La vicenda è nota, qui l'esordio e qui alcuni sviluppi. Sostanzialmente il TAR della Lombardia ha rigettato la decisione del Senato Accademico del Politecnico di Milano volta a introdurre come lingua veicolare per l'insegnamento l'inglese, dando così ragione ai docenti che avevano impugnato quella scelta, ritenendola lesiva della loro libertà a continuare ad insegnare in italiano.
Ora, la questione è assai dibattuta e alle volte si assiste all'esibizione di argomenti contrari all'introduzione della lingua inglese (ma fosse francese o turca sarebbe uguale) che francamente appaiono poco stringenti. Nè sì può dire che la decisione del TAR di cui sopra sia un atto giuridico completamente scollegato dal modo di ragionare di alcune elites italiane, che anzi sembrano vedere nella decisione del TAR la cristallizzazione giuridica della loro ostilità nei confronti dell'inglese e delle avvertite pretese egemoniche che la sua utilizzazione implicherebbe. Già Galli della Loggia, blasonato editorialista del Corriere della Sera, nel lontano 2007 aveva espresso scetticismo per la decisione di un altro ateneo di attivare corsi in lingua inglese, e già su questi schermi si era preso un po' di ironia di Alberto.
Adesso è la volta del Politecnico di Milano e ancora si avvertono diffuse reazioni all'uso dell'inglese.
Tralasciando le questioni giuridiche, ovvero le specifiche interpretazioni della leggi che hanno giustificato la sentenza del TAR (e sono certo che con un po' di fantasia ermeneutica sarà possibile stirare le stesse leggi per far loro dire l'esatto opposto, ma staremo a vedere) rimane che, come molti hanno notato, l'introduzione dell'inglese nei corsi di laurea potrebbe rappresentare effettivamente un modo per modernizzare il nostro sistema formativo, renderlo più internazionale, cioé aperto a studenti stranieri nonché rendere possibile ai nostri studenti di collocarsi meglio nel mitico "mondo del lavoro". Sembrano cose così scontate e ragionevoli che non si vede dove dovrebbe sorgere il problema. E invece i problemi sono sorti.
In prima battuta mi si lasci però dire che il nostro paese un problema con l'inglese ce l'ha eccome. Innanzitutto basta essersi confrontati con studenti provenienti dal Nord-Europa o dall'est europeo, per constatare come in quei paesi si studino assiduamente una o più lingue, oltre a quella nazionale. Ricordo ancora l'imbarazzo cocente che noi studenti Erasmus italiani provavamo nell'esprimerci in inglese a confronto con studenti di altri paesi (in genere solo i ragazzi spagnoli e greci facevano peggio), e infatti se si trattava di interagire con tedeschi, olandesi, cechi, danesi, polacchi ecc. ecc., beh non c'era storia: se noi italiani ci facevamo capire era solo grazie alla nostra agilità a gesticolare e a sostituire le parole che non conoscevamo con tecniche diciamo ostensive, indicando cioé gli oggetti. Ma questi sono aneddotti, anche se non meno veri di quello che si sperimenta ogni giorno, anche nelle grandi città: quando abitavo a Roma mi capitava di vedere il personale dei locali commerciali incapaci di parlare l'inglese con i turisti; ma non solo: pure sui mezzi pubblici l'accertamento del possesso del "titolo di viaggio" (chissà come si tradurrà questa cosa in qualunque lingua...) costringeva ad estenuanti trattative che si concludevano sempre al di fuori del mezzo perché i tempi della conversazione rischiavano di impedire la prosecuzione della "corsa". Tra l'altro, la nostra ignoranza delle lingue è molto ben distribuita nella società in genere e ha radice profonde. Infatti, a leggere certi accorati editoriali degli accademici della Crusca, o le severe riflessioni di giornalisti abili a scorgere la morte della patria e delle nostre tradizioni anche in frangenti meno che drammatici, quale può essere un corso universitario, non ci si capacita come possano essersi verificati episodi imbarazzanti come questo, che chiariscono non solo come le elites italiane non siano tanto lontane dall'ignoranza generalizzata, ma che quel timore di egemonia anglofona è un rischio davvero remoto; almeno se si può assurgere ai vertici incontrastati di politica, soldi e sport senza sapere una parola di inglese. Senza contare che la nostra attitudine italica ad americanizzarci in forme anche ridicole si è accompagnata spesso a una totale ignoranza dell'inglese e della cultura americana (che pensiamo riassunta in un viaggio Franco Rosso New-York, Boston, LA, ex Marlboro Country), come dimostra questo felice spezzone, girato in tempi non sospetti. Ovviamente all'attuale situazione hanno concorso, e concorrono tutt'ora, le circostanze con le quali sono insegnate le lingue nelle scuole italiane: scarsità di laboratori linguistici, insegnanti non madrelingua perché sennò i sindacati (e i loro protetti) bestemmiano (in tutte le lingue) e un'impostazione dell'insegnamento che continua a dare ancora troppa importanza alle letterature (o alla filologia) nel momento dell'educazione linguistica...tutti tratti di un'impostazione culturale nell'approccio con le lingue che ritornano quando, adottando argomenti di difesa della lingua italiana e del suo uso, si giustifica questa tutela con l'esistenza della sua letteratura, della sua tradizione, dell'importanza di evitare egemonie di sorta e così via.
