No interessa fiori

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Ernesto Galli della Loggia è preoccupato per la tradizione culturale italiana. Rispondo alla domanda retorica con cui argomenta la sua posizione.

Sul Corriere del 1 Settembre (scusate il ritardo con cui compilo l'avvelenata, ma iniziano i corsi e c'è troppo da fare) Ernesto Galli della Loggia ha pubblicato un Calendario (trafiletto breve che credo scriva settimanalmente o forse anche giornalmente). Se la prende con l'IMT di Lucca per i corsi in inglese.

Riporto la domanda posta a conclusione dell'articolo 

Che cosa potrà mai restare della tradizione culturale italiana

se settori addirittura d'eccellenza del suo sistema d'istruzione

cominciano a rinunciare alla lingua nazionale? Invitare docenti

stranieri, certo! Imporre agli studenti la conoscenza dell'inglese,

certo! Ma davvero avremmo voluto vedere Marchesi, Mortati o Chabod

insegnare in inglese?

E rispondo:

Non rimane nulla della tradizione culturale italiana, Professor Galli della Loggia. I Marchesi, Mortati o Chabod del presente parlano già inglese, mangiano hamburgers, ascoltano  seminari coi piedi sul tavolo, si fanno dare del tu dai propri studenti, e non li costringono a portare borse ma a scrivere papers pubblicabili. La tradizione culturale italiana è stata distrutta dagli  accademici italiani che hanno  difeso le proprie misere rendite con ogni mezzo, incluso facendo scappare all'estero quasi tutti quelli migliori di loro. Un esempio di come si difendono le rendite: si esorta a bloccare l'uso dell'inglese attraverso il Corriere. 

Ma forse sono troppo cattivo; forse Lei ha solo davvero a cuore l'eredità di Dante, Petrarca, e Boccaccio. Dopo tutto nell'articolo, bontà sua, Lei ammette:  

Non solo per il dottorato in Economia o in Nanotecnologie—ciò che

potrebbe avere ancora un senso — ma ad esempio anche per quello in

Scienze Politiche. 

Allora è diverso. Solo a Scienze Politiche l'uso dell'inglese è senza senso. Cosa insegna Lei, Professor Galli della Loggia? Non sarà che insegna Scienze Politiche per caso?

Mi permetta un commento finale a spiegazione del titolo: un divertentissimo sketch (la usano anche all'Accademia della Crusca la parola sketch ormai, professor Galli della Loggia, me la passi) di Zelig per Emergency (mi spiace, si chiama così, Professor Galli della Loggia, Gino Strada evidentemente non ama Boccaccio come Lei - o forse ha il problema di evitare di farsi sparare addosso da chi non capisce l'italiano) immagina l'India (che lingua parlano lì a scuola? Hindi? Sanscrito?) tra una decina d'anni. Della gente allegra al ristorante viene importunata da un venditore di rose cui tutti dicono, lentamente, cercando di pronunciare parole per loro impronunciabili "no interessa fiori". Così descritto non sembra, ma le assicuro a vederlo e pensarci ... è davvero esilarante!

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Commenti

Ci sono 29 commenti

Nella rubrica delle lettere del Corriere di ieri c'è stata un'altra puntata di questa vicenda. Il direttore dell'IMT ha spiegato che in economia (come in quasi tutte le discipline) la lingua di comunicazione universale è l'inglese, usato in articoli, conferenze, seminari, ecc. La risposta di EGDL è stata: ma allora perché non insegnare tutto in inglese sin dalle elementari?

...che poi... parliamone!  Sono sempre più convinto che, per un Paese come l'Italia, il danno causato dall'avere una popolazione così ignorante per quanto riguarda le lingue straniere sia immenso (vedi alla voce "Svezia"). Non potendo ricorrere a misure "eccessivamente drastiche", imponendo un bando su cinema e TV doppiati, concepire un'educazione bilingue fin dalla più tenera età potrebbe essere una buona soluzione...

just kidding (?)

