Abbiamo riflettuto a lungo nelle precedenti puntate sulle differenze tra immigrati e nativi e sul perché queste differenze siano rilevanti nel progettare una politica ottimale dell’immigrazione. Quale politica dell'immigrazione adottare, dunque? Un lettore ci ha fatto giustamente notare che è tardi rispetto alla campagna elettorale (le elezioni del 4 marzo sono a meno di una settimana) ed è tardi in generale, avremmo dovuto fare questa discussione e fare proposte concrete 20 anni fa. Meglio tardi che mai, anche perché i problemi di cui stiamo parlando assilleranno le società occidentali per svariati decenni.
Aldo. Prima dobbiamo metterci d’accordo: per chi è questa politica? Come economisti possiamo rispondere a questa domanda decidendo quando peso diamo al benessere di quelli che sono coinvolti, direttamente o indirettamente, da questa politica (tecnicamente: pesi paretiani). Io vedo due soluzioni: la prima, che preferisco, è che ogni paese dia ai propri cittadini peso uguale a uno, e zero a tutti gli altri. Questa soluzione dà il potere di decidere a chi vive in un certo paese con le conseguenze delle decisioni. Se loro vogliono essere, per loro volontà, generosi con gli altri, benissimo (e sono sicuro che gli italiani lo saranno, come lo sono). Ma i patti, e l’assetto della politica, sono chiari. L’altra è quella di dare peso uguale a tutte le persone nel mondo. Lascio al papa difendere questa seconda posizione; se chi la fa è un politico, dovrebbe dirlo chiaramente ai propri elettori, e sentire che dicono. Soluzioni intermedie (per esempio, che noi unilateralmente diamo peso uno ai cittadini e peso 0,5 agli immigrati, e quindi zero a chi sta a casa) sono improponibili, perché ovviamente ingiuste e perché ignorano le conseguenze negative della emigrazione su chi resta (come abbiamo visto per la politica che guida il NHS). Però questa è la soluzione che stiamo adottando di fatto oggi.
La prima condizione per avere una politica dell'immigrazione è averne il controllo. La prima cosa da fare è quindi riprendere il controllo dell'immigrazione. La politica sull'immigrazione non la possono decidere le autorità europee o le corti di giustizia. Nè possiamo solo decidere quanti di quelli che vogliono arrivare in Italia possono entrare. Questa decisione non sta ai potenziali migranti, ma ai cittadini italiani. Ci sono trattati internazionali che sono stati sottoscritti in situazione completamente diverse e che ora hanno conseguenze ben diverse da quelle cha avevano quando li abbiamo sottoscritti. La Convenzione sullo statuto dei rifugiati è del 1951, un periodo storico completamente diverso. Una convezione che sostanzialmente lascia alla dichiarazione di chi arriva lo stato di rifugiato (articoli 31, 32 e 33) e gli garantisce nel frattempo tutti i benefici di un welfare state che nel 1951 non esisteva, è da rivedere per garantire i diritti dei veri profughi, e non di quelli finti.
Questa politica deve aver presente in modo prioritario che le trasformazioni demografiche sono irreversibili, cioé deve essere lungimirante. Quindi anche se diamo poca importanza al futuro, dobbiamo considerare che un errore avrà conseguenze in un orizzonte temporale di secoli. Questa non è una scelta secondaria, come entrare nell’area dell’euro nel 2002 e poi vediamo se vogliamo rimanere. Contrariamente a quanto si dice, la popolazione italiana è per composizione stabile da diversi secoli. La trasformazione avvenute negli anni dal 2000, e in particolare quella fra il 2014 e il 2017, e quelle che ci aspettano se le lasciamo accadere, sono su quella scala centenaria un cambiamento sostanziale. I demografi futuri lo vedranno sui grafici con secoli sull’asse dei tempi.
