Tra il dire e il fare … ovvero: PMI e decreto “anticrisi”

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È la nuova parola d'ordine. Tutti hanno scoperto quanto sia determinante il supporto alla cosiddetta economia reale che, nell'ambito italiano, vuol dire piccola e/o media impresa.

S'immaginano ricette, ci si scambia il consueto j'accuse, ci si attribuisce la primogenitura dell'attenzione, si chiacchiera molto ..... spesso senza avere la minima idea delle reali situazioni sulle quali si vuole intervenire. È opportuno, allora, cercar di fare un po' di chiarezza, allo scopo di comprendere quali siano le urgenze da affrontare e quali i motivi che spingono a considerare inadeguata l'azione di governo.

Non si elemosinano trattamenti di favore, si vuol bensì dare evidenza a normative e comportamenti che minano le basi della competitività, creando condizioni di svantaggio rispetto ad altri paesi, forse con l'unico risultato di perpetuare il controllo delle risorse da parte della casta politica, che se ne serve per garantirsi il potere.

In un contesto di mercato sempre più difficile, i principali problemi che le piccole e medie imprese si trovano ad affrontare - tra loro interconnessi - sono relativi alla solidità patrimoniale ed alla carenza di liquidità: questi sono dunque gli aspetti sui quali occorre concentrarsi, se l'obiettivo è quello – da più parti dichiarato – di fornire sostegno al nostro sistema produttivo, caratterizzato dalla modesta dimensione aziendale.

Alcune proposte in tal senso sono state da tempo avanzate dalla Piccola Industria confindustriale ma, sebbene successivamente condivise ed appoggiate anche dai vertici associativi, non pare che – almeno per il momento – abbiano ispirato le ipotesi di lavoro governative che, anzi, sembra le abbiano utilizzate a scopo di copertura delle pudenda, vantandone la realizzazione ma, di fatto, snaturandole e rendendole così inefficaci o, in alcuni casi, persino dannose. Affrontando la prima questione, è corretto osservare che le PMI italiane sono sottocapitalizzate, sebbene negli ultimi tempi la situazione sia migliorata, in virtù della spinta garantita dall'entrata a regime del sistema di rating denominato Basilea 2, che ha reso conveniente riconsiderare la struttura dei bilanci per presentare situazioni patrimoniali credibili ed ottenere condizioni di credito adeguate.

I piccoli imprenditori, dunque, hanno ribaltato la passata tendenza a sottrarre risorse alle aziende, tendenza incentivata dalla normativa fiscale, ed hanno chiesto ai governi (attuale e precedente) un provvedimento - in linea con tale impostazione - che non penalizzi la rivalutazione degli immobili strumentali (quelli utilizzati esclusivamente per l'esercizio dell'attività) dal valore iscritto a bilancio – spesso quello storico - ad un livello congruo con i prezzi di mercato. In tal modo le imprese acquisirebbero una maggior solidità, facilitando l'ottenimento di condizioni creditizie più favorevoli, dal momento che il sistema bancario vedrebbe aumentate le garanzie. Una misura di questo tipo, però, ha possibilità di successo solo se il costo dell'operazione è nullo (coerentemente con il non costituire una distribuzione di reddito) o molto basso: si è ritenuta accettabile un'aliquota del 2%.

Inoltre, specie in un contesto di generale incertezza e difficoltà, logica vorrebbe che i proventi di tale operazione fossero rimessi in circolo nel sistema produttivo: l'intervento prospettato dai rappresentanti della PMI si sostanzierebbe in una detassazione degli utili mantenuti in azienda – a titolo di investimenti o di riserva – per un importo di pari entità, tenendo conto del fatto che anche tali risorse non costituiscono distribuzione di reddito. Si potrebbe trattare, in sostanza, di una partita di giro, cioè di un'operazione complessivamente a costo zero per lo Stato, che otterrebbe due importanti risultati, sia – come detto – in termini di patrimonializzazione e quindi di rapporti con il sistema creditizio, sia dal punto di vista della liquidità, mantenendo risorse in azienda, preziose in un momento di drammatico calo degli ordinativi e – attenzione – di grande difficoltà ad incassare i corrispettivi del venduto.

Ciò è tanto più vero in situazioni che vedono numerose piccole aziende impossibilitate a stabilire i budgets richiesti dalle banche per il 2009, dovendo fare i conti – sono le parole di una collega lombarda – con il blocco improvviso degli ordini, che dovrebbe costringere a prevedere un fatturato dimezzato rispetto al 2008, oppure realtà, anche mirate a targets di alto livello, nelle quali il lavoro dell'imprenditore – questo è un collega ed amico veneto - non è nemmeno più quello di girare il mondo per andare a vendere, ma quello di farlo allo scopo di farsi pagare quanto già consegnato, sperando di non ricevere, invece, annullamenti a catena. Interventi di tal fatta, tra l'altro, dovrebbero essere considerati estremamente urgenti, in un momento che si sta presentando talmente difficile da spingere un numero rapidamente crescente di voci - in un moto razionalmente calcolato di auto-difesa - a dichiarare la scelta di non pagare IRES ed IRAP, pena lo sprofondamento in un circolo vizioso che s'innescherebbe qualora la sofferenza finanziaria si riversasse nel mancato pagamento dei fornitori, con le inevitabili conseguenze sia in termini di contingentamento dei materiali necessari alla produzione, sia di ulteriore stretta del credito bancario: in pratica, l'inizio della fine.