Indipendentente dal fatto che l'inglese vada o meno insegnato da subito (io penso di si e sono d'accordo con michele), la replica di EGdL e' davvero priva di senso. Ricapitolando, EGdL scrive il suo pezzo sfortunato dimostrando, nonostante sia un professore universitario, di non avere alcuna idea di cosa sia un dottorato o di cosa significhi fare ricerca. Il direttore dell'IMT gli risponde sostenendo che condizione necessaria per organizzare dottorati di buon livello e' farlo in inglese. EGdL contro replica che, date queste premesse, "l'intero sistema scolastico italiano [...] dovrebbe adottare l'inglese". Una domanda sorge spontanea, ma il Corriere come sceglie i suoi editorialisti nell'eccellente e italianissimo panorama universitario?

 

 

L'illustre prof lamenta il bel tempo andato ma non si scandalizza quando si rinuncia a pretendere dagli immigrati una buona conoscenza della lingua italiana. Tra difesa leghista dei dialetti e barricate rifondarole sul diritto degli immigrati a vivere come a casa loro, senza nemmeno rispettare le nostre regole (ammesso che ne abbiamo) e parlare la nostra lingua, l'assenza di coscienza nazionale si manifesta in tutta la sua gravità.

Pare chiaro che insegnare in inglese letteratura italiana o diritto italiano sia subottimale; ma l'economia, quel tipo di pensiero così lontano da quello nostrano, e così importante per sopravvivere nel mondo in cui abbiamo voluto entrare, è nata e si è sviluppata nella patria dell'utilitarismo ed è ottimale che si insegni e se ne parli nella lingua d'Albione. Chi scrive ha iniziato a capire qualcosa di economia quando ha smesso di leggerla in italiano, qualcosa significherà.

In Grecia per ottimizzare costi e benefici hanno vietato il doppiaggio delle fiction in inglese. Tutto è in lingua originale o al massimo sottotitolato. Se qualcuno ne è al corrente, segnalate qualche ricerca dove si dimostrano gli effetti benefici di questa scelta eccellente che andrebbe fatta anche da noi quanto prima.

L'esimio prof dovrebbe conoscere l'importanza della lingua franca, la lingua internazionale del commercio e dello scambio delle idee (http://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_franca). Quando la capitale della superpotenza planetaria era in Italia, ovunque si parlava latino. Oggi come allora, è del tutto ovvio che la lingua franca sia quella dei padroni dell'Universo.

Invece delle solite geremiadi, impariamo ad usare intelligentemente l'inglese (= per la visibilità culturale verso l'esterno) e nel frattempo imponiamo agli immigrati la nostra lingua, che per loro diventi strumento di integrazione e emancipazione.

 

Come spesso succede (ed e' giusto che succeda) i commenti sono partiti per la tangente. forse anche motivati dal fatto che non ho chiaramente esplicitato che quello che IMT si appresta a fare (e EGdL lamenta) e' l'insegnamento di economia e scienze politiche a livello di dottorato in inglese. io sono d'accordo con vari commenti precedenti che l'italiano sia diventato sufficientemente minoritario al mondo che una buona istruzione bilingue come nei paesi nordici ci farebbe del bene. ma capisco anche che molte persone per bene potrebbero essere offese nel proprio nazionalismo da cosa come questa.

ma qui si tratta di corsi di dottorato. non per nulla EGdL usa come risposta a Fabio Pammolli, il direttore di IMT,l'argomento  - ma allora che si inizi dalle elementari - perche' a lui pare ovvio che questa e' cosa che il lettore medio trova offensiva. vorrei pero' notare che non e' questo a cui il nostro si oppone. nemmeno all'insegnamento di economia in inglese; solo di scienze politiche, la sua disciplina accademica. EGdL non si e' accorto che pochissimo di valore nella sua disciplina non e' scritto in inglese (o almeno non e' tradotto in inglese). lui non lo sa perche' ovviamente lui scrive ma non legge quello che la sua disciplina produce - e scrive cose che nessuno nella disciplina legge. 

Maiuscole a parte - che succede? Shift e Caps Lock bloccati in simultanea sul PC di casa? - non posso non condividere ...