Possiamo fare una politica di aiuto ai paesi che ne hanno bisogno: nei diversi fronti, si parla di un piano Marshall per l‘Africa, o di "aiutarli a casa loro". Bene, facciamolo. Ma non ci dobbiamo fare illusioni; possiamo contribuire a rendere la situazione meno drammatica, ma certo non possiamo renderla tale da rendere una emigrazione di massa meno desiderabile, quindi esercitare il controllo sull'emigrazione è irrinunciabile. Le proiezioni ONU danno la popolazione africana a quattro miliardi o più nel 2100 (1.2 miliardi oggi, 2 miliardi nel 2040; la popolazione europea corrente è circa 750 milioni, e rimarrà tale); e a partire dal 2000 l’Africa è entrata in una crisi alimentare che ha raddoppiato la quantità di cibo che importa. Gli aiuti i paesi ricchi li stanno già dando, ai paesi da cui viene l’emigrazione, per un totale per anno di 142 miliardi. Il piano Marshall è stato un aiutino su cinque anni di 140 miliardi di dollari in valore corrente ai paesi dell’Europa occidentale (tutti quelli che non erano nell’area sovietica, esclusa solo la Spagna; l'Italia ebbe 13 miliardi). Il piano cominciò nel giugno 1948 e finì nel 1952, anno in cui le economie europee erano già sopra il livello del 1938, prima della guerra. C'è qualcuno che pensa che fra quattro anni le economie che vogliamo aiutare avranno una prestazione simile e i loro cittadini vorranno quindi rimanere nel loro paese di origine? O fra quarant'anni?
Le società con profonde differenze culturali non hanno coesione sociale. È anche peggio se le divisioni sono di natura religiosa e etnica. Il multiculturalismo, quindi, non funziona. Un esempio di divisione quasi esclusivamente culturale (linguistica) è il Belgio, dove le radici della divisione in due comunità linguistiche risalgono a 14 secoli fa, non si sono mai sanate, e stanno producendo la disintegrazione del paese. Quando le divisioni sono religiose, la separazione è spesso tragica (come per India e Pakistan). Quando a queste si aggiungono le divisioni etniche, l’esito spesso è la pulizia etnica (come in Jugoslavia, ma anche come in Sudafrica e in Zimbabwe, dove la minoranza etnica bianca sta scomparendo, in un modo o nell’altro). In Italia la natura dell'immigrazione possibile ci porterebbe a una società divisa per motivi culturali, linguistici, etnici e religiosi.
Lo sviluppo possibile in società non omogenee dipende dalla collocazione geografica delle varie componenti. Quando ci sono regioni omogenee al loro interno, ma diverse fra loro, l’esito è la secessione (Catalogna, Sud Italia, Fiamminghi, Scozia). Quando ci sono sostanziali minoranze, non abbastanza grandi da permettere una secessione, l'esito è la ricollocazione (come quelle a margine della scissione fra India e Pakistan, o la ricollocazione delle minoranze tedesche subito dopo la fine della seconda guerra mondiale). Il caso più tragico è quando le divisioni sono sparse su tutto il territorio, come sta avvenendo in tutti i paesi europei con alta immigrazione. L’esempio chiaro sono gli Stati Uniti, con due minoranze (neri e latini, rispettivamente 13 e 17 per cento circa) che sono sparse nel territorio (con l’eccezione della California, che infatti ora ha spinte secessioniste). Gli USA si stanno progressivamente dividendo secondo linee razziali; poiché secessione o ricollocazione sono impossibili, il risultato è un conflitto permanente, un risentimento inestinguibile, che si manifestano in tutti gli aspetti della vita sociale, da quello economico (la crisi fiscale, l'immigrazione) a quello culturale. Anche in questo caso, l’Italia sembra avviarsi verso la peggiore combinazione possibile.
