La scelta che Italia dei Valori deve fare per quanto riguarda la politica economica può essere messa in termini molto secchi, come segue.
La prima possibilità è che Italia dei Valori si colleghi a una tradizione liberale che, per quanto debole e minoritaria, è sempre esistita all'interno della sinistra italiana. È una tradizione che raccoglie nomi illustri, da Piero Gobetti a Ernesto Rossi, e che ha sempre accompagnato all'attenzione per la questione sociale e le disuguaglianze economiche una profonda fiducia nella capacità di auto-organizzazione della società e un atteggiamento favorevole all'iniziativa individuale, alla concorrenza e al libero mercato. All'interno di questa tradizione si è sempre segnalato come la lotta ai privilegi e ai monopoli in campo economico sia non solo un importante elemento per lo sviluppo e il raggiungimento dell'efficienza economica ma anche, mediante l'espansione delle opportunità e la loro apertura a tutti i cittadini, un essenziale veicolo per la promozione dell'uguaglianza e della giustizia.
La seconda possibilità è quella di ricollegarsi al filone socialista-statalista che da sempre risulta maggioritario nella sinistra. Questa tradizione favorisce l'intervento massiccio dello Stato in economia, sia a fini di politica industriale sia a fini redistributivi, guarda con diffidenza al libero mercato e alla iniziativa privata e ignora i pericoli che derivano dal controllo politico dell'economia e dalla creazione di monopoli pubblici e privati.
La scelta tra le due alternative ha immediate conseguenze in termini della strategia politica del partito e del centrosinistra più in generale. L'adozione di una politica economica liberale va di pari passo con la scelta di espandere il consenso del partito tra i ceti produttivi e nel mondo della piccola impresa, includendo in tale mondo sia imprenditori sia dipendenti. Questi ceti al momento danno il loro consenso in modo maggioritario alle forze di centrodestra, a nostro avviso senza ottenere in cambio alcunché di sostanziale. Gli estenuanti e continui annunci di una futura riduzione delle tasse che si ripetono da sedici anni, accompagnati da continui aumenti della spesa pubblica da parte dei governi di centrodestra, ne sono una dimostrazione evidente. D'altro lato, la scelta socialista-statalista può probabilmente attrarre al partito i rimasugli della sinistra radicale e metterlo in competizione con il centrodestra per la cattura del consenso popolare che assume forme clientelari e di dipendenza dai sussidi pubblici.
Va anche detto che, sul piano della pura strategia politica, la scelta statalista conduce ad un appiattimento sulle posizioni sia del PD sia del PdL, i quali sono oggi entrambi due partiti a forti connotazioni assitenzialiste-stataliste. Una competizione a chi sia più statalista e più anti-liberale non può non essere dannosa per un partito come l'IdV, visto che sia PD che, soprattutto, PdL, hanno non solo una tradizione ideologica forte che li spinge in direzione (rispettivamente) socialista e peronista, ma anche l'accesso alle leve del potere statale e della finanza pubblica per trasformare le proprie promesse stataliste in assistenzialismo e clientelismo effettivi e quotidiani. In sostanza: pensare e sostenere oggi che più stato e più controllo politico siano le soluzioni alla crisi italiana non vuol dire solo far danno all'Italia, vuole anche dire fare il verso a Tremonti e a Bersani e diventarne subalterni.
Noi riteniamo che una scelta liberista sarebbe essenziale e benefica non solo per Italia dei Valori ma per tutto il paese. L'Italia è al momento un paese ingessato, impaurito, incapace di assumere iniziativa e di guardare al futuro. La pervasiva presenza statale in economia permette alla casta politica di esercitare un ferreo controllo su quasi tutti gli aspetti della vita sociale. Così facendo, questo controllo dello stato e della politica sull'economia e la società provoca due danni estremamente gravi: da un lato tarpa l'iniziativa personale, impedisce la concorrenza e demotiva il merito rimpiazzandolo con il servilismo clientelare, dall'altro crea dei costi economici e sociali inutili e aggiuntivi per mantenere l'immane macchina clientelar-burocratica che tale controllo sociale esercita. Le rendite parassitarie, l'inefficienza e l'alta tassazione sono conseguenze dirette e drammatiche di tali scelte politiche.