A questo punto, non appaia inopportuna una piccola postilla polemica – di carattere etico-filosofico - relativa al fatto che non si capisce l'equità della pretesa di tassazione per un reddito che non viene distribuito - cioè che di fatto non esiste – se non in un'ottica vetero cattocomunista, secondo la quale “i ricchi devono piangere” e l'impresa è un male necessario ma i veri valori sono altri. Sarebbe alquanto istruttivo apprendere chi, quest'illuminati pensatori, ritengano sia in grado di produrre quella ricchezza che dev'essere distribuita (rigorosamente a prescindere dal merito, ma in virtù del solo fatto di dichiararne la necessità), posto che il valore si realizza solo nel momento della vendita a fronte di adeguato corrispettivo ...

Sta di fatto, comunque, che nel decreto impropriamente definito “anticrisi” si prevede la possibilità di rivalutare i beni strumentali, ma con un'aliquota del 10% e senza alcuna traccia di detassazione degli utili mantenuti in azienda che ad essa – come spiegato - dovrebbe esser legata: è facilissimo prevedere che la misura otterrà pochissime adesioni e risulta evidente come, ancora una volta, lo scopo dell'azione governativa sia solamente far cassa, sempre naturalmente a spese di un sistema produttivo già caricato di oneri imparagonabili a quelli gravanti sui competitors internazionali. Anche il pagamento dell'IVA al momento dell'incasso relativo al bene venduto, anziché della fatturazione, fa parte del pacchetto di proposte avanzate dalle PMI: il motivo è facilmente comprensibile e risiede nel miglioramento della liquidità, evitando di consegnare all'erario risorse ancora non disponibili o - nell'ipotesi peggiore, ma non improbabile in un momento di notevole aumento degli insoluti - senza nemmeno riuscire a monetizzare il credito. Il governo sostiene di aver provveduto, ma la decisione non ha, nell'immediato, alcun effetto se si dichiara (erroneamente, in quanto l'articolo 66 della direttiva 2006/112/CE consente agli Stati membri di collegare l'esigibilità al pagamento, senza richiedere alcuna preventiva autorizzazione) di dover attendere gli otto mesi necessari ad ottenere il benestare europeo. Teniamo anche conto del fatto che ancora non conosciamo il reale peso della misura, giacché sarà un successivo decreto ministeriale a fissare il volume d'affari dei contribuenti nei cui confronti si applicherà l'IVA “di cassa”, ma le voci più ricorrenti lo prevedono a quota 300,000 euro: un fatturato da artigiano, non certo da PMI con un minimo di struttura industriale.

Inoltre, a fronte di un modesto innalzamento delle soglie relative alla detassazione dei premi di produttività, è stato deciso di non confermare la detassazione degli straordinari. La scusa è che, in un momento di crisi economica, non si fanno straordinari ….. ma, allora, nessun onere ne deriverebbe per i conti pubblici, quindi tanto vale mantenere il provvedimento. In realtà, una tale decisione dimostra, ancora una volta, che non si conosce il mondo delle piccole aziende – nonostante la cosa sia stata più volte spiegata – nelle quali le ore straordinarie non sono legate solo alla produzione, ma anche alle manutenzioni. Queste, abitualmente, vengono svolte fuori dall'orario produttivo canonico, per motivi legati sia alle interferenze, più probabili in spazi ridotti, sia alla disponibilità di personale specializzato, che deve adempiere anche ad altri compiti, sia, infine, al fatto che gli addetti sono i collaboratori migliori, cioè i più esperti, volonterosi e legati (anche affettivamente) ai destini aziendali, in altre parole i più meritevoli di ottenere preziose risorse economiche aggiuntive.

Già che ci siamo, poi, è opportuno ricordare come assoluta priorità abbia la richiesta di abolizione della norma introdotta – dal governo Prodi - con la legge finanziaria per il 2008, che ha limitato la deducibilità degli interessi passivi: l'ampliamento della deducibilità dall'attuale 30% al 40% del ROL (Reddito Operativo Lordo = valore della produzione - costo della Produzione + ammortamenti + canoni di leasing), secondo la richiesta formulata – purtroppo - da Confindustria è del tutto insufficiente e può essere utile solo a riassorbire l'intervenuto aumento dei tassi di interesse sui finanziamenti rispetto all'anno prima, ma basandosi sul presupposto che le imprese abbiano comunque un ROL positivo. Con la crisi in atto, moltissime PMI avranno, invece, ROL piatto o negativo e, quindi, l'innalzamento proposto sarebbe ininfluente e verrebbe interpretato solo come una beffa: tale norma va cassata o, almeno, dev'essere fissata un'ampia franchigia fino al raggiungimento della quale sia consentita la deduzione, a prescindere dalla percentuale sul ROL.

A proposito di beffa, ad un altro capitolo del decreto è sufficiente riservare poche parole, giusto per non dar l'impressione di trascurarlo: se qualcuno annuncia, magno cum gaudio, che le aziende possono godere di una riduzione dell'anticipo IRES (che passa dal 100 % al 97 %, tra l'altro con una formulazione che, non si sa se per errore o pressapochismo, richiede comunque il completo pagamento entro il 31 dicembre …...), è bene sappia che tale misura è vissuta come irrilevante ed addirittura offensiva, una vera presa per i fondelli che nemmeno è il caso di perder tempo a spiegare, giacchè non capisce solo chi non vuole. Furbesca, infine, appare la parziale deducibilità dell'IRAP dall'imponibile IRES, misura attuata in ossequio alla quasi certa sentenza della Corte Costituzionale, che sancirà – a breve – l'obbligo di prevederla integralmente, sconfessando la nativa impostazione dell'ineffabile Visco, che così volle senza considerare che la sua infausta creatura andava a sostituirne altre prive di tale caratteristica. Anche quest'intervento, quindi, non ha valore: è solo una minima anticipazione di quanto avverrà in seguito alla predetta sentenza ed avrebbe dovuto, evitando annunci demagogici, almeno tracciare un percorso certo verso la meta che tra poco il governo sarà obbligato a concedere, in attesa di quella abolizione che le imprese chiedono da tempo, ricordando l'anomalia internazionale che essa costituisce.