Alla domanda "qual è il numero ottimale di immigrati?", dobbiamo aggiungere "e quali immigrati?’’. L’idea di fondo del modello di selezione Roy-Borjas, di selezionare "i migliori e i più brillanti" mi va benissimo, ma bisogna farla funzionare, se possiamo; se non possiamo, dobbiamo pensare ad altre strade. Bisogna considerare realisticamente quali immigrati siamo capaci di attrarre. Per esempio, in confronto ai bacini di attrazione per UK e Giappone noi abbiamo un bacino più piccolo e più rischioso. Nella competizione fra paesi a bassa fertilità siamo in posizione svantaggiata. Se possiamo attirare solo persone che rendono il benessere di tutti peggiore, allora è meglio non avere immigrati, e concentrarci su politiche di incentivo alla fertilità. La popolazione totale residente in Italia prima o poi si dovrà fermare e ci sarà da affrontare una transizione a un livello stabile. La caduta del tasso di fertilità ci dice che il momento migliore di farlo è oggi. Abbiamo le risorse per farlo, e su questo dovremmo concentrarci. Il Giappone ha scelto una via diversa da quella che i paesi europei hanno preferito negli ultimi anni, che consiste nel metterci una toppa e poi speriamo che vada a finire bene. Vedremo fra cento anni chi ha avuto ragione, quando loro avranno già completato la transizione, e noi dovremo farlo nel mezzo di conflitti religiosi, etnici, sociali permanenti. A differenza del Giappone, dobbiamo essere più creativi nell'incentivare la fertilità. C'è evidenza che oltre un certo livello di sviluppo o di PIL la fertilità torna a salire. L’Italia ha avuto, tra il 1995 e il 2008, una ripresa della natalità da 1.19 a 1.45. La fertilità nei paesi europei non è uniformemente bassa: paesi come la Francia o i paesi del nord che hanno una politica di assistenza per le donne sono intorno a un tasso di fertilità di 2, paesi come la Germania e l’Italia che non la hanno sono intorno al’1.4.
Poi non perdiamo di vista le nozioni elementari: il benessere di un paese dipende dal PIL pro capite, non quello totale; se aumentiamo il PIL del 10 per cento e la popolazione del 20 per cento, siamo tutti più poveri. Ora, il nesso tra immigrazione di massa e produttività di una economia (e quindi del PIL pro capite) va chiarito, e forse si potrebbe fare se gli accademici volessero farlo. Ma due considerazioni sono d’obbligo. La prima è che non basta osservare che più siamo, più produciamo, e quindi meglio stiamo. Bob Rowthorn, economista della tradizione di sinistra ha scritto un libro scettico sulla immigrazione di massa ricordando proprio il punto che aumentare il PIL non equivale ad aumentare il welfare. La seconda è che la questione non è accademica, cioè è troppo seria per lasciarla agli accademici; e anche se gli accademici si decidessero a farlo (e io ne dubito) per l'immigrazione bisogna decidere domani. Allora vale una considerazione di prudenza: le modifiche alla popolazioni sono irreversibili, e il costo di un errore, permettendo una larga immigrazione, è ben più grave di quello opposto .
Alla fine, i dettagli della politica li decide la gente, di cui ho fiducia. Basta che guardino la realtà che hanno davanti, pensino con la loro testa e non stiano ad ascoltare i ricatti di una classe di politici che è (specie quella europea) di infimo ordine, quando dicono "Se non pensi come me sei un burino bigotto". Basta questo.
Giulio. La prudenza quando le conseguenze degli errori sono costose e irreversibili è certamente un saggio principio. Ma esiste una pressione migratoria verso l'Europa che è molto costoso contenere. Attenzione, non sto dicendo che siccome c'è questa pressione allora non possiamo farci niente. Al contrario, possiamo farci molto, come spiego meglio sotto, ma non dobbiamo illuderci: i flussi si possono in parte controllare ma in parte vanno governati per quello che sono. In questo contesto, la mia risposta alla domanda “Che fare?” si riassume così: primo, distinguere tra rifugiati e immigrazione economica. Secondo, riscrivere ex-novo regole semplici e generose ma molto severe per entrambi i casi (cioé il contrario di quello che vige adesso in Italia). Terzo, integrare attraverso un nucleo di pochi principi “costituzionali” fondamentali che ogni immigrato deve accettare, superando così la duplice, opposta illusione dell’assimilazione e del multiculturalismo.
