola e non interferenza negli affari privati; l'idea che conta il processo storico di acquisizione come difeso da Nozick; e infine l'idea di Locke che siamo proprietari del frutto del nostro lavoro e delle trasfromazioni che quello produce su risorse in linea di principio accessibili a tutti). In una situazione del genere, che tu potresti dirmi, dovrebbe produrre convenienza, almeno dal punto di vista generale per il livello di benessere che produrrebbe in quanto esemplificazione pura di un mercato, la democrazia (come processo decisionale maggioritario)potrebbe anche non esserci, e i diritti sarebbero comunque formalmente rispettati...e l'introduzione di un livello di coordinazione minima di tipo democratico sarebbe addirittura un limite al conseguimento di quella efficienza o convenienza che tutti dovremmo trarre dai soli scambi economici...perchè la democrazia, trasferendo la legittimazione dell'ordinamento dalla semplice legittimità degli scambi fra cittadini in condizioni di mera libertà negativa, imporrebbe a questi anche il vincolo della legittimazione popolare, che a sua volta potrebbe indurre l'adozioni di tutele sociali (diritti positivi alla Berlin); contestazione delle serie storiche che hanno condotto ad un certo schema di distribuzione della ricchezza ("noi siamo quelli del cui lavoro vive l'intera società", R. Luxemburg agli operai); oppure all'idea che il lavoro non è come lo descrive Locke, ma ha in sè un grado di alienazione da meritare una riparazione, come diceva Marx. Dunque io non vedo come la democrazia possa essere intesa come un viatico alla convenienza dell'efficacia del sistema economico, o come la sua presenza possa rafforzare quei diritti. Ma forse tu volevi dire un'altra cosa. L'esercizio della democrazia, che parzialmente limita la pura convenienza o efficienza degli scambi economici, che possono avvenire anche in sua assenza, alla fine tutela quei diritti negativi tipici dello scambio economico meglio di una condizione di totale assenza di coordinazione democratica...la democrazia e il suo esercizio, d'altra parte, potrebbero essere visti come la garanzia meno peggiore per garantire quei diritti. Forse tu volevi dire questo. Però è strano, perchè tutti i pensatori liberali sono stati in genere molto attenti non solo a distinguere concettualmente il rapporto fra diritti e democrazia, assumendo che i diritti fossero il vincolo esterno da porre alla democrazia e alla sua involuzione; ma in genere si è anche assunto che la democrazia, nel suo funzionamento, abbia sempre come effetto di limitare la convenienza derivante dall'esercizio degli scambi economici. Però, se tu riesci davvero a dimostrare che la democrazia e le sue pratiche, non sono necessariamente un vincolo all'efficienza e alla convenienza, allora abbiamo un altro argomento a favore della democrazia.
Tu continui poi dicendo:
Democrazia e tecnologia, dunque, simul stabunt simul cadent. Preambolo: se tu vai a Napoli, e dici una cosa del genere, non farai notizia, te lo dico già. Il vero intellettuale che si rispetti deve fare diagnosi sulla dissoluzione della democrazia per colpa della tecnica! Figurarsi se deve addirittura legare le due cose in maniera positiva. Eppure sei veneto. Hai visto la fortuna di Cacciari, Galimberti e Severino? Filosoficamente, sviluppano un pensiero assai ostile alla scienza e alla tecnica e la conclusione politica di quel pensiero filosofico, che nella loro concezione architettonica del sapere e la regina di tutti i saperi, è che la democrazia è messa a rischio dalla tecnologia: per i suoi effetti di alienazione, per il suo individualismo proprietario esasperato, l'isolamento cognitivo che produce, crescita degli input disponibili che-modificano-antropologicamente-l'uomo...insomma, hai capito, vah, lasciamo perdere.
Torniamo a cose meno convulse. Tu sembri (dico sembri, eh, non sbranarmi :-) ) contraddirti. Quel principio di eguaglianza, che identifichi, con la democrazia, è molto antico ma non prevale perchè sono dei morti di fame. Dico che ti contraddici perchè non capisco se viene prima il principio democratico che poi produce democrazia; oppure la tecnologia produce democrazia. Tu sembri dire che si richiamano vicendevolemente e che se non ci fosse la tecnologia la democrazia sarebbe più difficile e allo stesso tempo, se non ci fosse la democrazia, la tecnologia non potrebbe svilupparsi. In realtà, conosciamo paesi poverissimi che sono state democrazie, e dove le democrazie prosperano senza avanzamenti tecnologici particolari. L'India era una democrazia anche prima del boom informatico di Bangalore, dunque non è vero che sia necessario avere la tecnologia per avere una democrazia vera e propria, almeno secondo quella definizione minima e imperniata sui diritti che tu offri. Ma in realtà sospetto che tu volessi dire un altra cosa. Ovvero che una democrazia funziona meglio in condizioni di avanzamento e sviluppo tecnologico, ma per ragioni che sono indipendenti dalla genesi storica della democrazia, ma per il modo in cui funziona l'avanzamento delle scoperte scientifiche. E qui dunque ti dico la mia.
