Gli effetti delle svalutazioni nel breve periodo
La competitività di un paese è solitamente misurata dal tasso di cambio reale, definito come il cambio nominale fra due valute moltiplicato per il rapporto fra i prezzi: se e è il tasso di cambio nominale (euro per 1 dollaro), p* i prezzi del paese estero (in dollari) e p i prezzi interni (in euro), il tasso di cambio reale è r = e p* / p. Un aumento del cambio reale significa che i beni esteri diventano più costosi di quelli domestici: se ci vogliono più euro per comprare un dollaro, il prezzo in euro di un'automobile prodotta negli Stati Uniti sale. Di conseguenza, la “competitività” del paese migliora, perché i beni stranieri diventano piu' cari per chi compra in euro. E' evidente che la svalutazione del cambio reale può avvenire o tramite la svalutazione del cambio nominale e o con una variazione dei prezzi relativi p* / p per dato cambio nominale (o una qualche combinazione dei due).
Com'e' cambiata la competitività dell’Italia dalla fine degli anni novanta? Secondo uno studio di Giordano e Zollino della Banca d’Italia, riassunto su vox, dipende dal tipo di indicatore che si utilizza. Sulla base di indicatori di prezzi alla produzione, la nostra competitività è rimasta stabile, mentre è peggiorata in termini di costo del lavoro. C’è da stare tranquilli? No, perché nel frattempo quella della Germania, il nostro partner commerciale principale, è sensibilmente migliorata, aprendo un divario fra la nostra competitività e quella tedesca fra il 10 e il 40%, a seconda dell’indicatore utilizzato (gli autori ritengono che la cifra rilevante sia quella più bassa). Recuperare competitività attraverso una riduzione dei prezzi interni rispetto a quelli esteri non è una passeggiata, soprattutto quando l'inflazione è bassa, perché una ulteriore riduzione dei prezzi interni può richiedere un processo lento e costoso in termini di disoccupazione, o una crescita forte della produttività, che in Italia langue da due decenni. Ci sono quindi pochi dubbi sul fatto che una svalutazione sarebbe lo strumento più semplice per riequilibrare il cambio reale e riacquistare competitività. Ma quali benefici potremmo aspettarci in termini di maggiore crescita e, soprattutto, quanto sarebbero duraturi? Due lavori recenti studiano l’effetto di una svalutazione del cambio sul tasso di crescita del PIL guardando alle esperienze passate.[1] Le analisi suggeriscono un’elasticità che varia fra l’1 e il 3%: una svalutazione del 30% del cambio nominale farebbe crescere il PIL fra lo 0,3 e l’1%. Le analisi indicano inoltre che questa elasticità è maggiore per i paesi in via di sviluppo, mentre per i paesi sviluppati le stime si situano nella parte bassa del ventaglio delle stime. La minore elasticita' per i paesi ricchi e' riconducibile alle caratteristiche dei beni da essi prodotti: la domanda dei beni di alta gamma, con marchi rinoscibili o qualita' difficilmente reperibile in beni sostituti, e' meno soggetta alle fluttuazioni del prezzo di vendita. Se voglio una Porsche o un iPhone la mia domanda e' rigida: e' difficile sostituire quel bene con un sostituto, anche se costa di meno, perche' di Porsche ce n'e' una sola. Molto piu facile sostituire una maglietta di cotone, scarpe non di marca, automobili di bassa gamma, e via dicendo. L’esperienza della svalutazione italiana del 1992 è coerente con questi risultati: il tasso di cambio reale della lira si svalutò sino ad un massimo del 30%. Secondo le stime sopra riportate l'effetto di questa svalutazione avrebbe contribuito ad aumentare la crescita del PIL tra lo 0,3 e l'1 per cento. Svalutare darebbe senz'altro un po’ di sollievo alla nostra economia in recessione, ma non ci farebbe crescere come 30 anni fa.
Il cambio flessibile favorisce la crescita in modo duraturo?