Intanto, il ritardo di pagamento ai fornitori accumulato dalla P.A. ha raggiunto l'allucinante cifra di 70 – dicesi settanta - miliardi di euro, in stridente contrasto con quanto il mercato concede alle PMI, facendo così pendant con le lungaggini dei rimborsi d'imposta ed, in particolare, dell'IVA che avvengono normalmente in tempi compresi tra i 10 ed i 24 mesi, in aperta violazione della norma che stabilisce tre mesi dalla richiesta: ciò si configura come un prestito forzoso all'erario, remunerato col tasso di interesse legale (da confrontarsi con quanto richiesto, tra interessi e penali, nel caso opposto di inadempienza temporale del contribuente, ça va sans dire …..), che provoca un danno legato al fatto di dover ricorrere al credito bancario a costi più elevati. Si chiede o, meglio, si pretende di porre un immediato stop a tale indecenza che, tra l'altro, inficerebbe l'eventuale – più volte promessa e mai attuata - modifica della norma sulla compensazione di crediti e debiti erariali, alla quale oggi è imposto un iniquo tetto, che dev'essere progressivamente tolto, almeno iniziando dal raddoppio degli attuali 516.000 Euro.

Possiamo anche fermarci qui, per ora, ma (in un territorio nel quale la somma della pressione fiscale e contributiva reale è la più alta d'Europa - si veda l'indagine Paying Taxes 2009 della World Bank – a fronte di una bassa qualità dei servizi ed in aggiunta ai cospicui oneri derivanti dalle inefficienze burocratiche) il discorso andrebbe ampliato ulteriormente prendendo in esame tutta una serie di norme vessatorie, inique e disallineate con i partners/competitors a noi vicini, ad esempio per quanto riguarda le spese di funzionamento/rappresentanza, sulle quali magari torneremo, se e quando sarà finalmente firmato il decreto attuativo, da tempo annunciato e costantemente rimandato senza veri motivi. Senza dimenticare, naturalmente, che l'italica amplificazione dei problemi globali ha la sua genesi dalla storica assenza di vero mercato in settori fondamentali dell'economia – e che, quindi, lì sta l'impervia via maestra da percorrere – ma volendo limitare l'analisi alla gestione dell'emergenza.

Possibilmente senza elemosine di stato, quello anacronisticamente etico che par tanto piacere al tributarista più in vista del Belpaese.

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Commenti

Ci sono 64 commenti

Qualche tempo addietro avevo segnalato alla redazione un'altra difficoltà che avrebbero incontrato le PMI nel 2009. Sandro Brusco mi aveva invitato a riproporre le mie considerazioni alla prima occasione utile. Mi sembra arrivato quel momento. Quoto parzialmente me stesso:

"Il patto di stabilità  come strutturato dalla finanziaria 2008 e modificato negli importi dalla finanziaria 2009 avrà effetti negativi sulla liquidità di molte imprese perchè, proclami di gogna per gli spreconi a parte, l'unico vero modo in cui ogni comune potrà centrare l'obiettivo di saldo assegnatogli sarà posticipando, e non di poco, il pagamento delle spese in conto capitale.

Sono assessore a San Benigno Canavese (Torino), un comune di 5.500 abitanti e se finora ci siamo sempre vantati di saldare le fatture entro 45 giorni, adesso potremo vantarci di saldarle entro 45 mesi, forse uno dei parametri necessari all'acquisizione del DOCG nella Pubblica Amministrazione."

Alla luce delle recenti misure anticrisi questa stretta, che già mi pareva pericolosa a luglio quando fu elucubrata (anche se passò un mese prima che qualcuno se ne accorgesse), sa veramente di beffa.

Saluti a tutti

 

Il patto di stabilità come strutturato dalla finanziaria 2008 e modificato negli importi dalla finanziaria 2009 avrà effetti negativi sulla liquidità di molte imprese perché, proclami di gogna per gli spreconi a parte, l'unico vero modo in cui ogni comune potrà centrare l'obiettivo di saldo assegnatogli sarà posticipando, e non di poco, il pagamento delle spese in conto capitale.

 

A me pare che la questione sia mal posta, in un'ottica secondo la quale è sempre “colpa di altri” che impediscono i comportamenti corretti che, altrimenti, sarebbero la regola: se non si parte dal concetto che merci e sevizi vanno pagati, a costo di scontentare i propri amministrati con la possibile conseguenza di perdere voti (unico vero motore di chi si dedica alla vita politica, a prescindere dallo schieramento e dall'ambito territoriale), non c'è speranza di risolvere il problema. È la solita, vecchia, querelle della differenza tra il comportamento corretto – al quale, normalmente, sono costrette famiglie ed imprese - che rapporta la spesa alle possibilità e l'atteggiamento “allegro” delle amministrazioni pubbliche, che adeguano le entrate alle previsioni di spesa oppure, se ciò non è possibile, spendono comunque e contano sul fatto che qualche santo provveda.

In altri termini, se mancano le risorse – non importa quale sia il motivo – logica vuole che si debba risparmiare, rimodulando i servizi alla collettività e contraendo gli acquisti, anche con un'opportuna valutazione di prezzi e fornitori.

Fermo restando che, probabilmente, qualche disboscamento di poltrone ben retribuite – anche il livello locale presenta tale abnorme evidenza – aiuterebbe in termini economici e, soprattutto, in termini di accettazione di sacrifici ........

Ovviamente condivido al 100% l'articolo, se veramente pongono l'asticella dell'IVA per cassa a 300.000,00 euro conviene chiudere e andar via, perchè essere pure presi in giro, no grazie.

