Noi di nFA, si sa, siamo favorevoli alla competizione in tutti i campi a condizione che questi campi siano ben livellati. Pensiamo infatti che la competizione sia il modo migliore per mettere la persona giusta al posto giusto, ossia per massimizzare i frutti del talento individuale.
Ogni persona, infatti, ha qualche talento (magari nascosto all'osservatore esterno), chi più chi meno ma tutti ugualmente utili fatte le dovute proporzioni. Quando questi talenti sono allocati in modo da massimizzarne i frutti c'è un ovvio beneficio per tutti, non solo per chi il talento lo possiede. Gli economisti dicono che questo ci porta sulla "frontiera paretiana"
Il modo migliore per realizzare questa allocazione ottimale è far si che vinca sempre e comunque il migliore in una competizione che sia equa e ben regolata. Questo permette al talento di rivelarsi. In una competizione equa e ben regolata, infatti, non contano cose come le connessioni sociali, l'appartenenza a una parte o a un'altra, le posizioni iniziali (se non nella misura in cui queste già riflettono il talento), eccetera. Per cui il talento, in media, si manifesta necessariamente in competizioni fatte cosi'
Per esempio, su nFA e altrove si denunciano episodi in cui i vincitori di un concorso per professore in qualche università non siano assegnati con criteri di merito, perché così non avremo mai la migliore università possibile, ma sempre una mediocre.
Abbiamo quindi sempre visto con simpatia il calcio (senza nulla togliere alle altre competizioni sportive) perché ci sembra possa insegnare quanto funziona bene il principio della selezione attraverso la competizione. Tutti capiscono che se un club vuole vincere la Champions League, o una nazionale la Coppa del Mondo, non può selezionare la formazione sulla base di simpatie, alleanze, e patti nascosti. In campo deve andare il migliore. Tutti capiscono che se un giocatore fa la differenza in campo, allora è necessario pagarlo quanto vale, e stipendi di milioni di euro sembrano perfettamente giustificati. E tutti capiscono anche che questo talento a volte va cercato all’estero. E tutti capiscono che il talento è cieco ai colori come li vediamo noi: se per caso un talento italiano in attacco ha la pelle scura, ben venga in nazionale. Lo sport in generale, insomma, può insegnare molti valori: competizione, tolleranza, accettazione del successo altrui. E il calcio in particolare (in Europa almeno, vista la dimensione del mercato) insegna che il mercato stabilisce il giusto prezzo del talento quando la competizione è equa.
Così, a chi si chiedeva perche nelle università italiane ci siano pochissimi professori non italiani e perché le università non italiane pullulino di talenti italiani avremmo risposto che il motivo è che gli italiani non sanno apprezzare il talento, in particolare quello che che viene da fuori, e che questo disprezzo del talento è dimostrato dal modo in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, si assegnano i posti di lavoro e si decidono le promozioni nelle università e negli altri comparti della pubblica amministrazione.
E avremmo indicato squadre di club come l'Inter il cui allenatore (che era venuto da fuori) mette spesso e volentieri undici giocatori in campo che vengono dall’estero. Insomma, avremmo osservato che per le cose che prendiamo sul serio (gli italiani prendono il calcio molto sul serio) sappiamo benissimo come fare per vincere. Sappiamo benissimo come scovare, valorizzare e ben remunerare il talento. Quindi la prescrizione era chiara: facciamo come si fa nel calcio e andremo bene.
Questo solo fino a ieri, quando Jose' Mourinho ha confermato se ne va. Certo, si tratta di un caso e ci sono molti altri talenti che non se ne vanno, ma la vicenda pone comunque una domanda: forse l'Italia anche nel calcio, un settore dove sa attrarre, valorizzare e ben remunerare i talenti, non è poi capace di trattenerli questi talenti? La domanda è cruciale, perché se così fosse allora andrebbe ripensato il modo in cui concepiamo il problema della fuga dalle università e dagli altri centri di ricerca, ad esempio: forse il brain drain che vediamo non è solo questione di soldi che paghiamo o di strutture che offriamo? C'è qualcosa di più profondo? Cosa ci insegna il caso Mourinho?