Nel resto di questo mio intervento sviluppo queste proposte e, per dargli un fondamento, è utile anche qui come nel corso della discussione nelle due precedenti puntate di questo dialogo iniziare con un benchmark, un caso estremo, per poi capire come e perché ci si debba discostare da esso. Il benchmark in questo caso è quello delle frontiere aperte (“open borders”), esattamente come facciamo per il commercio internazionale all’interno delle aree di libero scambio e nei mercati finanziari attraverso la libera circolazione dei capitali. All’interno dell’UE, specificamente nell’area “Schengen”, anche le persone si muovono liberamente. Open borders quindi per i beni, i capitali e i lavoratori, cioé per i fattori produttivi mobili e per quello che questi fattori producono e che possa essere trasportato da un posto a un altro. La teoria economica ci dice che se quello che ci interessa è il "benessere dell’umanita’" (misurato come hai spiegato tu all'inizio, cioé con una funzione di "benessere sociale" che dia un certo peso a ciascun individuo) allora la domanda "che fare?" ha una semplice risposta: aprire le frontiere limitando ogni restrizione all’immigrazione, cioé libera circolazione delle persone tra mercati del lavoro in luoghi diversi ("ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare", per dirla alla Guccini), esattamente come dovremmo fare (e per lo stesso motivo) coi mercati internazionali dei beni e dei capitali. Naturalmente la politica dell’immigrazione, come quella del commercio e quella finanziaria, genera vincenti e perdenti, accontenta qualcuno e scontenta qualcun altro. Le decisioni politiche hanno sempre questa caratteristica, ma la società nel suo insieme guadagnerebbe, nel modello che sto descrivendo, da una politica open borders. Nel caso di frontiere aperte all’immigrazione il guadagno maggiore è per gli stessi migranti. Non a caso molti fanno osservare che sarebbe questa la politica più efficace per ridurre la povertà e la disuguaglianza globali (così come la globalizzazione del commercio ha contribuito enormemente a ridurre la povertà e la disuguglianza tra paesi ricchi e paesi poveri).
Bene, questo è il benchmark. La realtà è diversa essenzialmente per due motivi. Primo, per il motivo che hai detto tu sopra. Generalmente il governo sceglie la politica dell’immigrazione considerando il benessere degli elettori, e siccome gli immigrati non votano (non quelli di prima generazione, almeno) il governo non ha generalmente incentivi a considerare il loro benessere. Peso pari a uno a ciascun cittadino, zero per tutti gli altri. Secondo, i processi migratori generano esternalità negative se gli elettori hanno una preferenza per una certa composizione della popolazione e se gli immigrati, come discusso nelle precedenti puntate, sono diversi dai nativi per cultura, religione, o altre caratteristiche rilevanti. Mettendo insieme questi due motivi, una politica dell’immigrazione open borders non è necessariamente ottimale. In altre parole, in una democrazia la risposta alla domanda "Che fare?" riflette in qualche modo le preferenze degli elettori. Se gli elettori volessero chiudere le frontiere, nessun governo potrebbe lasciarle aperte, così come se gli elettori volessero open borders nessun governo o intellettuale potrebbe persuaderli che vanno invece chiuse se no il paese è finito. Siamo quindi d'accordo su questa premessa.
C’è però un'altra cosa sulla quale non solo io e te ma tutti dovremmo essere d’accordo, e questa è la mia prima risposta pratica alla domanda “Che fare?” in materia di politica dell’immigrazione in Italia e in Europa. Tutti dovremmo essere d’accordo su questo principio di legalità: i processi migratori, come ogni altro fenomeno sociale ed economico, devono essere ordinati e quindi avvenire nel rispetto delle regole che una comunità si dà. La prima cosa da fare è quindi stabilire queste regole in modo chiaro e far rispettare il principio che si può immigrare e risiedere nel paese solo nel rispetto di esse, cioé legalmente. Naturalmente l’immigrazione irregolare esisterà sempre in un paese soggetto a pressioni migratorie e non sarebbe ottimale ridurla a zero a qualsiasi costo, specificamente qualsiasi costo di controllo delle frontiere. Può essere però ridotta al minimo stabilendo bene le regole, che devono essere semplici e poco restrittive ma fatte osservare rigidamente (l’illegalità diffusa riflette spesso regole complicate ed eccessivamente restrittive che rendono troppo costoso il rispettarle e il farle rispettare). In Italia e in Europa si sta facendo il contrario: regole complicate e molto restrittive sulle cui violazioni si chiude poi spesso un occhio anzi due.