Il vero nodo da scegliere per le PMI è quello finanziario, Basilea 2 all'italiana non funziona, le PMI non sono capitalizzate a sufficienza, il ricorso al leasing è praticamente una strada obbligata per l'acquisto dei macchinari e immobili, con il risultato che i patrimoni netti sono sottostimati, la rivalutazione non conviene assolutamente, le banche non concedono fidi, e via di questo passo.

Anche la gestione del credito per le PMI è onerosa, il pro-soluto verso le Pubbliche Amministrazioni non è consentito, se non con costi proibitivi, le grandi aziende non lo consentono esplicitamente (è nei loro contratti), adesso molte grandi aziende si sono anche inventate (Finmeccanica, ad esempio, proprietà dello Stato) misteriose società finanziarie delegate al pagamento delle fatture, per cui se prima speravi ragionevolmente di vedere i soldi in 180 giorni, telefonando venti volte al giorno e presentandoti con il cappello in mano, adesso speri nei 360 giorni, e non sai nenache a chi chiedere.

Le cifre di Franco Bocchini sui debiti della PA nei confronti delle PMI è una stima, in verità nessuno sa quanto sia la voragine, stando anche il fatto che poi ci sono anche le grandi imprese, le quali a sua volta non pagano le PMI perchè non incassano dallo Stato, e via così.

Concludo con quella assurda tassa, di cui Franco parla poco, che è l'IRAP, per cui aziende in perdita si trovano costrette comunque a pagare tasse, perchè l'IRAP è di fatto una tassa sul fatturato.

E non continuo con i cahiers de dolance solo perchè Franco ha già scritto abbastanza, se a queste autentiche beffe contenute nel decreto aggiungete gli studi di settore con indici di normalità assurdi (alla faccia di GT che dice che lui aveva già previsto la crisi: perchè allora non ha rivisto gli indici di normalità? la sfera magica non funzionava bene in quel momento?) il quadro è completo.

Più di una volta su NFA è stato scritto che l'Italia va avanti, nonostante tutto, grazie alla PMI, ma non so per quanto tempo ancora traineremo questa carretta. Giusto per non far pensare che sia il solito meridionale piagnucolone voglio specificare che le mie due aziendine sono un'isola felice in un mare di disperazione, per il settimo anno consecutivo chiudo con fatturato e utili in aumento, non ho incagli negli incassi, non ho problemi di credito, anche perchè in banca sono in attivo, nonostante un ottimo rating (B, confermato ieri). Ma sono stanco. E come me molti altri nelle mie condizioni.

 

 

quella assurda tassa, di cui Franco parla poco, che è l'IRAP, per cui aziende in perdita si trovano costrette comunque a pagare tasse, perché l'IRAP è di fatto una tassa sul fatturato.

 

Verissimo, ne parlo solo relativamente alla questione della deducibilità dall'imponibile IRES – che già è una bella porcheria – ma l'orrenda creatura vischiana rimane una delle innumerevoli anomalie dell'italica normativa fiscale ed un vero nonsenso economico, dal momento che non si basa sul reddito, ma s'inventa un meccanismo perverso che falsa le regole della concorrenza.

D'altra parte, il suo esimio genitore nemmeno sa dove stia di casa il mercato: probabilmente lo intende come una distesa di bancarelle alla Fiera di San Severo ........

 

Le cifre sui debiti della PA nei confronti delle PMI è una stima, in verità nessuno sa quanto sia la voragine, stando anche il fatto che poi ci sono anche le grandi imprese, le quali a sua volta non pagano le PMI perché non incassano dallo Stato, e via così.

 

La stima - che non è mia ma è quella fornita da Emma Marcegaglia nel discorso di Bologna alla fine di ottobre – comprende, in realtà, i debiti della PA verso tutti i fornitori di beni e servizi.

Ciò non toglie che sia stratosferica ed inaccettabile e che, anche quando non riguarda direttamente le PMI, ma grandi aziende, si rifletta drammaticamente a cascata sulla liquidità complessiva.

L'aspetto etico, tra l'altro, non è trascurabile: non è ammissibile che chi ha il potere di decidere e sanzionare si permetta comportamenti in aperto contrasto con quelle regole di cui esige il rispetto da altri e la cui trasgressione pubblicamente stigmatizza e punisce.

 

Una chiaccherata tra clienti (Veneti) e colleghi (Bavaresi, lavoro per un'azienda tedesca) mi aveva di recente evidenziato il modo iniquo in cui viene tassata la PMI.

Iniquo soprattutto da un punto di vista "etico". Non voglio essere polemico ma sembra che si tassi la PMI utilizzando il seguente ragionamento: "sono ricchi, sfruttano il proletariato ed evadono le tasse", altrimenti una cosa come l'IRAP non ha spiegazione.

Però vorrei facilitare il lavoro del governo affrontando il problema da un altro punto di osservazione. Rispetto alla media europa, abbiamo:

pagamenti MOLTO più lunghi, costi di riscossione del credito molto più onerosi, possibilità di fallire lasciando "voragini" molto più allegra

Questo crea, è evidente, una serie di problemi a tutta la società italiana ma colpisce in maniera più nefasta gli imprenditori medio piccoli

La proposta è: se non si vuole ridurre la pressione fiscale sulla PMI perchè almeno non la si aiuta rendendo la riscossione creditizia la stessa che nel resto del mondo civile?

Il domandone è: perchè negli altri paesi la situazione è così differente? E' una questione legislativa, amministrativa, di "sistema sociale"?

Spero non sia OT.

Per il resto "quoto" il post di Marco in toto

 

La butto lì, come proposta, chissà se qualcuno con più competenze delle mie può trasformarla in proposta di legge. Scusate se sono un po' confusionario nell'esposizione.