Invece di impelagarci intorno a questioni difficili (nasce prima la tecnologia o la democrazia?) io sposterei la cosa in questi termini: lo sviluppo e la diffusione della tecnologia hanno un meccanismo che può facilitare la democrazia? Voglio dire: ci sono dei modelli di sviluppo delle regioni tecnologicamente avanzate che possono, indirettamente o involontariamente, favorire i processi democratici? Speculo. La tecnologia richiede livelli di competizione fra gruppi di ricerca; la concentrazione in certe zone di personale altamente qualificato, che ha esperienze di formazione e lavoro in varie parti del mondo; in quelle zone conta parecchio la libertà nella trasmissione dei saperi di base che dovranno essere utilizzati nelle tecnologie da creare; e importante che si garantisca una mobilità non solo intellettuale ma anche fisica ai ricercatori; si deve poter godere dei frutti della propria intrepresa intellettuale dandole un valore economico. Ecco il mio punto è che tutte queste cose (che corrispondono a diritti negativi di base) possono essere meglio tutelati all'interno di condizioni di libertà quali quelle tipiche delle democrazie, che dunque subiscono l'effetto di rinforzo al loro funzionamento, dal fatto che esistano tecnologie diffuse e altre in produzione. L'idea è che una società che voglia essere conveniente e tecnologicamente avanzata ha bisogno di quelle istituzioni democratiche centrate sui diritti di cui ti parli. Dunque non è che la democrazia si fonda materialmente sempre e necessariamente sul progresso tecnologico. Piuttosto è meglio dire che una buona democrazia, una democrazia dove è conveniente e bello vivere, ha bisogno di lasciare alla tecnologia e al suo sviluppo più spazio possibile, perchè quello è un indicatore affidabile che la democrazia (come libertà di idee e mobilità di persone e godimento dei frutti del proprio lavoro-tutte definizioni tipiche delle idee minime di democrazia) sta funzionando bene.
Ovviamente, come già accennato, questa visione illuminista della democrazia, è in contrasto con tutte le forme di pensiero dis-topico che specie nel pensiero politico e nella letteratura del '900, hanno identificato il progresso tecnologico con i rischi del Grande Fratello (quello di Orwell non la Marcuzzi); e via via tutto il pensiero della scienza come alienazione. Io dico solo una mia intuizione, peraltro banalissima, a proprosito di questa tiritera sui rischi totalizzanti della tecnologia. Anche se la critica usuale è che questa tecnologia sia pericolosa per la chiusura nel privato e lo svuotamento delle istituzioni sociali che questa produce (tra le vittime anche la democrazia di massa e la partecipazione capillare ai partiti), io penso che la tecnologia diventa un rischio proprio quando gli individui non ne beneficiano più direttamente, ma solo in quanto parte di un progetto politico o sociale dove loro sono utilizzati come tecnologia a loro volta. Quindi invece di vedere la tecnologia come pericolosa quando riduce il suo esercizio alla "fruizione" privata, al contrario vedrei rischi quando la tecnologia è utilizzata con scopi politici coordinati super-individuali. Forse è una cazzata, ma sempre meglio dell'idea che la tecnologia è pericolosa solo perchè la gente sta a casa su internet invece che andare nella casa del popolo.
Ho scritto una cosa lunghissima e sto per fare quello che fanno i monaci buddisti coi quei disegni fatti di sabbia chiamati mandala: ci mettono un casino di tempo a farli, ma poi appena finiti li distruggono...così, per imparare che niente è importante.
Galimberti e Cacciari non so (e, per quel che ho letto, non mi interessa minimamente), ma Severino NON sviluppa un pensiero ostile alla Tecnica.
Anzi, trovo che questo intervento sia molto "Severiniano". Hai letto Severino?
Sono d'accordo. Leggendo l'articolo concordo con il ragionamento, ma continui a usare la parola democrazia che secondo me stona, perche' sono abituato a pensarla come il potere del popolo (di una maggioranza), come un sistema elettorale che non c'entra con il concetto che stai utilizzando tu.