Infatti, condividendo un po' troppo ed essendo io il "cattivo" designato della combriccola ho letto fra le righe. Leggendo fra le righe (omesse) del tuo commento non ho saputo resistere alla tentazione di chiedere a Google Scholar la risposta alla domanda che chiude il tuo commento (manca il punto di domanda, ma fa lo stesso: e' chiaramente una domanda).

Ora io non so che cosa legga l'eccelso professor EGdL, ma Google Scholar ha saputo darmi una stima di cosa scrive e di chi se lo legge. La risposta la trovate qua.

L'informazione rilevante sta (lo dico per i lettori che con Google Scholar non sono ancora familiarizzati) sia nella linea in cima alla pagina che dice "Results 1 - 10 of about 16 for ernesto galli della loggia author:e-della-loggia" che nei numeri che seguono il "Cited by ..." dopo ognuna delle pubblicazioni. I numeri di Google Scholar, lo sappiamo, sono stime imprecise e dipendono molto dal campo di specializzazione in cui uno lavora: chi pubblica in aree molto frequentate ha ovviamente molte piu' citazioni. Tanto per dare un'idea, ho guardato cosa da' Google Scholar se metto il nome di un collega mio che pure si occupa di Scienze Politiche, ed ho ricevuto questo. Ho anche controllato per un paio d'italiani, di diversa eta', che lavorano nello stesso campo, ed ho avuto questo e questo. Impressionante, davvero impressionante.

La morale, di nuovo ovviamente, ha poco a che fare con il professor EGdL in se' e per se' - non vorrei personalizzare troppo: trattasi solo di un esempio e gli esempi, per essere tali, non possono che essere molto concreti - ma con cio' che questo esempio suggerisce, una volta ancora, sulla qualita' e la rilevanza della ricerca fatta dai grandi accademici che nel Bel Paese discettano di scienze sociali. 

 

 

 

Allora è diverso. Solo a Scienze Politiche l'uso dell'inglese è senza senso. Cosa insegna Lei, Professor Galli della Loggia? Non sarà che insegna Scienze Politiche per caso?

Pare non piu': il link che riporti dice che fa il preside della facolta' di Filosofia dell'antica e rinomata Università Vita-Salute San Raffaele (data di fondazione: 29 marzo 1996), che peraltro offre soprattutto corsi di medicina (anche perche' pare essere uno spinoff dell'Ospedale San Raffaele).

Verissimo. E' diventato Preside quando l'amico di Michele è stato (ri)eletto sindaco di Venezia.

La questione riguarda, appunto, i dottorati. E allora alcune domande vengono spontanee. Che interesse “nazionale” s’intende difendere imponendo agli allievi stranieri la conoscenza dell’italiano come prerequisito per l’ingresso? Perché la capacità delle nostre università di attrarre allievi e ricercatori italiani bravi dovrebbe essere legata al fatto di tenere i corsi in italiano e non invece al design di incentivi adeguati e all’apertura delle selezioni? Che mercato del lavoro per gli allievi si ha in mente quando si chiede di insegnare in italiano nei dottorati? La lingua franca della ricerca è, in economia, in scienze politiche, in informatica…., l’inglese. E se un dottorato è, appunto, di ricerca, non si capisce quale sia l’ostacolo a che i corsi si tengano in inglese. Se le nostre università e le nostre imprese offriranno condizioni di lavoro dignitose alcuni stranieri verranno per restare, magari insieme ad alcuni di quegli italiani che sono stati, di fatto, cacciati dal nostro Paese. Forse, l’interesse nazionale sta nell’aprire alla concorrenza il nostro sistema universitario, sia per i ricercatori che per gli studenti: a meno che non si pensi di invocare su un tavolo l’abolizione del valore legale del titolo di studio e di stracciarsi le vesti su un altro tavolo per difendere l’italianità delle nostre università e dei nostri dottorati.