Se chi ha crediti nei confronti della PA potesse usare questi crediti per pagare le tasse richieste? Caro stato, gli X mila euro che ti devo li chiedi alla amministrazione di questo comune/regione/ente... O direttamente, caro stato tu mi devi X ed io ti devo Y, facciamo che siamo a posto così.

Espandendo il discorso, perchè non permettere a chi ha crediti verso altre aziende di ribaltare su di esse l'onere delle proprie tasse? Non si aggraverebbero i costi, in fondo, se l'azienda B deve ad A 10.000 euro (per dire) e di questi 3000 finirebbero in tasse, è inutile fare il tragitto dei soldi da B ad A e da A all'erario (magari con le penali per il ritardo o tagliandosi il gas per pagare in orario). A potrebbe tranquillamente dire all'erario: i miei soldi te li dà B che non mi ha ancora pagato. A sarebbe tranquilla di aver pagato in tempo e i problemi diventerebbero di B. B a sua volta potrebbe ribaltare sui suoi creditori... ho la sensazione che lo stato si troverebbe senza liquidità molto in fretta. E' una situazione che francamente non mi spaventa, è l'unico modo per "affamare la bestia" e far concentrare le amministrazioni pubbliche sulle cose serie e non sulle scemenze (vedi proposta del PD in piemonte di elargire 1,5M di euro per i campi nudisti).

Secondo voi si può fare?

La tua proposta ha già una legge al riguardo, è già legge che le fatture debbano essere pagate a 30 gg., inoltre questa teorica regola dovrebbe valere anche per la PA, ma è ampiamente disattesa, dati i tempi (e i costi) della giustizia per cifre non rilevanti conviene aspettare o metterti l'anima in pace, inoltre la legge sul fallimento favorisce in vario modo i debitori e non i creditori (difatto le aziende con patrimonio netto inferiore a € 200.000,00 non possono fallire), per cui non mi sembra questa la strada.

Sul Domandone non ho risposte, solo ti cito un vecchio detto napoletano che secondo me ti dà una chiave di lettura: " A murì e a pavà c' sta siempre tiempo".

Anche per Luciano Mollea devo dire che è già possibile la compensazione fra tasse e crediti verso la PA, ma, se non ricordo male, solo dopo la liquidazione annuale, inoltre anche così per molte aziende lo scomputo è praticamente infinito. L'altra tua ipotesi la vedo poco praticabile in Italia, poniamo che io chieda ad una società che so essere in situazione di illiquidità: te la prendi una fatturina di € 50.000,00, te ne dò 10.000,00 cash, tanto poi i soldi me li dà lo Stato...(non mi invento nulla, è il sistema di funzionamento delle "lavanderie iva" usate anche dalla GDO).

 

quella assurda tassa, di cui Franco parla poco, che è l'IRAP, per cui aziende in perdita si trovano costrette comunque a pagare tasse, perché l'IRAP è di fatto una tassa sul fatturato.

 

Verissimo, ne parlo solo relativamente alla questione della deducibilità dall'imponibile IRES – che già è una bella porcheria – ma l'orrenda creatura vischiana rimane una delle innumerevoli anomalie dell'italica normativa fiscale ed un vero nonsenso economico, dal momento che non si basa sul reddito, ma s'inventa un meccanismo perverso che falsa le regole della concorrenza.

 

L'IRAP sostituisce principalmente contributi per la sanita', in passato pari a circa 8-9% del salario (credo lordo di IRPEF e netto di contributi previdenziali) dei dipendenti. Quei contributi dovevano essere pagati indipendentemente dal fatto che l'impresa avesse profitti o meno, quindi non capisco bene la lamentela sul fatto che l'IRAP sia dovuta anche in assenza di profitti. Chiedo ad entrambi: era preferibile pagare i contributi sanitari? Per essere piu' chiaro, vorrei capire se l'IRAP non piace solo perche' e' una tassa da pagare (come tutte le tasse) oppure per qualche altro motivo che ha a che fare con la natura specifica dell'IRAP.

Per quanto riguarda l'indeducibilita' dell'IRAP dall'imponibile IRES, effettivamente mi sembra un fatto estremamente grave: immagino non accadesse per i contributi sanitari, me lo confermate?

Devo dire che mi sfugge come sia possibile che nel processo di riduzione del cuneo fiscale, contrattata tra Confindustria e governo Prodi, a nessuno sia venuto in mente di proporre da una parte e premere dall'altra perche' fosse almeno eliminata l'indeducibilita' IRAP. Evidentemente le soluzioni logiche, corrette e lineari sono impossibili in Italia. E come e' possibile che la Marcegaglia non solleciti una misura del genere, che dovrebbe essere comprensibile da un imprenditore come Berlusconi?

Siccome sono sospettoso, avanzo un sospetto: alle grandi imprese, specie se assistite, non interessa dell'indeducibilita' perche' tanto sono in grado di aggiustare i profitti a zero giocando con holding lussemburghesi e finanza creativa. Rimangono fregate solo le PMI per le quali sarebbe troppo oneroso ricorrere alle tecniche di elusione delle grandi imprese. E le PMI contano poco o nulla anche se tengono in piedi tutta la baracca.

benvenuto nel team (del resto, in fondo, ne facevi giá parte).

Inutile dire che, per quanto pubblico funzionario privilegiato e di sinistra, condivido integralmente, anche e soprattutto, la conclusione che il buon BS é filo classe produttva solo a parole :-).

Sono d'accordo che BS e GT non hanno niente a che spartire con la classe produttiva, ma consentimi di ricordare il furore ideologico di Vincenzo Visco, che, al di là degli intenti, colpiva le aziende nel loro punto debole: la burocratizzazione.

