La trasferta a Yankee Stadium inizia a mezzogiorno, quando entriamo nella stazione della metropolitana a West 4th, in GreenwichVillage. La linea D ci porterà alle porte dello stadio, nel South-West Bronx, in non più di mezz'ora.
La giornata e' fredda, ma soleggiata. La metro ci accoglie con i soliti
miasmi, o forse, dovrei dire, i soliti aromi. Durante il viaggio si
parla di amenità varie. L'atmosfera e' quella, rilassata, tipica delle
giornate festive. All'uscita, all'incrocio di 161esima e RiverAvenue,
ci accoglie il trambusto dello stadio. Si ode distinto lo sferragliare
della metro numero 4, che in questa zona corre in sopraelevata. Sulla
destra scorgiamo il cantiere del nuovo stadio, che aprirà nel 2009.
Noi, pero', andiamo a sinistra (un destino?), verso la cattedrale del
baseball. Ci sono molti poliziotti, ma sono nella classica uniforme di tutti i giorni e
si limitano ad osservare. La sommaria perquisizione e' condotta dagli stewards.
Ci caliamo nella pancia dello stadio. Ora i miasmi sono quelli che provengono dai punti vendita che propongono burgers e hotdogs. Proteggo l'olfatto portando la mano davanti al naso, ma sono consapevole che tra poco cederò alla tentazione dell'hotdog. Non farlo, sarebbe come andare a Santarcangelo
di Romagna e non mangiare la piada (paragone irriverente? I miei avi mi
giudicheranno.) I nostri posti sono in posizione invidiabile.
Ringraziamo il magnanimo donatore. Siamo a dieci file dal campo, dietro
il dugout (la panchina) degli ospiti, che oggi sono i BaltimoreOrioles.
Gli altri del nostro gruppo, tra cui un ragazzino di 9 anni
assolutamente entusiasta di assistere alla partita, sono già arrivati.
Mi guardo attorno e vedo la distesa di giovani famiglie, con tanto di
bambini piccoli e piccolissimi. Una visione standard per una partita
pomeridiana. La mente vola alle botte tra Polizia e "tifosi" del
Manchester United,
solo pochi giorni addietro, all'Olimpico di Roma. Siamo pronti
all'entrata in campo delle squadre, ma non prima dell'inattesa
passerella di una Ferrari 599 GTB
Fiorano, parte di un'iniziativa promozionale che lega il marchio Yankee
a quello della casa di Maranello. Ci sono anche un paio di dirigenti
dall'Italia. Un pensiero positivo sul Paese natio. Uno a uno.
E' il momento dell'inno nazionale, come in tutti gli eventi sportivi
negli USA. Durante l'annuncio delle squadre in campo, telefono a Carlo,
che e' tifosissimo degli Yankees, per fargli invidia. Quindi il neo-acquisto Iagawa fa il suo debutto sul monte di lancio. Fatica parecchio contro il "top of the line" degli Orioles. Si becca anche un fuori campo. Quando, collezionato il terzo out, si dirige verso il dugout, deve ingoiare il primo "Yousuck". Ovvero "fai schifo." Non solo i New Yorkers sono scortesi; talvolta si compiacciono anche di esserlo, e ci ridono sopra. "New York is a hard placetolive
in," ("non e' facile vivere a New York"), dicono, ed e' bene che
l'ultimo arrivato se ne accorga subito. Alla fine del terzo inning, con
gia' piu' di cinquanta lanci nel braccio, gli "yousuck" sono accompagnati dai "justtakehim out!", cioè gli inviti a sostituirlo, diretti all'immarcescibile manager (allenatore) italo-americano Joe Torre. Nel frattempo, come anticipato, mi sono sbafato un succulento hot-dog, con tanto di mostarda, e sto sorseggiando una Coca-Cola godendomi il flebile sole primaverile. I belong.
Noto che nella fila innanzi a noi i vuoti di birra si stanno
accumulando a ritmo sostenuto. I responsabili sono due coppie di
trentenni. Immagino che i due uomini siano fratelli. Sono entrambi
sull' 1.90 per 110-120 chili, e hanno un collo la circoferenza della mia coscia.
La partita scorre via veloce. Al momento del 7th inning stretch, Iagawa se ne e' andato da un pezzo, e gli Yankees soccombono per 7-3. Letteralmente, il 7th inning stretch e' il momento in cui ci si alza in piedi per sgranchirsi le gambe. Lo si fa mentre, tutti insieme, si intona la canzoncina "Take me out to the ball
game," l'analogo de "La Partita di Pallone" di Rita Pavone. Dalla
tragedia di 9-11, e' diventato anche il frangente in cui ci si ricorda
dei soldati in guerra, e soprattutto dei caduti. Lo si fa cantando la
celeberrima "GodBless America." La stra-grande maggioranza dei New Yorkers
si oppone con forza alla guerra in Iraq, ma nessuno, dico nessuno, si
azzarderebbe a vociare il proprio dissenso in un momento come lo stretch.
Ci si scopre il capo e si canta. Tutti insieme. La memoria corre
all'episodio romano (non più di due anni fa), in cui estremisti di
sinistra dettero fuoco a tre fantocci, uno dei quali vestito da soldato
italiano. Ora il saldo e' 1-2.