Il principio di legalità in Europa, e in special modo in Italia, oggi non ha alcuna forza e i risultati sono: il caos nei processi migratori; il risentimento della popolazione nativa che alimenta le forze politiche populiste e anti-immigrazione; un danno enorme per gli immigrati stessi per le forme di discriminazione statistica che naturalmente ne derivano. Mi spiego con un esempio. In molte città italiane sono ben visibili specifici gruppi di immigrati specializzati in specifiche attività illegali, come il commercio al dettaglio (per strada) di droghe o l’accattonaggio molesto (e non sto facendo il bigotto: da tempo sostengo che le droghe dovrebbero essere legalizzate in modo da eliminare proprio il sottobosco di criminalità, micro e non, che sempre origina dal proibizionismo). Questi gruppi sono naturalmente esigue minoranze (spesso indotte nell’illegalità da regole troppo stringenti) ma il problema è che sono ben visibili e creano degrado urbano, un senso di insicurezza e fastidio nella popolazione locale. Siccome la maggioranza che invece lavora e conduce una normale vita è poco visibile (essendo appunto del tutto normale) si genera un meccanismo perverso di discriminazione statistica per cui quelli che assomigliano alle minoranze più visibili perché dedite ad attività illegali vengono considerati come dei poco di buono con alta probabilità. Imporre la legalità beneficia quindi innanzitutto gli immigrati stessi. A questo fine, serve riscrivere alcune regole.
Queste regole vanno riscritte distinguendo tra rifugiati e immigrazione economica. L’accoglienza dei rifugiati è un principio umanitario al quale la società occidentale non può rinunciare. Nessuno di noi chiuderebbe la porta in faccia a chi scappa dalla guerra o dalla persecuzione a causa della propria etnia, della propria religione, del proprio sesso o del proprio orientamento sessuale. Il processo deve però essere il più possibile ordinato. Certamente chi scappa non può attendere e deve approdare rapidamente in un luogo sicuro. Questo luogo sicuro non deve però essere il Mediterraneo (che sicuro non è per niente) ma può essere un hotspot dell’Unione Europea in punti focali per chi fugge, per esempio i paesi del Nord Africa e la Turchia. L’UE ha certamente il potere negoziale di concludere accordi con paesi come il Marocco, la Tunisia, l’Algeria, la Libia, l’Egitto e appunto la Turchia per stabilire in quei paesi centri di accoglienza e identificazione dei rifugiati (magari in collaborazione con questi stessi e altri paesi affinché i rifugiati siano distribuiti tra molti paesi e, possibilmente, continenti diversi). Le domande di asilo si processeranno durante la permanenza in questi centri e coloro ai quali viene riconosciuto lo status di rifugiato vengono trasferiti in Europa (o altrove) in sicurezza con navi e altri mezzi militari. Ai rifugiati deve essere permesso di lavorare e di condurre una normale vita in Europa (o altrove) durante il periodo di accoglienza e finché permane nel paese d’origine lo stato di pericolo che li ha indotti a fuggire (che potrebbe anche essere per sempre). Terminato questo cessa anche il periodo d’accoglienza. Le stesse norme internazionali che regolano i rifugiati vanno riscritte radicalmente, come anche tu suggerisci, perché quelle attuali non solo riflettono l’esperienza di un mondo che fu, sono obsolete, e si prestano ad abusi. Su questo punto tonerà nei prossimi giorni Axel Bisignano con un articolo specificamente dedicato al tema delle norme per i rifugiati.