Credimi, ideologie a parte, le continue "idee" di VV erano dure da digerire, anche con buone dosi di Maalox.

Grazie Axel.

 

condivido integralmente, anche e soprattutto, la conclusione che il buon BS é filo classe produttva solo a parole

 

Credo che l'importante sia conservare l'indipendenza di giudizio, ma qui in nFA l'utilizzo dei neuroni in dotazione di serie mi pare rigorosamente doveroso ed ampiamente condiviso.

Quanto alle classifiche "del peggio", son sempre difficili ed influenzate dai mal di pancia del momento ma, francamente, Nosferatu Visco è fuori classifica ..... :-)

Interessante vedere come sta procedendo l'assegnazione di fondi del programma "Industria 2015", come documentato dall'odierno articolo di Romeo sul Sole (dopo quello di Fotina 2 mesi fa) in merito alle attività dell'Agenzia per l'Innovazione (già bell'e spolpata della mission), dal programmatico titolo "Aspettando una valutazione". Questo il comunicato del Ministero dello Sviluppo Economico, che ha come al solito fatto il proprio comitatino di saggi.

RR

 

La nuova legge fallimentare italiana, poco conosciuta, prevede che un imprenditore NON può fallire se dimostra il possesso congiunto di 3 requisiti:

a) aver avuto nei 3 esercizi commerciali precedenti l'istanza di fallimento un attivo patrimoniale annuo non superiore a 300.000 €

b) aver realizzato nei 3 anni precedenti ricavi lordi annui non superiori a 200.000 €

c)avere un ammontare di debiti non superiore a 500.000 €

Non sono esperto di diritto specie italico, potrei avere un chiarimento?  Chi fallisce o non fallisce e' l'impresa, non l'imprenditore, vero? L'impresa, s.r.l. o s.p.a. risponde dei suoi debiti solo nel limite del suo attivo che emerge dal suo capitale sociale e dai suoi bilanci. Cosa significa che non puo' fallire? Che non e' possibile avere una dichiarazione che un certo credito da quell'impresa non verra' mai pagato?

 

Premetto che non sono espertissimo di fallimento, ma osservo che il NON fallire, non consente di accedere all'istituto dell'esdebitazione, secondo cui una volta chiuso il fallimento, a certe condizoni, non possono più essere proseguite le azioni individuali da parte dei creditori non soddisfatti in sede concorsuale. Con l'esdebitazione quindi, l'imprenditore fallito può "ripartire da capo", ciò che diventa più difficile se non impossibile per il NON fallito (che rimane debitore).

Da imprenditore, ho chiuso gli ultimi 3 bilanci con utili lordi di centinaia di migliaia di euro, puntualmente azzerati da irap e ires. L'irap è tassa odiosa perché è selettiva, discriminatoria, costruita sul presupposto falso che tutti gli imprenditori eludano o evadano la tassazione degli utili. Ma è in generale la pressione fiscale (sull'impresa e sul lavoro) ad essere surreale, pressione che si va aggiungere ai costi sostenuti per essere adempienti alle centinaia di norme più o meno inutili che gravano su un'azienda. Noi operiamo a Roma, e pagare i nostri dipendenti e collaboratori una cifra umana che li metta in condizione non dico di costruirsi un futuro, ma almeno di arrivare a fine mese è sempre più difficile. Questo non perché i soci siano degli imprenditori avidi, né perché l'impresa sia uno scandalo di inefficenza, bensì perché ogni minima risorsa non spesa per produrre viene drenata in un modo o nell'altro dallo Stato. Il nodo centrale è l'esistenza di una pubblica amministrazione elefantiaca e clamorosamente inefficiente. Al di là dei tecnicismi, l'unico segnale concreto da dare alla piccola impresa è una riduzione del carico fiscale generalizzata, lasciando al mercato il compito di stabilire chi è efficiente e merita di sopravvivere. Taglio da compensare con riduzioni del personale nella pubblica amministrazione. Chi racconta che tagliare i costi della PA equivale a tagliare i servizi racconta una balla. I miei uffici sono circondati da edifici ministeriali e alle quattro del pomeriggio c'è il deserto. Che la tassazione possa essere compensata con finanziamenti alle PMI è un'altra balla. Nel Lazio, questi finanziamenti sono erogati solo ad amici e parenti, o a progetti che nascono apposta per sfruttare i finanziamenti stessi. Perdonatemi la semplificazione (e forse superficialità) ma io ho appena firmato un F24 da 850.000 euro e mi sento male. Non ho la barca intestata all'impresa, non ho uno stipendio da favola e un'auto di lusso, non ho visto una lira di utili l'anno scorso (su 10 milioni di fatturato), e l'idea che questi soldi - sudati fino all'ultimo euro - siano in buona parte sprecati mi fa impazzire.

Sottoscrivo quanto leggo sopra, anche se confesso che non capisco ancora perche' l'IRAP sarebbe piu' deprecabile di altri elementi del cuneo fiscale come i contributi INPS o l'IRPEF. Secondo i miei calcoli sul costo totale del lavoro l'INPS incide per il 32% e l'IRPEF+detrazioni+assegni familiari impongono - oltre una modesta quota esente, un'aliquota marginale del ~29%. L'IRAP invece incide solo per il ~4% circa.

Fa piacere comunque trovare qualcuno che giunge a conclusioni molto simili alle mie sul fisco e sul settore pubblico italiano, quello che e' stupefacente in Italia e' che questo sistema oppressivo, inefficiente e fallimentare gode di un consenso praticamente schiacciante tra i sudditi.

Benvenuto a Chardon, un imprenditore, mi sento meno solo in questo blog (anche se DF, in arte Francesco Bocchini era già un eccellente compagnia).