Iniziamo dal capire perché se ne va. Una spiegazione Mourinho l'ha data alla fine del campionato:
C'è stato un momento della stagione in cui non mi sentivo nel mio habitat, e pensavo che questa non era la mia casa e questo non era il Paese dove io potevo essere felice lavorando, poi però non ho avuto più tempo per pensare a questo.
Evidentemente dopo ha trovato il tempo per pensarci e ha preso la decisione. La parte in grassetto l'abbiamo enfatizzata noi, perché è quello che potrebbe dire uno qualunque degli italiani che affollano le università in USA, UK, Spagna, Germania, Francia, Svizzera, e chissà quanti altri paesi. E non solo le università, s'intende, perché il brain è fenomeno intersettoriale. Cioé, molti accademici espatriati pensano esattamente questo: in Italia puoi vivere felice ma è davvero difficile, se vuoi fare ricerca, vivere felice e anche lavorare felice. Perché? Cosa c'è che congiura?
Quanto sei pagato è certamente parte della storia, ma non è tutto. Impariamo ancora dal caso Mourinho: José è pagato profumatamente eppure non può vivere e lavorare felice. Il perché non poteva lavorare felice l'ha suggerito fra le righe più volte: in Italia non si sente a casa, perché da dieci punti di vantaggio l'Inter si è trovata sotto di uno (poi ha vinto comunque e gli interisti devono ringraziare solo la Sampdoria ricorda il sampdoriano GZ all'interista AR), perché molte partite le ha dovute vedere dalla tribuna, perché in Italia non si parla mai dei problemi veri, ed è per questo che abbiamo avuto calciopoli. Insomma Mourinho ci sta dicendo che non capiamo il fair play, che anche nel calcio portiamo un veleno, un'amarezza che poi si estende a (riflette, precisiamo noi che siamo scienziati sociali :-)) tutte le altre attività. In sostanza, che non capiamo la cosa più importante: che voler vincere, volerlo fortemente, non ci dovrebbe impedire di ammirare e riconoscere le qualità e il successo degli altri. E ripensando al calcione che l'italiano Totti ha rifilato all'italiano Balotelli quando era chiaro che la Roma avrebbe perso la Coppa Italia, oppure all'invito a vergognarsi che la presidenza della Roma ha rivolto alla presidenza dell'Inter dopo Lazio-Inter sostiamo, pensosi.
I giornalisti sportivi non l'hanno mai amato e non ne hanno mai fatto un segreto. Per loro era uno sbruffone arrogante e come tale andava trattato. Lui d'altra parte non ha cercato l'inciucio con loro: giudicatemi per il mio lavoro, avrà pensato, non per quanto sono piacevole con voi. Ci pare la metafora del perché se vuoi lavorare seriamente hai vita difficile in Italia.
Noi non sappiamo se Mourinho sia sincero oppure no. Il fatto che la mattina dopo la vittoria a Milano a celebrare ci fosse tutta la squadra senza di lui ci fa pensare che forse il suo attaccamento principale, forse esclusivo, è a José Mourinho, un uomo ambizioso che insegue il successo personale. Ma cerchiamo di prendere un insegnamento: questo successo personale poteva (continuare a) realizzarlo anche in Italia -- persino essere l'unico allenatore ad aver vinto tre volte la Champions con tre squadre diverse visto che l'Italia ha tre squadre in Champions League oltre all'Inter (ma proprio oggi e' stata rilasciata la parte inedita dell'intervista a Marca: le tre Champions vanno vinte con squadre inglesi, italiane e spagnole per fare il grande slam). E invece se ne va. Lui come tanti altri, fuori e dentro il calcio. Forse questi talenti in fuga ci stanno mandando un segnale importante che non cogliamo? (Si, lo sappiamo c'è anche il messaggio del talento che non se va, ma questo è un post su chi non viene o se ne va, non su chi resta.)
interessante e condivisibile