Per i migranti economici la questione è diversa. Qui la società deve scegliere quanti accoglierne. Questo davvero dipende solo da cosa vogliamo come comunità (nel senso che tu hai ben descritto), oltre che dalla capacità "tecnologica" di assorbimento di una maggiore forza lavoro con specifiche caratteristiche e di una maggiore popolazione che domanda come i nativi servizi pubblici. Abbiamo discusso a lungo nelle precedenti puntate di come immigrati e nativi siano diversi e dei benefici e dei costi che derivano dall’immigrazione. Vi sono indubbiamente benefici, come sempre ve ne sono stati storicamente per i paesi più ricchi riceventi immigrazione da quelli più poveri. E vi sono indubbiamente dei costi, come la minore coesione sociale derivante da importanti differenze culturali di cui hai detto sopra. Dobbiamo realisticamente bilanciare questi costi e benefici. Nel far questo non bisogna però illudersi sul processo di integrazione. Esistono due modi di integrare una popolazione immigrata: il multiculturalismo o l’assimilazione. L’alternativa è la non integrazione. Quest’ultima è la peggiore scelta perché significa creare una società con gruppi in perenne conflitto, mentre l’assimilazione è un’utopia perché tutta l’evidenza disponibile ci dice che la cultura degli immigrati è altamente persistente (ed è giusto che sia così, come sa bene chi, come me e te, è stato oppure è un immigrato). D’altronde, dopo gli entusiasmi degli anni 80 e 90 del ventesimo secolo, abbiamo ormai capito, concordo con te, che anche il multiculturalismo è un’utopia perché i processi migratori moderni generano elevata eterogeneità culturale, religiosa e quindi di norme sociali all’interno dei paesi occidentali. Quello che secondo me si deve fare qui è stabilire in Europa una forma di multiculturalismo minimalista, cioé l’integrazione attraverso un set minimo di regole “costituzionali” europee, di pochi principi fondamentali per la convivenza. Così a naso questi dovrebbero essere principi fondamentali delle democrazie occidentali quali il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali (inclusi la libertà religiosa e quella di orientamento sessuale), la separazione tra la sfera civile e quella religiosa, il rispetto delle leggi che una comunità si è data. Una volta stabilite poche regole fondamentali si può stabilire che queste sono le condizioni necessarie alla convivenza in Europa e che chi vuole venire a vivere qui deve accettare. L’adesione pubblica a questi pochi, essenziali principi è fondamentale perché segnala la possibilità della convivenza. Mi si dirà che molti nativi europei non li accettano. Ma certamente si può chiedere a chi vuole vivere in Europa di accettarli. Attenzione che questo è molto diverso da una pretesa di assimilazione o di accettazione della cultura europea. Sto parlando di un insieme minimale di principi senza i quali la convivenza è impossibile.
Io penso che dovremmo adottare una politica dell’immigrazione generosa ma inflessibile. Cioé una politica che tenga le frontiere il più possibile aperte, in modo da dare al maggior numero possibile l’opportunità di immigrare legalmente alle condizioni sopra descritte, ma che sia inflessibile quando viene violata la legalità. Serve anche qui il potere negoziale dell’UE per fare accordi, laddove possibile, per il rimpatrio degli immigrati economici (non certo dei rifugiati) che violino le regole della convivenza, specialmente durante i primi anni di permanenza nel paese, che dovrebbero costituire una sorta di periodo di prova. I rimpatri posso avvenire con voli di linea, pagati con una somma di denaro che si può chiedere agli immigrati economici (non certo ai rifugiati) di versare all'ingresso nel paese acquistando un bond che frutta interessi e che può essere liquidato o al rientro nel paese di origine o all'acquisizione della cittadinanza. Violazioni rilevanti delle regole della convivenza possono essere misurate con le condanne penali. Una condanna penale dovrebbe essere sufficiente al rimpatrio perché segnala il fallimento dell’integrazione minimale sopra descritta nella società accogliente. Certamente anche gli italiani delinquono ma in questo caso sono già in patria. Se una società può scegliere chi far entrare nel paese certamente non vorrà far entrare chi si dedica poi ad attività socialmente dannose.