Non descriverò ulteriormente gli effetti perversi dell'IRAP sulle PMI, perchè non è il mio mestiere, anche io pago gli F24, non così elevatiin valore assoluto,ma in Campania l'aliquota è il 5,25%, i servizi li conoscete, non dico altro.

Quello che mi fa arrabbiare è la dizione "invarianza di gettito" che fu adottata da VV. Guardatevi le cifre dell'IRAP e vedrete l'"invarianza di gettito" in quale posto ci è andato. l'ILOR non si pagava su utili non conseguiti, l'IRAP la paghi e basta. I contributi sanitari erano sui lavoratori dipendenti, e anche i co.co., ma se investivi in macchinari non dovevi nulla (alla faccia della modernizzazione). Potrei continuare dicendo che adesso è una tassa "federalista", per cui alcune regioni la attenuano, altre la incrementano (la Campania in primis).

Sul come risparmiare 30 mld di euro non posso dire nulla (siete sicuri ? non ho controllato, ma 30 mld di euro mi sembrano pochini conoscendo le mire di VV), anzi non voglio dire nulla, ma credo che già eliminando i trasferimenti nord-sud si risparmi la metà di quella cifra. Ma toglietemi l'IRAP !

Concludo dicendo che aiuterebbe molto le PMI (almeno quelle della mia zona) la razionalizzazione dell'assetto urbanistico delle zone ASI, mi spiego: a nessuno (a me almeno) piace vedere una distesa di capannoni, ma allo stato attuale ogni comune crea o può creare una zona ASI in cui arrivano i soliti noti, comprano il terreno e te lo vogliono vendere a prezzi incredibili, poi il capannone se lo vuoi solo da 2.000 mq., non divisibile (occorerebbe una nuova licenza edilizia, tre anni e 100.000 euro di mazzette), mentre sia la mia, sia molte altre piccole e medie aziende troveremmo conveniente avere capannoni da 500-800-1000 mq, con la possibilità di stare vicini e fare "distretto".

Ma in Campania è impossibile, abbiamo mosso Confindustria, API, altre associazioni imprenditoriali, ma niente, se volete, fiumi di denaro con pseudo progetti imprenditoriali (servono a quello che afferma Chardon), ma avere cose del genere no ! E se chiedete al vs. comune un'area per costruire un capannone (magari vi volete ingrandire...) vi ridono pure in faccia e vi dicono:dottore, ma chi glielo fa fare ? Eppure succesi come il CIS di Nola, e l'Interporto di Nola dovrebbero insegnare qualcosa alla politica...Scusate lo sfogo, e Buon Natale a NFA, lettori e redattori.

Cari DoktFranz, Marco, Ferdinando Monte e Chardon:

perché non vi parlate e ci fate un pezzo "tecnico" sulla questione IRAP, dal punto di vista delle PMI? Ho letto i vostri commenti, molto interessanti. Qualcosa ho capito, ma ho capito soprattutto di saperne ben poco. Quindi, vorrei capire meglio. Se ne avete la voglia, fatecelo sapere e (visto che abbiamo i vostri indirizzi di email) vi mettiamo in contatto noi nel caso non vi fosse possibile farlo indipendentemente. Imparare non fa mai danno e far collaborare persone diverse ma capaci ed interessate è una delle cose utili che possiamo fare con questo blog. Grazie mille. m

P.S. Se ve ne sono altri, di PMI-imprenditori che leggono e sono interessati, fatecelo sapere.

l' unio modo di risolvere il problema è tramite divisione dell'italia ( cosa che sta surrettiziamente avvenendo perchè le imprese che possono fuggono all'est), quelle che rimangono sono inchiappettate per foraggiare fiat e porcate varie.

Dallo Stato, inteso come burocrazia politica, le PMI saranno sempre i poveri scemi che pagano. Saluti.

letto chardon  rimango idea bisogna abolire lo stato.

E' stata pubblicata la direttiva in materia di Osservatori del Credito previsto dal decreto anticrisi (ora L. 2/09). Costituiti presso le prefetture, essi dovrebbero monitorare il finanziamento delle imprese e delle famiglie da parte delle banche quotate (i cui Tremonti bonds vengono sottoscritti dallo Stato). Il documento è visibile sul sito del Ministero dell'Interno italiano. Mi sbaglio o sembra una direttiva sovietizzante? 

Riporto i termini della discussione:

Michele ha avviato la discussione su FB scrivendo

Domanda: a cosa servono gli aiuti, incentivi e sussidi alle imprese?
A questo.

con riferimento a questo articolo

Dopo vari scambi giusepper ha rilevato

Ok, già più chiaro. Ultimo dubbio:
quell'anno li avevano fatto una perdita della madonna, compensata completamente da quei 45 milioni di rivalutazione degli immobili.
Se fai una perdita non sufficiente a farti chiudere, te la porti a creditonegli anni successivi. Loro hanno annullato questa perdita e quindi anche il credito conseguente, o sbaglio?

Magari ci hanno guadagnato, ma magari anche no.

Magari si sono solo salvati il culo da una botta che in un mercato libero da interventi statali avrebbe dovuto farli chiudere...o fargli vendere davvero le proprietà, in un momento in cui il loro prezzo era depresso, perdendoci una vagonata di soldi, ma non mi è così ovvio che lo stato ci abbia perso soldi di tasse.