Questo è, a nostro avviso, il principale impedimento a una ripresa della crescita economica in Italia. Porre un termine allo strapotere esercitato da una casta corrotta e incompetente è quindi il primo e più urgente compito che chi ha a cuore i destini del paese deve affrontare. L'unico modo serio ed efficace per ridurre il potere della casta è ridurre la spesa pubblica e l'intervento dello stato nell'economia: cercare di catturare uno ad uno i piranhas diventa compito improbo quando sono troppi. Occorre togliere loro l'acqua stagnante in cui si moltiplicano. La scelta di tipo statalista invece non può che condurre a nuovi disastri. È prima di tutto una scelta che è diventata semplicemente ingestibile dal punto di vista economico, perché richiede livelli ormai divenuti allucinanti di tassazione. Ma è anche una scelta che non può che risultare odiosa a chiunque abbia a cuore l'uguaglianza delle opportunità per i cittadini. L'Italia è diventato il paese in cui la connessione giusta e la vicinanza al potere politico sono vastamente più importanti del merito e del duro lavoro per il successo individuale. Questa situazione non è solo foriera di stagnazione economica e mancato sviluppo. È anche profondamente ingiusta e discriminatoria nei confronti di quei tanti italiani che non hanno avuto la fortuna di nascere nella famiglia ben connessa.
Fare una scelta liberale, di lotta ai monopoli pubblici e privati e di lotta ai privilegi della casta, impone di fare proposte chiare, senza nascondersi dietro frasi allusive e ambigue. Perché è solo dalle proposte concrete che è possibile definire la propria identità politica. Quindi lasciateci fare un paio di esempi concreti, di cose che ci piacerebbe vedere e di cose che abbiamo visto e non ci sono piaciute.
Proposta concreta che vorremmo fosse adottata dall'IdV: spezzare la Rai in tre reti e venderla ai privati. Questo consentirebbe da un lato di abolire il canone Rai, una odiosa tassa regressiva, e dall'altro di aumentare il pluralismo nell'informazione. Le tre reti andrebbero vendute a soggetti diversi e la legislazione antitrust dovrebbe impedire che un singolo soggetto controlli più di una rete nazionale. Al tempo stesso, lo Stato dovrebbe uscire in modo completo dal settore dell'informazione, eliminando tutti i sussidi alla stampa e agli altri media. È solo un esempio di ciò che va fatto e di cosa significa parlare chiaro. È anche un esempio di un provvedimento che godrebbe sicuramente del favore popolare e colpirebbe al cuore la casta, che ha sempre usato la Rai e i sussidi ai media per i propri comodi e per manipolare l'informazione.
Una proposta concreta che non ci è piaciuta per niente: l'emendamento del senatore Lannutti che impone limiti ai salari dei dirigenti delle aziende private. È perfino difficile iniziare a criticare un provvedimento del genere tanto è privo di senso, ma la domanda che facciamo è molto semplice. Veramente crediamo che delegare alla classe politica la determinazione del prezzo del lavoro, sia pure solo il lavoro manageriale, sia una buona idea? Possibile che la storia italiana non abbia insegnato nulla? Se si ritiene che i manager privati (altro discorso vale per quelli pubblici, sui quali è logico che il controllo sui salari venga esercitato politicamente) sfruttino i propri azionisti per ottenere salari esorbitanti, allora occorre intervenire sui meccanismi di controllo societario per dare maggior potere agli azionisti. E poi, possibile che non venga in mente a nessuno che le società potrebbero semplicemente muovere i propri centri direttivi all'estero?