A me è apparsa ancor più infondata la controrisposta che Galli della Loggia - sempre sulle pagine del Corriere (14/09/2007) -ha dato al direttore di IMT che lo invitava a riflettere sull'importanza dell'Inglese come veicolo per trasferire e confrontare le conoscenze, e non come simbolo di identità nazionale o culturale negata (per chi lo adotta). Galli della Loggia risponde che, se si volesse essere coerenti sulla questione della lingua, allora bisognerebbe convertire all'Inglese l'intero sistema scolastico. Ma di che cosa si sta parlando? Della lingua con cui i figli si rivolgono ai padri in famiglia, di quella che ci accompagna in tutte le fasi della nostra vita, la prima che si impara a parlare e in cui spesso (anche dopo averne imparate di altre) meglio si riesce ad esprimere sentimenti ed emozioni; oppure di uno strumento di lavoro, necessario per partecipare delle idee del mondo e magari anche a cambiarle in meglio? Uno strumento che non sostituisce ma che si deve aggiungere al momento opportuno. Se potessero parlare, tutti i grandi dell'Umanesimo e del Rinascimento italiano gioirebbero delle possibilità di comprensione e di arricchimento che possono giungere da una "parlata" comune. Una lingua muore anche quando si chiude ai pensieri nuovi, indipendentemente da quale sia la lingua in cui sono stati pensati per la prima volta.

per me, studiosa di economia, è stata una grande esperienza partecipare alla conferenza di economia industriale che si e' tenuta a Barcellona una settimana fa. ci siamo incontrati, giovani (e meno giovani), economisti da tutto il mondo, per presentare i nostri articoli e ascoltare le presentazioni degli altri. per dare risposte e fare domande. per, in altre parole, crescere confrontadoci. un'esperienza di tre giorni più formativa di mesi di studio solitari. un'esperienza che, senza la condivisione di un'unica lingua, l'inglese, non avremmo potuto fare.

Certo voi che cercate EGdL su Google Scholar siete proprio degli ingenui. Eppure, se non ricordo male, qualcuno di voi conosceva il sito dove il nostro e' sicuramente piu' citato....

Essendo io l'assiduo-si-fa-per-dire frequentatore di Cafonal, non posso che cospargermi il capo di cenere, e ringraziarti per la segnalazione.

Che squisita ed elegante combriccola di grandi intellettuali e scienziati sociali, la creme de la creme dell'intelligenza italo-romana. Muoio d'invidia nel pensare non tanto e non solo alla crostata di frutta, ma alla qualita' della conversazione.

Non bastasse EGdL, c'erano anche Pellicani, Kostoris, Craveri, Zincone, ... quelli son cervelli sapienti.

Da modesto e semisbarbo studente in Scienze Politiche, ogni giorno mi dico che dovrei rintracciare ogni singolo docente il quale non mi abbia comunicato la capitale importanza dell'inglese. Praticamente tutti!

A parte l'evidenza che chi sa comporre testi in inglese in gran parte dei casi lo sa fare, e bene, anche in italiano, il nodo è a monte: gran parte della letteratura specialistica di tantissimi settori - e questo vale anche e soprattutto per quelli attinenti a SP - non è prodotto nè tradotto in italiano, con gravissime ricadute per lo studente medio, che conosce al massimo il sommario inglese di Mtv.

 Qua c'è da piangere, e della Loggia vorrebbe ingranare la retromarcia. Pazzesco.