E' intervenuto anche franco

olevo intervenire qualche ora fa, ma non ne avevo il tempo.
Ora, la discussione è proseguita - grazie Beppe, hai già detto più o meno quel che volevo dire io, con grande pazienza e pragmatismo - e non ho moltissimo da aggiungere.
Suggerisco solo di rileggere il mio primo articolo per noise, scritto all'epoca della promulgazione di quella norma, che ne parla (tra le altre cose):
http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/1251

C'è, però, una cosa che devo dire: trovo davvero una tragedia che la stampa italiana cerchi esclusivamente argomenti per attaccare il nemico di turno, scrivendo spesso imprecisioni e vere frottole: nel caso in esame, il pezzo de "Il Fatto" - non stranamente - arriva persino a sostenere che la rivalutazione sarebbe a titolo gratuito, il che mostra una grave incompetenza e/o il totale spregio dei fatti, nel chiaro tentativo di rincarar la dose il più possibile. Del resto, fa bene - dal distorto punto di vista dell'autore - perchè ottiene l'effetto voluto: suscitare indignazione.
Pensate, riesce anche a far fessi intellettuali di pregio come Michele, la cui dichiarata speranza nella caduta del "tiranno" fa sì che non leggano attentamente prima di condividere e commentare .... :-)

La mia posizione è ripilogata come seguente

L'idea che il provvedimento costituisca un sussidio è una lettura di Michele, che io condivido.

La possibilità straordinaria di aggiornare i valori (perché esistono ovviamente casi ordinari in cui puoi farlo),secondo me, è un beneficio concesso in forma non monetaria.Il valore del sussidio per l'imprenditore è dato dal costo-opportunità dei soldi che non è costretto a versare direttamente. Questo prescinde da qualsiasi rilievo di tipo fiscale.

Ho ragionato come segue: 
1-il bilancio di alcune imprese aveva un rapporto tra capitale proprio e crediti quanto meno sospetto (per via dell'incentivo fiscale etc) 
2-questo incideva sul merito di credito non perché Basilea II sia burocrazia fritta, ma perché una banca razionale dovrebbe tenere conto delle garanzie quando eroga (non è un business angel o venture capitale che guarda solo al business plan e che comunque entra nell'equity e non nel debito)
3-Finché le imprese potevano ottenere credito a prescindere dalle garanzie e detrarre gli interessi hanno potuto vivere mettendo a rischio poco capitale proprio (aspetto rilevante in caso di fallimento) lascia stare che poi l'imprenditore magari metteva i soldi come finanziamento soci, in ogni caso la struttura finanziaria se non squilibrata era quantomeno non trasparente (capitale travestito da credito)
4-Giuridicamente il giorno che decidi di rendere la struttura finanziarie della tua impresa più trasparente perché altrimenti la banca chiude i rubinetti o aggiungi capitale (che metti a rischio) o, se puoi, rivaluti delle poste contabilizzate in modo non più realistico
5- la rivalutazione comporta che una cosa che hai comprato (o comunque iscritto a bilancio) a 10 la puoi contabilizzare a 10+x vero che finché non la vendi materialmente non hai incassato nulla però intanto x invece di doverlo mettere di tasca lo puoi ottenere "aggiornando i valori".
6-Venendo alla questione fiscale se la rivalutazione ha un costo per l'impresa inferiore all'aliquota che pagherebbe vendento hai due effetiti
6-1 Un effetto temporale per cui paghi subito delle tasse che avresti potuto non pagare mai (magari parliamo della sede dell'impresa che non venderai mai) come rilevato da Giuseppe 
6-2 Un effetto bonus fiscale per il quale se e quando venderai, una parte del ricavato sarà soggetto ad imposizione separata e agevolate (io credo che Moratti qualcosa potrebbe dismettere, non credo siano tutti asset strumentali, anzi, ma quella è un altra storia

In ultima analisi:
->un beneficio, mediante costo opportunità di non mettere a rischio soldi freschi ce l'hai
->si verifica una sanatoria di una anomalia pregressa e il costo della sanatoria grava in parte sull'impresa in parte no, quanto sia corrotto non saprei (credo sia impossibile valutarlo)
->però, come nei condoni, penso che la responsabilità dell'anomalia vada condivisa tra lo stato che male incentivava e le imprese che legittimamente e razionalmente ne hanno approfittato: che dovrebbero dire di quelle imprese che hanno sempre avuto un livello di capitalizzazione adeguato sostenendone i costi? Cornuti e mazziati?

Mi pare confermato il giudizio di michele sui sussidi: sono pensati per aiutare le imprese in difficolta e al contempo sanare un anomalia pregressa, ma qualcuno che ha un'immobiliare piena di beni non strumentali può, legalmente e leggittimamente, usare la norma per risparmiare le tasse sulla plusvalenza (di sicuro lo ha fatto la moratti in parte perchè almento in una casa ci vive e non la usa per produrre)

Chi vuole può aggiungere commenti qui invece che sulla bacheca di Michele ;)

 

incollo

Lascio rispondere a Franco Bocchini, ma faccio solo un paio di osservazioni-lampo:
2) prova a chiedere un prestito senza garanzie: ti devi giocare la casa, se ce l'hai. Dubito esista una PMI italiana di quelle "sottocapitalizzate" che ha dei prestiti senza la "firma" dei soci.
3) vale il punto 2 (le garanzie le chiedono eccome) e poi c'è l'aspetto notarile: quando ho fatto l'aumento di capitale nel 2009, il preventivo migliore che ho avuto è stato di 2500 euro per un aumento di 35.000.
Secondo te saremmo dei bravi manager se, potendo scegliere fra a) finanziamento soci (che consente anche di superare eventuali impossibilità di qualche socio di contribuire immediatamente con la cifra che gli competerebbe), b) aumento delle riserve in "conto capitale" (che le congela a scopo di aumento, ma senza la necessità di andare dal notaio) e c) aumento di capitale in senso proprio (con un pagamento di circa il 7% tra tasse e spese notarili), scegliessimo c)?