Ma un cambio flessibile permetterebbe di tornare a crescere in modo duraturo? La teoria economica dice chiaramente di no: il regime di cambio non influenza la crescita di lungo periodo. La crescita di lungo periodo, quella che rileva ai fini del tenore di vita dei cittadini, è determinata dalla capacità di aumentare la produttività dei fattori: questo significa creare un ambiente economico in cui imprenditori, professionisti e imprese che innovano e si dimostrano capaci di creare molto valore aggiunto si affermano (anziché' trasferirsi all'estero per sfuggire alle sabbie mobili della burocrazia nazionale e delle carriere politiche), a scapito di quelle che non riescono a innovare, che devono invece uscire dal mercato. Un paese che cresce non cresce solo grazie all'export (che nei paesi grandi costituisce una piccola parte del prodotto totale), cresce in tutti i settori. E l’evidenza è coerente con queste conclusioni: le differenze di crescita fra paesi con cambi fissi e variabili sono trascurabili, con qualche eccezione per i paesi in via di sviluppo[2]. Pensare che tornare alla lira ci riporterebbe su un sentiero di crescita duraturo è illusorio: basta uno sguardo all'andamento della crescita della produttività dei fattori italiana dal dopoguerra ad oggi per rendersi conto che il declino è iniziato almeno 10 anni prima dell'adozione dell'euro.
Uscire dall’euro e svalutare ci permetterebbe certamente di recuperare il gap di competitività velocemente. E poi? E poi due scenari sono possibili. Il primo è che alla svalutazione segue un aumento dei prezzi interni, che in un paio d’anni ci riporta al punto di partenza. Questo scenario sarebbe verosimile se la svalutazione fosse molto grande, diciamo superiore al 50%. Ricordiamoci che la storia dell'Italia, dalla fine di Bretton-Woods fino agli anni 90, fu proprio una storia di continui inseguimenti tra svalutazioni del cambio, e aumenti dei salari e dei prezzi. Forse qualcuno se lo e' dimenticato ma la lira e' stata una valuta debole, che perdeva sistematicamente di valore. Una volta che l'Italia e' stata aperta ai movimenti di capitali, i risparmi italiani si sono potuti indirizzare verso attivita' piu sicure, e che si indebitava in lire (leggi il tesoro della repubblica) era costretto a pagare un bel premio sugli interessi perche altrimenti i risparmiatori (italiani e esteri) avrebbero comprato altri titoli. Tra i grandi motivi che spinsero il paese ad adottare l'euro ci fu anche quello di dare alla politica monetaria interna quella credibilita' che non era mai riuscita a raggiungere, offrendo al tesoro enormi vantaggi economici per il finanziamento del proprio debito. Purtroppo, come alcuni temevano, questi risparmi sulla spesa per interessi (equivalenti a quasi 5 punti percentuali di PIL) sono andati a finanziare maggiore spesa anziche' a ridurre il debito (cfr. il post di Andrea Moro).
Il secondo scenario è che i prezzi non crescano, trasformando la svalutazione in un aumento persistente di competitività. Questo scenario sembra il piu' probabile nel caso di una svalutazione contenuta, che si limiti a correggere il livello eccessivamente alto del cambio reale (supponiamo rispetto alla Germania) riportandolo al livello di 10 anni fa. Ma questo secondo scenario è lo stesso che si otterrebbe con una diminuzione dei prezzi italiani rispetto a quelli tedeschi (che farebbe aumentare p*/p), e con questo condividerebbe una caratteristica fondamentale: costituirebbe un impoverimento relativo del nostro paese. A fronte di un aumento della competitività delle imprese si registrerebbe una diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori, dovuta al fatto che le importazioni diventerebbero più care. Detto diversamente, riacquistare competitività attraverso variazioni del cambio reale significa ridurre il potere d'acquisto dei salari italiani. Questo e' esattamente cio' che successe nel 1992: i prezzi al consumo in italia non registrarono impennate, crebbero meno di quelli all'importazione: in soldoni, molti italiani furono costretti a spostare il proprio paniere di consumo da beni esteri (es. una Volkswagen Golf, adesso piu cara) a beni italiani (es. una FIAT Ritmo, ora piu conveniente). Ad alcuni questo potra' parere un bene (i fan del protezionismo e delle Ritmo non mancano mai), ma quei consumatori evidentemente stavano meglio prima perche' la qualita del loro paneire di consumo e' peggiorata dopo la svalutazione (se avessero preferito la Ritmo alla Golf la avrebbero comprata anche prima della svalutazione).
Se si ritiene che il destino dell’Italia sia quello di poter competere solamente con paesi a medio livello di sviluppo, come la Polonia o la Turchia, l’uscita dall’euro sarebbe il modo più veloce e meno doloroso per raggiungere quell’obiettivo. Con salari polacchi saremmo molto competitivi rispetto ai polacchi. Ma il potere d'acquisto derivante da una giornata di lavoro sarebbe inferiore a quello attuale. Se invece si ritiene di poter competere con i paesi sviluppati, allora non c’è regime di cambio che tenga: è necessario rendere il paese più competitivo attraverso cambiamenti che aumentino la produttività del lavoro. La Germania compete da 50 anni con i paesi più avanzati del mondo nonostante una valuta molto forte, perché' produce beni di elevata qualità la cui domanda non risente della concorrenza dei paesi emergenti. Pensare di usare il cambio come scorciatoia per evitare le riforme non è solamente illusorio, è controproducente: dopo la svalutazione del 1992 le imprese italiane hanno sfruttato il temporaneo vantaggio del cambio svalutato invece di mettere in atto difficili processi di ristrutturazione.[3]
Quale paese vogliamo?