Prescindendo dall'impostazione triviale del discorso avviato da GdL (non v'è dubbio sull'utilità dell'Inglese come strumento di interazione e comprensione nel nostro mondo sempre più piccolo), credo per per la Lingua (quella con la "L" maiuscola che GdL chiama a sproposito in causa) valgano le stesse categore che per la Civiltà. Sui lunghi orizzonti della Storia, non ha senso, a mio modo di vedere, puntellarla dall'esterno per mantenerla identica a se stessa o per eternarne le glorie. Intendo dire (ma mi rendo conto che il discorso è molto complesso e il rischio di essere superficiali/banali elevato) che anche la Lingua segue le parabole evolutive di tutte le cose umane, comprese le fasi di forte cambiamento e di tramonto. Amo la Lingua italiana e tutta la cultura che da essa zampilla, e non sto affermando che essa si è avviata al tramonto. Tento di fare un discorso più generale e mi sento di affermare che anche se una Lingua lentamente passasse, questo non rappresenterebbe un fallimento, ma una trasformazione della Civiltà che l'ha creata e che vi si è rispecchiata in una nuova esperienza di Civiltà. Altrimenti, dovremmo interpretare tutta la storia del genere umano come una lunga serie di fallimenti. "Il Latino è vivo o è morto?", spesso ci si chiede. La risposta che più mi piace è che è morto perchè non è una lingua ufficiale e non la si pratica tutti i giorni per interagire, ma è contemporanemante vivo, perchè è la lingua in cui hanno trovato espressione momenti fondamentali del mondo occidentale (dalla introspezione dei sentimenti, alla costruzione delle istituzioni politiche, alle scienze) e di cui non possiamo (per parafrasare Croce) non sentirci figli. Ma la grandezza del Latino è frutto del livello di evoluzione e sofisticazione della Civiltà che lo parlava (oltretutto multietnica e globalizzata nei confini allora conosciuti). Se si restringono le capacità di interazione linguistica e ci si chiude rispetto al patrimonio di pensieri e idee che gorgogliano al di là dei confini, che futuro ci sarà per i contenuti da esprimere nella nostra lingua?

... dimenticavo di dire che la collaboratrice domestica di mia sorella Giovanna, tale Bianca, 50enne originaria del Marocco, parla, in aggiunta a un buon Italiano, anche Francese, Inglese, Spagnolo e Tedesco (ha seguito i genitori in vari spostamenti per ragioni di lavoro). Non nascondo un po' di imbarazzo quando la incontro. Cucina anche un ottimo cous-cous.

Come prevedibile, una discussione sull'efficiacia dell'insegnamento in inglese è scivolata in una discussione sul destino dell'italiano.

In realtà credo che l'italiano sia vivo e vegeto e su Repubblica di oggi c'è una interessante intervista ad un linguista che ce lo ricorda. Certo è una lingua che sempre più spesso importa direttamente anglicismi senza neanche tentare di tradurli e questa pigrizia, dovuta principlamente ai giornali che sono i primi "importatori", a mio parere non è positiva.

Sino ancora a 2/3 decenni fa i termini stranieri venivano in qualche modo italianizzati. Prendiamo ad esempio a "science fiction". Importata oggi, rimarrebbe puramente e semplicemente "science fiction" invece di venire tradotta, come avvenne negli anni '50, in "fantascienza" e questo sarebbe  un peccato, perchè una acquisione "pura" di scence fiction avrebbe impedito interessanti evoluzioni linguistiche tipo "fanta-politica", "fanta-economia"....Fanta-calcio, che da un lato dimostrano la duttilità linguistica dell'italiano e dall'altro l'inopportunità - spesso - di mantenere inalterati i termini stranieri.

Del resto l'italiano ha il destino di rimanere una lingua di nicchia, perchè parlato da una infima minoranza su base mondiale, ma comunque una nicchia di qualità, dato che per ragioni storiche e culturali  è comunque una lingua troppo importante per prevederne l'oblio a breve termine che anzi manifesta persino una modesta capacità di "esportazione" in altre lingue, (con effetti anche bizzarri tipo il "frappuccino" di Starbuck's) che altre lingue di pari "dimensione" non hanno.

Aggiungerei anche oggi l'italiano rappresenta la lingua di elezione dei tanti "nuovi-italiani" che sono immigrati da noi.

"Nanetto" piccolo piccolo: l'altro giorno ho stipulato una compravendita con mutuo dove il venditore era un tunisino, l'acquirente un senegalese, il rappresentante della banca era nato in Argentina e l'agente immobiliare era rumena. Il principale punto di contatto tra tutte queste persone era la lingua italiana con la quale tra di loro comunicavano ed io che ero l'unico italiano "puro", ho potuto assistere - devo dire compiaciuto - ad un pezzo della nuova Italia che sta nascendo (ma quest'ultimo aspetto meriterebbe una altra discussione).