Il sole e' sparito, e gli Yankees non sembrano in giornata. All'inizio dell'ottavo inning, molti lasciano lo stadio. Non noi. Sam, il ragazzino di 9 anni, ci crede ancora. E infatti gli Yankees accorciano le distanze: 7 a 6. Siamo al nono e ultimo inning. Joe Torre fa lanciare Mariano Rivera, una leggenda vivente, uno dei più grandi closer della centenaria storia del baseball. Un Oriole riesce ad andare in base, ma poi Mariano "gets the job done." L'ultima parola e' per l'attacco degli Yankees, sulla carta uno dei più formidabili di sempre, un sorta di Gre-No-Li. Ma oggi non pare essere in giornata. Ci troviamo con "two out andnobody
on," ossia ad una sola eliminazione dalla fine della partita. E' a
questo punto che succede l'inaspettato (che sarebbe invece l'ovvio
finale, se si stesse assistendo ad un film Hollywoodiano). Le basi si riempiono e A-Rod ( AlexRodriguez, una sorta di super eroe continuamente vituperato dai tifosi che lo accusano di essere un chicken - cioè di cagarsi sotto ) la butta di fori, per dirla alla grossetana. Lo stadio prorompe in manifestazioni di giubilo. Sam non la smette di saltare su e giù dallo scalino. Il giorno dopo apprenderò che e' solamente l'ottava volta in 105 anni che gli Yankees finiscono una partita con un grande slam (un fuoricampo da 4 punti).
E'
giunto il momento di lasciare lo stadio. Allungando il passo, riusciamo
a salire sul primo treno disponibile. L'atmosfera e' festosa. Molti dei
viaggiatori portano segni distintivi della loro fede sportiva (chi
magliette, chi cappelli, ...) Passano dieci minuti prima che mi accorga che la persona seduta alla nostra sinistra indossa cappellino e
uniforme degli Orioles.
Il tipo pare rattristato dall'esito della gara. Ancora qualche minuto,
e finalmente realizzo che non solo nessuno ha torto un capello al
tifoso della squadra opposta. Nessuno, dico nessuno se ne cura. E'
solamente una persona abbigliata diversamente. Constato che dodici anni
di America mi hanno cambiato. La violenza degli stadi italiani mi e'
aliena. Non fa parte del mio quotidiano.
E' il tardo pomeriggio
quando rientro a casa. La Messa e' alle 20.00. Mangio qualcosa e mi precipito in chiesa.
La nostra chiesa parrocchiale si affaccia sulla sesta Avenue,
una delle più trafficate della città. Quando arrivo, il braciere per la
benedizione del fuoco e' già pronto, a pochi metri da quell'autentico
casino che si chiama GreenwichVillage. La chiesa e' gremita.
A St. Joseph, i parrocchiani sono essenzialmente di tre tipi: famiglie, anziani, e studenti. Il parroco e i suoi co-audiutori
si rapportano in maniera diversa ad ognuno di questi gruppi, a seconda
delle caratteristiche che li distinguono. Per esempio, la domenica ci
sono tre Messe. La prima, alle 9, e' dedicata alle famiglie. E' a
quest'ora che si svolge anche il catechismo. Alle 11:30 e' la volta
degli anziani, cui apparentemente piacciono i canti gregoriani. Alle
sei del pomeriggio, c'e' la Messa per gli studenti di NYU. La Messa di Pasqua e' pero' una sola. Niente discrimination. Mi aspetta una maratona di tre ore.
La
chiesa e' completamente buia, e si illumina soltanto quando il cero
Pasquale vi fa ingresso, simbolo del Cristo risorto. Dopo le letture,
e' la volta della parte che in Italia manca del tutto, per ovvi motivi.
Venticinque persone si accostano ai sacramenti. Chi al Battesimo, chi all'Eucarestia, chi alla Cresima. E' un momento forte, in cui la comunita', l'Ecclesia,
da' il benvenuto ai nuovi membri. La liturgia e' solenne, ma il tono e'
gioioso. Ad ogni proclamazione, gli astanti prorompono in un fragoroso
applauso. Dopo la celebrazione eucaristica, e' il momento di
ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla riuscita della
celebrazione. All'uscita c'e' il consueto saluto dei con-celebranti,
altro momento significativo che manca totalmente in Italia. Due dei
sacerdoti hanno presso il dottorato alla Gregoriana, e parlano bene
l'Italiano. Uno di loro, Vince, mi saluta con un gioioso "Buona
Pasqua". I belong.
Bellissimo resoconto Luk. Mi sembrava di essere allo stadio con te. Sai, questa atmosfera festosa mi ricorda un pò (con le dovute proporzioni) le partite di basket che seguivamo al palazzo. Anche lì niente disordini (o quasi) e solo una gran voglia di divertirsi e di vedere un bello spettacolo sportivo.
Niente a che vedere con certi palcoscenici pallonari dove l'evento sportivo (per molti almeno) viene assolutamente dopo l'abituale rissa fra tifosi o peggio contro le forze dell'ordine. Che schifo!
Devo dire che non condivido molto della mentalità americana, ma in quanto a approccio allo sport, sono anni luce avanti a noi. Dobbiamo solo imparare.
Ciao Luk e continua a scrivere questi resoconti di vita "normale" perchè sono veramente molto belli.
Andrea