In sintesi, la decisione sula permanenza nell'euro è legata alla visione che si ha del paese. Se riteniamo che non sia in grado di competere con gli altri paesi avanzati, a causa di una amministrazione pubblica inefficiente che frena le innovazioni e le ristrutturazioni, delle rigidità nel mercato del lavoro, di un mercato dei capitali incapace di sostenere la crescita delle imprese con potenzialità di crescita, di infrastrutture fatiscenti, allora uscire dall’euro è una scelta coerente. Lo ribadiamo: ciò significherebbe allineare il reddito degli italiani a quello dei paesi meno sviluppati. Se invece vogliamo giocare la partita nella serie A, e portare i salari italiani a livello di quelli tedeschi, non esistono scorciatoie legate al regime di cambio: si devono fare le riforme che permettano alla produttività di ricominciare a crescere, recuperando il terreno che stiamo perdendo da quasi vent’anni.
[1]Virginia Di Nino, Barry Eichengreen, Massimo Sbracia “Tasso di cambio reale, commercio internazionale e crescita: Italia 1861-2011”, in L'Italia e l'economia mondiale dall'Unità a oggi, a cura di Gianni Toniolo, Marsilio; Rodrik Dany (2008), "The Real Exchange Rate and Economic Growth," Brookings Papers on Economic Activity, Fall, pp. 365-412.
[2]Guardando al period post-Bretton Woods per 178 economie, Rose (2011) conclude che non c’è evidenza che I paesi con cambi variabili crescano a tassi diversi da quelli dei paesi a tassi fissi (Rose, A.K. (2011). “Exchange Rate Regimes in the Modern Era: Fixed, Floating, and Flaky”. Journal of Economic Literature, Vol. 49, No. 3, pp. 652-672. Conclusioni simili sono ottenute da altri lavori, quali Eichengreen B., Andrew K Rose (2011). “Flexing Your Muscles: Abandoning a Fixed Exchange Rate for Greater Flexibility” NBER International Seminar on Macroeconomics Vol. 8, No. 1, pp. 353-391. Atish R. Ghosh, Anne-Marie Gulde, Jonathan D. Ostry, Holger C. Wolf” Does the Nominal Exchange Rate Regime Matter?” NBER Working Paper No. 5874, Issued in January 1997. L’unica eccezione è un lavoro che trova che nei paesi in via di sviluppo tassi fissi tendono ad associarsi con crescita più bassa, mentre nei paesi industrializzati non emerge nessuna differenza (Levy-Yeyati, Eduardo, Federico Sturzenegger (2003). “To Float or to Fix: Evidence on the Impact of Exchange Rate Regimes on Growth.” The American Economic Review, Vol. 93, No. 4. pp. 1173-1193).
"Ricordiamoci che la storia dell'Italia, da Bretton-Woods fino agli anni 90, fu proprio una storia di continui inseguimenti tra svalutazioni del cambio, ..."
All' università mi avevano insegnato che a Bretton Woods fu stabilito, tra l' altro, che le valute non dovevano né apprezzarsi né deprezzarsi, rispetto al dollaro, e che tale regime finì, di fatto, allo Smithsonian Institute (15/8/1971). Quindi almeno 26 anni di relativa pace dei cambi. Ho scoperto l' ennesima vaccata accademica rifilatami ?
La frase citata dell'articolo significava "dalla fine di Bretton Woods", come risulta anche evidente dalla nota 2, la cosa evidente è che TUTTA la svalutazione della lira nei 25 anni in questione 1971-1996 si è trasformato in un differenziale di inflazione, senza nessun effetto positivo sulla crescita.
Nel sistema di bretton Woods i cambi erano fissi, rispetto al dollaro - la banca centrale si impegnava a vendere/acquistare valute ad una parità prefissata. I singoli paesi potevano modificare le parità svalutando (p.es. la sterlina nel 1967 - credo anche la lira ma non mi ricordo quando) o rivalutando (il marco) in caso di squilibri strutturali della bilancia dei pagamenti. Squilibri temporanei erano invece risolti con prestiti del Fondo Monetario Internazionale