 

Condivido le cose che hai scritto. Nella mia precedente non vedevo agonizzare la nostra lingua. Facevo una riflessione ampia (forse troppo) su che cosa si può e non si può chiedere alle lingue nelle ere storiche. Anzi, la prima cosa che ho pensato dopo aver letto il pezzo sul Corriere è proprio che bisognava distinguere la questione dell'Inglese-strumento da quella del futuro dell'Italiano. Questo nell'immediato della diatriba, perchè poi non sono così sicuro che sui secoli e sui millenni si possa davvero separare la qualità di una lingua dalla qualità dei contenuti dei discorsi e dei pensieri di coloro che la parlano. Sulla qualità dell'Italiano di oggi e sulla ricchezza culturale (ereditata) che lo sostietene non vi sono dubbi. "Guardiamo lontano perché siamo sulle spalle dei giganti".

 

Credo che ci sono delle professioni in cui conoscere altre lingue e' necessario se non obbligatorio e bisognerebbe rafforzare le lingue in questi campi. I modi sono moltissimi: in Spagna per esempio c'e' la possibilita' di vedere il film in lingua originale oppure in catalano con un semplice click sul telecomando. Frequentare dei corsi per adulti che non costino tanto, ma che vengano in parte finanziati dai comuni. Inoltre nelle universita' si potrebbe attivare un volontariato di scambio di lingue tra studenti, anche se in realta' nelle nostre universita' gli studenti straneri ultimamente sono in dimunizione.

Anche se sono d'accordo che a volte la lingua italiana viene un po' abbandonata e queste espressioni inglese non sono molto adeguate.  Conoscere la lingua italiana e' molto importante per aprezzare la nostra storia , poterla leggerla e capirla....

Un buon esempio dovrebbe venire dai nostri rappresentanti politici che sono al comando e rappresentano la nazione.

Gentile Bisin,

per prima cosa le vorrei segnalare che lei è stato citato nella sezione di Economia del Sole 24 Ore di domenica scorsa, in particolare mi riferisco all'inserto domenicale. Magari le interessa...

Io vorrei solamente fare presente sia a lei sia ai commentatori che Galli della Loggia ha posto comunque un problema serio, per quanto non condivida il tono della sua rubrica, che ha sempre un tono moralistico, stile "mala tempora current...meno male che ci sono io intelletuale che vi tengo all'erta."

Voglio inoltre precisare che sono un anglofilo, ho scritto la tesi di dottorato in inglese, pur avendo frequentato il dottorato in Italia, e insomma sono favorevole a tutte le misure, proposte anche in questo blog, per aumentare la conoscenza dell'inglese.

Quello che non capisco però è perchè negare che sia possibile svolgere attività di ricerca di eccellente livello pur utilizzando nelle università le lingue nazionali di ciascun paese.

Mi spiego meglio. Lei dice che della tradizione culturale italiana non rimane nulla. A parte la perentorietà dell'affermazione che, non è il mio caso, potrebbe risultare offensiva, essa è messa in relazione con questioni che non sono a mio giudizio strettamente legate al tipo di lingua utilizzata. Ma lei crede davvero che l'attacamento a una tradizone culturale specifica, nonche l'uso di una lingua che non sia l'inglese sia necessariamente un vincolo o un limite al conseguimento dell'eccellenza nella ricerca? Io conosco esempi del contrario. Prenda il caso del Center for the Study of Rationality della Hebrew University, forse che non produce ricerca prestigiosa solo perchè certamente i suoi membri sono fortemente legati all'identità culturale e linguistica del paese dove operano? Io non credo. Oppure mi viene in mente l'Institute of Logic, Language and Computation di Amsterdam. Sono tutte realtà che ovviamente fanno ricerca in inglese, ma si propongono di lavorare nella realtà nella quale operano, mentre nelle misure adottate anche dalla Luiss c'è un po' il tono che aveva l'inglese nel film un Americano a Roma di Sordi: ovvero io so padrone della lingua, ma solo con gli amici più ignoranti di me.