E infatti, i tratti ricorrenti delle battaglie culturali per la protezione della lingua italiana sono comunque ricorrenti. Sì va dall'idea che ci sia una tradizione letteraria e linguistica che meriterebbe una protezione anche rispetto alle esigenze dei parlanti attuali, come che le lingue vivessero di una vita propria, che starebbe al giudice (o al letterato) di tutelare, preservare e tramandare e non piuttosto un oggetto vivo, che cambia e che si rinnova, e può, come abbondano gli esempi, morire ed essere dimenticata. Al fondo di concezioni simili vi sono echi ababstanza evidenti di visioni della lingua e del linguaggio tipiche del Romanticismo. Secondo tali concezioni la lingua non sarebbe un veicolo di comunicazione funzionale all'interazione fra persone, bensì un'emanazione dello Spirito del Popolo, dei suoi valori e delle sue tradizioni, per cui valicare la soglia del proprio linguaggio, specie in ambito educativo, per un popolo significherebbe smarrire il senso più profondo della propria cultura, della propria storia e dei valori fondanti della civiltà alla quale si appartiene. In questo senso, impartire lezioni in inglese tradirebbe un concetto di formazione più esigente e comporterebbe l'esautoramento della cultura di provenienza. Al limite estremo di queste posizioni ci sono quelli che pensano che imparare una lingua nuova sia come aprire un mondo completamente nuovo di giudizio e di pensiero, come che le lingue fossero mutuamente incommensurabili. Ma è ovvio a tutti, tranne evidentemente a certi accademici, che la lingua è un mezzo che la gente usa per comunicare e che il ricorso a forme di tutela giuridiche per specifiche forme linguistiche (in condizioni peraltro nelle quali non è in discussione per gli studenti la possibilità di seguire comunque corsi in lingua italiana in altre sedi uninversitarie) sottintende una visione della società abbastanza inquietante.
Inoltre, questa visione, romantica, nel senso di ingenua, non regge due minuti di serio esame. Ci sono paesi, come la Cina, aggressivamente nazionalisti e con visioni egemoniche della loro propria lingua nazionale, anche rispetto alle lingue minoritarie che sono presenti nel paese, che si internazionalizzano organizzando corsi in inglese e comunque mettendo le loro elites in contatatto con inglesi e americani, per finalità che sono di sviluppo economico e militare. Adesso i cinesi imparano l'inglese e studiano altre lingue, e se la loro visione sarà quella giusta un domani bisognerà imparare il cinese. Senza contare che la stessa lingua inglese non appare affatto egemonica nel senso tradizionale del termine, dal momento che la sua "imposizione" appare più il frutto di una proiezione in campo linguistico di egemonie di altro tipo: scientifico, commerciale, industriale ecc. ecc. E questo dovrebbe chiarire un aspetto elementare: più che pretendere di tutelare l'italiano a colpi di dottrina, leggi, commi e simili, sarebbe meglio che quanti parlano l'italiano difendessero la loro lingua tornando a fare esattamente quello che si faceva negli anni d'oro della nostra tradizione letteraria e linguistica: crescere economicamente, fare figli, svilupparsi, attirare stranieri nella nostra terra, esportare le nostre merci e così via. Pensare che una lingua possa essere difesa sperando nell'impossibile efficacia performativa di un giudice e delle sue sentenze è pura illusione.
Ps: non capisco poi in cosa consisterebbe la discriminazione degli studenti che non conoscano la lingua inglese se dovessero essere attivati dei corsi in quella lingua. Qui davvero non capisco se siamo nell'ambito del diritto condendo o cosa? Voglio dire: forse che il riconosciuto e verificato possesso di pre-requisiti di matematica necessari per un corso di economia sono una forma di discriminazione? No, evidentemente. E allora perché prevedere che lo studente debba poter comunque seguire le lezioni in italiano? Da un punto di vista sociologico sembra quasi una tesi pensata per tutelare gli italiani come se gli studenti del Politecnico fossero come i Kurdi in Turchia negli anni '90, quando era proibito l'uso della loro lingua, una situazione dalla quale siamo ben lontani in Italia: infatti, pochissimi conoscono l'inglese e certamente non c'è una egemonia del suo uso. Forse si teme allora una sorta di piano inclinato, con la graduale ma inesorabile eliminazione dell'italiano, che come tutti sanno esiste da quando il mondo era una palla di fuoco? Anche se poi alla fine la domanda delle domande è questa: ma può una questione del genere essere lasciata a sentenze, ricorsi, e appelli? No forse, no, non è possibile perchè l'inglese è importante comunque e magari pure facile come dice quella faccia da schiaffi del bambino nella pubblicità.
stanno non solo imparando l'inglese, ma stanno sussidiando l'insegnamento del cinese nelle scuole pubbliche americane
Se i Cinesi si dimostrassero in grado di far imparare agli Americani una lingua straniera, per di più in ideogrammi, avrebbero dimostrato una irrangiungibile superiorità a cui potremmo solo inchinarci...