Si notino due fondamentali vantaggi di regole di questo tipo: esse sono in grado di stabilire un processo dell’immigrazione ordinato (scoraggiando forme di moral hazard da parte di potenziali migranti) e di favorire una selezione positiva degli immigrati nel senso del modello Roy-Borjas di cui parlava Aldo sopra. Non solo in termini di abilità utili nel mercato del lavoro ma anche e soprattutto in termini di attitudini civiche che favoriscano l'integrazione minimalista che ho descritto e quindi la coesione sociale sui pochi principi necessari e sufficienti alla convivenza di culture diverse.
Posso dire che non mi pare la societa' USA si stia "progressivamente dividendo secondo linee razziali"? Nella scuola di mia figlia ci sono famiglie di tutte le razze, cosa di cui gli amministratori sono molto orgogliosi, quando non hanno in realta' il coraggio di ammettere che queste famiglie apparentemente tanto diverse SONO TUTTE UGUALI. Non voglio certo affermare che gli negli USA vi sia una societa' omogenea, ma la divisione principale non e' razziale, e questo e' piu' vero oggi di quanto non fosse 20 anni fa quando sono arrivato (anzi, 25).
La divisione e' principalmente economica e i tratti di classe sono tanto visibili quanto il colore della pelle e molto difficili da superare in eta' adulta: accento, linguaggio (Trump e George W sono molto bravi in questo), cura dei denti e della persona, modo di vestire, hobbies, familiarita' con riferimenti pop-culturali, flessibilita' negli orari di lavoro, e cosi' via... Esiste una classe intermedia di persone economicamente svantaggiate ma che interagiscono (nei luoghi di lavoro) con la classe agiata e (in qualche caso) ne adotta i tratti, ma sostanzialmente questa e' la divisione, che viene perpetuata anche da una segregazione geografica estrema e in aumento. Poi certo, all'interno della lower class ci sono i bianchi e i neri, ma non capire qual e' la dicotomia rilevante e' il primo problema di chi si lascia abbindolare dalla retorica di Ta-Nahesi Coates & Co.
Ma questo cosa c'entra con il vostro argomento? Secondo me c'entra perche' non credo Aldo abbia centrato il problema. Il primo problema dell'immigrazione e' che va a competere direttamente con la classe sociale di cui parlavo, mentre e' complementare ai benefici della classe dominante, a cui non frega se fra 50 anni le pizzerie sono sparite per lasciar spazio a ristoranti con kebab e falafel. I loro figli vogliono essere portati a mangiare sushi, altro che pizza. Il bello delle' societa' occidentali pero' non sono le pizze, e nemmeno i sushi. Sono i diritti civili e le opportunita' di mobilita' intergenerazionale. Andrebbe secondo me articolato il motivo per cui una politica di immigrazione piu' o meno restrittiva va ad intaccare questi diritti, perche' non sono sicuro che debba essere cosi', ma a me pare che il rischio corrente sia che la paura dello straniero ci faccia rinunciare a parte di essi.
A me sembrano due facce della stessa medaglia. Aldo sottolinea l'importanza dell'omogeneita' per la coesione sociale, un punto indubbiamente importante. L'omogeneita' pero' dipende da molte caratteristiche. La cultura e' una, lo status socioeconomico e' un altro. Infatti la maggiore difficolta' a collective action in comunita' eterogenee mi e' sempre sembrato il piu' forte argomento su perche' dovremmmo preoccuparci della disuguaglianza economica. Poi spesso queste due dimensioni sono correlate per cui e' difficile separarle. Ed e' un punto che si applica anche alle migrazioni interne: quando famiglie povere dal sud Italia si trasferivano nel piu' ricco nord si poneva lo stesso problema, anche se la nazionalita' e la religione erano le stesse e la lingua e la cultura erano simili.
Mi sembra nessuno abbia ricordato che paragonare gli USA all'europa in fatto di divisione bianco/neri è non banale. Negli USA vigeva la segregazione, e qualche anziano se la ricorda ancora bene, immagino. In Europa non era cosiì diffuso lo schiavismo e pertanto non c'è stata segregazione (imposta dalle leggi). Per cui, come si dice sotto, vedere compagnie di ragazzini miste che non si vedono negli USA mi sembra normale. Al limite in Europa si possono sentire gli echi del colonialismo, che è altra cosa. Molto meno percettibile.