Lei aggiunge poi nel suo commento una serie di cose tristi e vere che tutti conosciamo benissimo essere tipiche dell'università italiana. Ripeto che sono d'accordo con quanto dice a commento della nota di Della Loggia, ma vorrei comunuqe sapere se davvero lei ritiene che non ci siano problemi di indentità culturale quando una università propone tutti i suoi corsi in inglese, sia a livello undergraduate che postgraduate, che è peraltro una misura alla quale non siamo ancora arrivati, perchè alla Luiss, la maggioranza dei corsi si tiene ancora in Italiano.

Per farla breve insomma penso che, se i corsi post-graduate si tenessero in Italiano e questi fossero organizzati seriamente, non ne deriverebbero limiti alla qualità di quanto insegnato, posto ovviamente che discenti e studenti si confrontino con la letteratura inglese e con i visiting professor in inglese. Inoltre se i nostri benedetti corsi di master e dottorato si svolgessero in italiano potremmo anche inserire nell'università italiana ricercatori stranieri, e lei sa bene quanto sarebbe necessario che questo avvenisse.

Inoltre secondo me è opportuna un'altra distinzione. I ricercatori affermati, nonchè professori premi nobel e quant'altro dovrebbero certamente essere messi in condizione di lavorare in inglese nelle nostre università (una volta trovata l'aula, la chiave dell'aula, recuperate le sedie e deciso se mettere o meno il crocefisso alla parete), mentre almeno per gli studenti bisognerebbe richiedere che conoscano un pò d'italiano almeno per potersi integrare nel paese oltre l'attività di ricerca condotta nelle università.

Adesso le dico freudianamente da dove nascono queste mie considerazioni. Nel dottorato che frequentavo avevo una collega cinese che in tre anni non ha imparato l'italiano e ora se ne è tornata in Cina. Se parte del percorso formativo che ha seguito fosse stato anche orientato ad una maggiore integrazione con la cultura italiana forse ora sarebbe ancora mia collega. Non sto dicendo che tutti gli stranieri debbano fare quella fine lì, dico solo che non basta parlare inglese pe rendere più serie le cose in Italia, inoltre aggiungo che sogno quel momento in cui studenti stranieri fanno di tutto per imparare l'italiano e frequentare prestigiose università italiche dove si conosce benissimo l'inglese e lo si fa valere nelle pubblicazioni scientifiche internazionali, mentre in aula si parla nella lingua del paese dove si è nati o si è deciso di andare a studiare. (si lo so sono ingenuo, ma mi dia ancora qualche anno e le darò ragione)...

Sembra che l'inglese abbia cominciato a spopolare nelle universita' italiane. Non c'e' piu' religione!

Posso rispondere io: oggi sul Corriere, nella sua rubrica quotidiana Calendario, parla di "Tradizione addio". Cito una frase: "Esiste solo l'oggi e il domani, al massimo lo ieri: del saecula saeculorum non è rimasta traccia. Neppure più la religione, insomma, è in Occidente un fattore di conservazine del passato". Un uomo sconvolto dal passare del tempo e dai cambiamenti, il nostro EGdL.

anche EGdL ogni tanto ne azzecca una. Qui, per esempio, pone una serie di legittime ed importanti domande al nuovo darling della stampa benpensante - e, suppongo, delle televisioni di stato, ma quelle non ho la fortuna di vederle ... .

Vediamo se VW saprà dare anche solo delle parziali risposte; perché anche io avevo notato come dal programma pubblicitario dell'ovomaltina-VW mancassero tutti, ma proprio tutti, i veri problemi d'Italia mentre vi erano abbondanti risposte a domande mai poste condite da pacchiane fantasie romane.

Detto altrimenti, quando l'ho letto, il programmino ovomaltina-VW, ho avuto esattamente l'impressione del Cacciari Senior. Visto che l'ha detto lui, che è un fine intellettuale veneziano di sinistra che parla e scrive in greco e tedesco, lo posso finalmente dire anche io che sono solo un ragioniere fascista mestrino: il programma del PD consiste al momento in una valanga di mostruose puttanate ...