Nel futuro l'IdV dovrà fare questa scelta, che finora non è stata completamente sciolta. Dovrà scegliere se essere un partito che guarda con favore alla concorrenza e alla libera iniziativa, e che intende colpire tutte le posizioni di monopolio pubblico e privato, oppure se essere l'ennesimo partito che a fronte di qualunque problema propone di aumentare il potere dei politici e l'intervento statale.
Chi ha avuto occasione nel passato di leggere questo sito sa che siamo abituati a parlare con molta franchezza. Abbiamo voluto farlo anche in questa occasione, perché a nostro avviso il paese ha disperatamente bisogno di un dibattito concreto sulle scelte economiche che venga fatto con passione e competenza. Il dibattito congressuale di Italia dei Valori si incentrerà probabilmente su temi differenti dalla politica economica. Ma, presto o tardi, le scelte di politica economica andranno fatte e saranno quelle in primo luogo che determineranno il futuro del partito. Possiamo solo chiedere che, quando la discussione ci sarà, essa venga fatta usando i dati e la teoria economica. Che, per l'Italia, sarebbe una bella novità.
Purtroppo più che una scelta tra tradizione liberale e filone socialista, l'unico vero collante di IdV (direi giustificato, anche se modesto nel medio-lungo periodo), rimane l'antiberlusconismo.
Viceversa dentro il partito, per quel che ho visto e frequentato negli ultimi 18 mesi, c'è veramente di tutto: "estremisti sociali" come Pancho Pardi e Leoluca Orlando, liberali come Antonio Borghesi che però invita sul suo sito il sig. Tanzi al suicidio (l'istigazione al suicidio non è reato?), difensori del posto di lavoro "qualunque sia" (Di Pietro con i lavoratori dell’Alitalia e Zipponi a difesa degli operai saliti sul tetto di non mi ricordo più quale fabbrica decotta da anni, posizione peraltro giustamente contrastata da Borghesi), la già ricordata geniale trovata del senatore Lannutti con il tetto alla retribuzione dei manager delle società quotate in Borsa (forse puntando ad ottenere il sostegno dei manager ad un ulteriore ritocchino delle retribuzioni degli onorevoli?).
Sulla privatizzazione della RAI, a specifica domanda fatta dal sottoscritto al senatore Orlando a Treviso qualche mese fa, non ho avuto il piacere di una risposta positiva (ma a dire il vero non aveva ancora perso la speranza di poter diventare Presidente della Commissione di Vigilanza RAI). Sulla privatizzazione del Casinò di Venezia, proclamata con forza dall’on. Donadi all’incontro di Vasto a settembre, ho riscontrato ben diverse reazioni tra i consiglieri comunali di IdV di Venezia, e a questo punto la palla è passata a Brunetta, che lo ha ribadito nel suo programma (anche se un consigliere di amministrazione del Casinò rappresentante del centro destra mi aveva detto che non era giuridicamente possibile).
Sulla democrazia interna qualche concreto dubbio lo ha posto Micromega (n. 5 anno 2009, pag. 35 e segg. “c’è del marcio in Danimarca, l’Italia dei Valori Regione per Regione: Deficit di democrazia interna e strapotere in mano di pochi e discussi professionisti della politica. E’ il risultato della passata strategia di corto respiro di IdV imbarcare a destra e a manca, e soprattutto al centro, transfughi di altre formazioni politiche, consegnando loro le chiavi delle federazioni locali) e lo pongo anch’io sulla questione spicciola delle primarie di coalizione per la scelta del candidato sindaco di Venezia. L’Italia dei Valori ha deciso di sostenere uno dei tre candidati: il sottoscritto, che ne sosteneva un altro, è stato, di fatto, espulso dal partito con un meccanismo molto sovietico in cui si è unita la totale indifferenza alle mie richieste di chiarimento (ho chiesto che senso aveva, nelle primarie, che il partito si schierasse per un solo candidato, senza lasciare libertà di scelta: almeno il PD ha avuto il buon gusto di non farlo) al giudizio di “mona” che mi è stato attribuito da un dirigente del partito.
Direi che il tutto mi è parso sufficiente per perdere la fiducia.