Durante il week-end, ho proseguito con la revisione del corso che insegno agli studenti MBA. Lo chiamiamo "Global Economy," perche' di questi giorni qualunque cosa sia global vende bene. In realta' si tratta di un corso di macroeconomia con uno spirito internazionale. C'e' pero' una lezione che non rientra nel syllabus standard di un corso di macro. E' quella in cui parliamo di mercato del lavoro. Di questa lezione, la parte che piu' affascina gli studenti, soprattutto quelli americani, e' quella in cui parliamo delle innumerevoli distorsioni che affliggono il mercato del lavoro nei Paesi dell'Europa continentale.
Ieri ho aggiornato le tabelle con gli ultimi dati OCSE, che purtroppo risalgono al 2004, relativamente a Francia, Germania, Irlanda, Olanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Giappone, Canada, Stati Uniti e, ovviamente, Italia. Generalmente la stampa si limita a riportare il tasso di disoccupazione, ma ci sono altri indicatori che sono altrettanto significativi. Vediamoli.
L'Italia e' ultima per il tasso di occupazione, cioe' la frazione di individui in eta' lavorativa (15-64) che ha un lavoro: 57.4%, contro 75.6% della Norvegia, per esempio.
L'Italia e' prima nel tasso di inattivita' la frazione di individui in eta' lavorativa che
non e' parte della forza lavoro (cioe' non solo quelli che non lavorano, ma anche quelli che non cercano un'occupazione): 36.8% -- la Norvegia e' al 20.3%.
L'Italia e' prima nella disoccupazione a lungo-termine, la frazione di disoccupati che non lavora da piu' di un anno: 49.7% contro il 9.2% della Norvegia.
L'Italia e' prima nella disoccupazione giovanile, cioe' la percentuale di individui 15-24 che cerca un lavoro ma non lo trova: 23.5% contro il 7.8% dell'Olanda.
L'Italia e' seconda, dietro la Spagna, nella disoccupazione femminile, ovvero la percentuale di donne che cerca un lavoro ma non lo trova: 10.6%, contro il 3,6% per l'Irlanda.
Non sfuggira' a nessuno che un tasso di occupazione del 57.4% e un tasso di inattivita' del 36.8% sono ben piu' gravi di un tasso di disoccupazione dell'8%. Significa che solo 57 ogni 100 italiani in eta' lavorativa hanno un'occupazione legale! Gli altri non fanno nulla, o lavorano in casa, o lavorano in nero. In aggiunta, quattro italiani su dieci non solo non lavorano. Non lo cercano neppure, un lavoro. Il basso tasso di occupazione e' tra le determinanti principali del basso livello del PIL pro-capite (non il tasso di crescita -- il livello). Sempre secondo l'OCSE, qui negli Stati Uniti il tasso di occupazione e' del 71.2%. E inoltre l'americano medio lavora 250 ore in piu' dell'italiano. A 8 ore al giorno, fa circa 30 giorni in piu' ogni anno!!!!
A questo punto, il sociologo della mutua si lancerebbe in una digressione sulle tare che gli Italiani hanno ereditato dai Borbone. Ma questo e' nFa, per fortuna. Gli Italiani non sono certo dei lavativi. Il problema sta nei disincentivi all'offerta (e alla domanda tambien). Un paio di settimane fa' e' stato annunciato che ben duemila lavoratori Fiat sono stati posti in mobilita' lunga. Significa che tali signori, appena licenziati dalla Fiat, e presumibilmente tra i 50 e i 60 se uomini e tra i 45 e 55 se donne, percepiranno il 70% circa dello stipendio fino al raggiungimento della pensione, a titolo di gratuita'. Si tratta di individui che, essendo nati dopo la seconda guerra mondiale, con ogni probabilita' hanno avuto un regime nutrizionale soddisfacente e sono andati a scuola per almeno cinque anni, ma in media molto di piu'. Individui che, pur essendo idonei a molte occupazioni, smetteranno di produrre, e si trasformeranno in fardelli di durata quarantennale per la societa'. Queste non devono intendersi quali parole di biasimo. Coloro che sono stati posti in mobilita' hanno semplicemente fatto una scelta razionale. Dopotutto, la possibilita' di prendere circa 70% dello stipendio e poter scegliere tra l'ozio e il lavoro in nero farebbe gola a molti.
E' questo l'unico modo di fronteggiare licenziamenti in massa come quello operato dalla Fiat? Certamente no. Il 10 maggio 2006, il New York Times riportava la chiusura di uno stabilimento Ericsson in Svezia. Nello stile dei giornali americani, il Times ci informava che Marie-Louise Nordstrom, 53enne che era stata impiegata in quello stabilimento per 35 anni, avrebbe mantenuto l'intero stipendio per un anno, per poi passare all'80%. Questo, alla condizione che partecipasse ad un corso di riqualificazione professionale e che quindi si impegnasse nella ricerca di un nuovo posto. La parte interessante sta proprio in questa condizione. Paesi come la Danimarca, l'Olanda, e la Svezia, sono all'avanguardia in quelli che l'OCSE chiama politiche di activation, ossia politiche che danno incentivi ai disoccupati di riqualificarsi e tornare al lavoro. E' ovvio che questi interventi non sono a costo zero, ma e' altrettanto ovvio (tautologico?) che sortiscono rendimenti superiori a quelli (negativi) generati dalla mobilita' lunga.
Alla luce di queste considerazioni, e' sconcertante che in Italia il dibattito sul mercato del lavoro si concentri sulla rimozione o meno di alcune tra le tipologie contrattuali introdotte con la legge Biagi. Le riforme introdotte durante le ultime due legislature hanno prodotto buoni risultati, checche' ne dicano gli osceni sindacalisti che ci ritroviamo. In particolare, hanno avuto l'effetto di mettere tanti giovani al lavoro. Ora e' necessaria una riforma globale delle politiche del lavoro, incentrata su pochi semplici punti tra cui 1) il sostegno del reddito dei disoccupati (piuttosto che la protezione del posto di lavoro), da attuarsi con l'introduzione di un sussidio di disoccupazione vero e proprio, di durata limitata e subordinata alla riqualificazione professionale e/o alla ricerca di un nuovo posto; e 2) l'introduzione di incentivi all'offerta, attraverso il calo dell'imposizione fiscale, l'attivazione di asili nido, e la liberalizzazione totale dell'orario di lavoro, in modo tale da garantire la massima flessibilita' alle famiglie.
Concordo su tutto eccetto sul fatto che le activation policies siano molto efficaci. Da quel che ricordo dell'evidenza (ma sono passati alcuni anni e mi sono un po' disinteressato dell'argomento), le ALMPs in genere non hanno grandi benefici. Heckman, LaLonde and Smith nell'Handbook of Labor Economics III suggeriscono che gli effetti sono minimi e che i problemi econometrici nella valutazione degli effetti sono belli grossi (qui, nelle conclusioni c'e' un summary). Ricordo anche di aver letto un paio di papers di Calmfors sulle ALMPs in Svezia, che mostrava che gli effetti sono non significativi, e che generalmente il retraining serve a poco.
Non sono sicuro che sia pertanto ne ovvio ne tautologico che tali interventi siano efficienti. Magari lo sono, ma il diavolo sta nei dettagli, e se comunque gli effetti (anche con tutti i dettagli apposto) sono minimi... Concordo che sia meglio della mobilita' lunga o della CIG, ma per il resto ho i miei dubbi.